Beatrice Sica
Chi ha paura del fantastico femminile?

 

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Sommario
I.
II.
III.
Ironia e lucidità
Emozione e intelletto
Chi ha paura del fantastico femminile?


 

L'individuazione di un fantastico femminile rimanda forzatamente alla categoria di fantastico maschile, implicitamente definito e contrario: se non altro, fantastico maschile è tutto quello da cui il fantastico femminile si è più o meno consciamente e programmaticamente differenziato.1 A tutt'oggi non esiste una teoria che permetta di rendere conto con piena soddisfazione del fantastico femminile.2 Mentre la attendiamo, non è forse inutile tornare a riflettere su come il fantastico (maschile) si è costruito prima che le donne si affacciassero sulla scena e rivendicassero il loro diritto di presenza nel panorama della letteratura fantastica. La riflessione, incentrata qui sull'Italia del Novecento, toccherà due punti distinti ma connessi: critica e letteratura. In particolare: come è stato visto ed elaborato, da un punto di vista critico, il fantastico prima che si riconoscesse anche alle scrittrici un ruolo non soltanto di comparse? E poi: quale immagine del femminile nella letteratura fantastica hanno restituito gli scrittori (uomini)?

 

§ II. Emozione e intelletto

I. Ironia e lucidità

Nel dibattito critico sviluppatosi dagli anni Ottanta in poi, la cifra caratteristica del fantastico italiano del Novecento è stata riconosciuta fin da subito in un'idea di scrittura lucida e ironica.3 Ironia e lucidità intellettuale sono davvero due termini chiave. Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo, nel secondo volume dell'antologia Notturno italiano (1984), non le nominano direttamente ma le pongono implicitamente a fondamento del fantastico novecentesco richiamandosi a Leopardi e Croce:

«Se il racconto fantastico novecentesco diviene […] tutt'altra cosa rispetto all'antenato ottocentesco, […] ci piace pensare che il motivo sia da ricercarsi nell'ironica osservazione di Leopardi, secondo il quale nessuna nazione meno dell'italiana crede all'esistenza degli spiriti. Garantisce autorevolmente la praticabilità dell'ipotesi Benedetto Croce che, in uno scritto del 1948 Sulla conoscibilità e inconoscibilità del mondo misterioso, osserva: "filosofare è sempre dissipare misteri, […] sempre superando le svariate forme con le quali il mistero di volta in volta viene a dare risalto all'eterna verità".
Del resto l'insofferenza per il 'mistero' […] è presente in Croce già nei primi del secolo».4

Insomma l'Italia si sarebbe data al fantastico solo quando le convenzioni del genere fossero divenute più congeniali al suo spirito: cioè nel Novecento, quando credere agli spettri sarebbe passato di moda e avrebbe preso piede, invece, un atteggiamento più smaliziato di fronte ai casi narrati, più ironico, più giocato sulla lucidità dell'impianto narrativo che sull'effetto emotivo della storia. Entro questa cornice, Ghidetti e Lattarulo leggono le principali manifestazioni novecentesche della letteratura fantastica in Italia come rielaborazioni di «situazioni canoniche del repertorio fantastico ottocentesco»5 (Svevo, Gozzano), «risarcimento romantico» (Papini, Soffici), «romanticismo estremo»6 (Landolfi, Vigolo), «rivendicazione dei diritti del fantastico nei confronti delle sopravvivenze realistiche e naturalistiche, di tipo esasperatamente intellettualistico»7 (realismo magico di Bontempelli), mettendo in luce, tra tutte, soluzioni come quella di «Pirandello naturalista deluso che costringe l'invenzione fantastica negli algoritmi di "una specie di matematica morale"»,8 o l'«esperienza del maggior narratore fantastico italiano dei nostri giorni [cioè della metà degli anni Ottanta], Italo Calvino», con la sua «tendenza al conte philosophique di settecentesca memoria».9 In altre parole, molto novecentescamente: intelletto raziocinante e umorismo; ironia e lucidità del disegno narrativo.
Sulla linea di Ghidetti e Lattarulo si muove negli stessi anni anche Calvino. Il suo saggio Il fantastico nella letteratura italiana (1985) si apre con una lunga citazione dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Dopo averne messo in rilievo l'ironia («Leopardi non sarebbe Leopardi senza la leggerezza dell'ironia sempre presente»),10 Calvino lega Leopardi ai romantici tedeschi:

«C'è dunque un nodo storico e filosofico, comune ai romantici e all'antiromantico Leopardi, che sta alle origini del fantastico moderno, ed è il nodo che allaccia insieme e contrappone il racconto fantastico quale nasce in Germania agli inizi del secolo XIX al suo predecessore diretto: il conte philosophique del Secolo dei Lumi. Come il racconto filosofico era stato l'espressione paradossale della Ragione illuminista, così il racconto fantastico nasce come sogno a occhi aperti dell'idealismo filosofico, con la dichiarata intenzione di rappresentare la realtà del mondo interiore, soggettivo, dando a esso una dignità pari o maggiore a quella del mondo dell'oggettività e dei sensi. Racconto filosofico anch'esso, dunque, e tale resterà fino a oggi, pur attraverso tutti i cambiamenti del paesaggio intellettuale».11

Anche Calvino, dunque, come Ghidetti e Lattarulo, legge il fantastico italiano secondo la matrice anti-romantica e filosofica di Leopardi (mentre il fantastico romantico ottocentesco sarebbe una variante in seno all'idealismo tedesco). Ma non solo: nella linea che si diparte dal conte philosophique e dà vita al fantastico moderno, Calvino pone anche se stesso («Racconto filosofico [...], e tale resterà fino a oggi, pur attraverso tutti i cambiamenti del paesaggio intellettuale»). Lo avevano già detto i curatori di Notturno italiano, del resto: Calvino come «maggior narratore fantastico italiano» moderno, con la sua «tendenza al conte philosophique». Insomma, la posizione di Calvino non si discosta molto da quella di Ghidetti e Lattarulo: il fantastico lucido e ironico, dopo essersi inabissato nelle profondità carsiche in cui lo aveva spinto la voga degli spettri romantici d'oltralpe, riemerge limpido, in Italia, nel Novecento. Scrive ancora Calvino:

«È quello il vero seme da cui poteva nascere il fantastico italiano. Perché il fantastico, contrariamente a quel che si può credere, richiede mente lucida, controllo della ragione sull'ispirazione istintiva o inconscia, disciplina stilistica [...]. È soprattutto nel nostro secolo, quando la letteratura fantastica, perduta ogni nebulosità romantica, s'afferma come una lucida costruzione della mente, che può nascere un fantastico italiano, e questo avviene proprio quando la letteratura italiana si riconosce soprattutto nell'eredità di Leopardi, cioè in una limpidezza di sguardo disincantata, amara, ironica».12

Il ragionamento pare filare liscio, ma forse il quadro non è chiaro fino in fondo. Se è vero che «il fantastico [...] richiede mente lucida», allora quello dei romantici d'oltralpe non è vero fantastico? Sono solo «nebulosità»? E gli italiani, con il loro fantastico novecentesco, avrebbero ristabilito le proporzioni che i romantici europei avevano perso, e che nella penisola, invece, non si erano mai smarrite? E agli scrittori fuori d'Italia, nel Novecento, cosa è successo? Sono rimasti nebulosi, amanti degli spettri, o hanno trovato anche loro la piena lucidità moderna?

 

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II. Emozione e intelletto

Calvino aveva parlato del fantastico ben prima che uscisse l'antologia Notturno italiano. Nel 1970, rispondendo a un'inchiesta sulla letteratura fantastica in occasione dell'uscita dell'Introduction à la littérature fantastique di Todorov, aveva scritto:

«Nel linguaggio letterario francese attuale il termine fantastico è usato soprattutto per le storie di spavento, che implicano un rapporto col lettore alla maniera ottocentesca: il lettore (se vuole partecipare al gioco, almeno con una parte di se stesso) deve credere a ciò che legge, accettare di essere colto da un'emozione quasi fisiologica (solitamente di terrore o d'angoscia) e cercarne una spiegazione [...]. In italiano (come originariamente anche in francese, credo) i termini fantasia e fantastico non implicano affatto questo tuffo del lettore nella corrente emozionale del testo; implicano, al contrario, una presa di distanza, una levitazione, l'accettazione d'un'altra logica che porta su altri oggetti e altri nessi da quelli dell'esperienza quotidiana [...]. Così si può parlare del fantastico del Ventesimo Secolo oppure del fantastico del Rinascimento. Per i lettori d'Ariosto non si è mai posto il problema di credere e spiegare; per loro [...] il piacere del fantastico si trova nello sviluppo d'una logica le cui regole, i cui punti di partenza o le cui soluzioni riservano delle sorprese. [...] Il fantastico dell'Ottocento, [è un] prodotto raffinato dello spirito romantico [...]. Nel Novecento è un uso intellettuale (e non più emozionale) del fantastico che s'impone: come gioco, ironia, ammicco».13

Qui si ritrova la distinzione tra il fantastico ottocentesco di tipo romantico-emozionale e il fantastico novecentesco ironico-razionale che abbiamo visto sopra. L'opposizione però si disegna non solo in termini cronologici, ma anche geografici: fantastico, in Francia, si riferirebbe alla tipologia emozionale, almeno a partire dallo studio di Todorov, mentre in Italia continuerebbe a indicare lo spazio aperto di una logica altra, senza il problema dell'emozione suscitata dal testo o dell'incredulità o credulità del lettore di fronte ai fatti narrati. Ma c'è di più: una questione di sviluppo storico. Nel Novecento, sostiene Calvino, si impone il fantastico intellettuale a scapito di quello emozionale: e con ciò la letteratura italiana avrebbe trovato una nuova fioritura nel fantastico riallacciandosi a una matrice ironica che era già presente, nella sua tradizione, nel Rinascimento, per esempio in Ariosto. E in Francia? Se anche in francese, originariamente, il termine fantastico non implicava l'«emozione quasi fisiologica» di fronte al testo tipica del fantastico romantico, bisogna dedurne che Calvino vede nella variante emozionale romantica una cesura. Bene; e nel Novecento che succede? Cosa hanno fatto gli scrittori francesi di fronte all'«uso intellettuale (e non più emozionale) del fantastico che s'impone» dopo la cesura o parentesi romantica? Calvino non lo dice. Quel che gli importa stabilire è che il fantastico novecentesco italiano è lucido, ironico, razionale, ammiccante, e che in questo ha un ottimo pedigree da esibire: è un prodotto nobile, viene da lontano, è addirittura di marca rinascimentale, ariostesca. Insomma, è chiaro: Calvino, autore italiano fantastico novecentesco, è proprio in buona compagnia.
Alle voci di Ghidetti, Lattarulo e Calvino si è aggiunta, sempre negli anni Ottanta, quella autorevole di Gianfranco Contini, la cui antologia Italia magica, già allestita in francese nel 1946 e stampata in italiano nel 1988, è stata facilmente inserita, per effetto di una "mirata mislettura", nel dibattito italiano sul fantastico. Che il magico proposto da Contini non fosse affatto da intendersi nel senso del fantastico indagato dalla teoria dei generi dopo l'uscita del libro di Todorov, è stato già dimostrato.14 Qui però interessa vedere cosa la voce di Contini ha portato a quel dibattito. Scrive Contini nella Prefazione:

«Si suole assegnare alle brume del Settentrione [...] il monopolio della sensibilità magica in letteratura. Nel paese dell'intelligenza il surrealismo fu un tentativo di scaricare l'intelletto con procedure essenzialmente intellettuali [...]. Nel cuore dell'Occidente, dove la lucidità del controllo è ineliminabile, è possibile un'altra soluzione, se si passa [...] alla narrativa: isolare l'eccezione attraverso i filtri dell'ironia. Sono varianti di questa soluzione [...] che sono state adottate [...] in questa antologia. […] Ecco del magico senza magia, del surreale senza surrealismo».15

Ecco di nuovo, per altra via, alcuni termini della stessa questione già vista prima. Contini parla del magico in letteratura e dice che tradizionalmente lo si associa al Romanticismo nordico («alle brume del Settentrione»). Nel Novecento, la ripresa del magico da parte dei surrealisti francesi ha comportato una soluzione intellettualistica, cioè suscitare l'irrazionale meccanicamente, a tavolino, attraverso la scrittura automatica («scaricare l'intelletto con procedure essenzialmente intellettuali»). In Italia, invece, «cuore dell'Occidente, dove la lucidità del controllo è ineliminabile», si può fare del magico in letteratura senza la magia nera dei romantici o la scrittura automatica dei surrealisti, ma applicando i filtri dell'ironia, attraverso cioè un surreale lucido e ironico. La polemica di Contini era verso il surrealismo francese e la scrittura automatica, e la sua idea di magico non coincideva veramente con quello che poi è stato chiamato fantastico, ma si capisce bene come il suo discorso, incentrato sulla lucidità del controllo e sull'ironia, si sia prestato a entrare nel dibattito post-todoroviano degli anni Ottanta. Tanto più che Contini, mentre sosteneva nel 1988 la validità della sua scelta originaria di autori, risalente al 1946, aggiungeva sornionamente che «il catalogo sarebbe [...] invariato anche se due autori lo raggiungerebbero inevitabilmente: Mario Soldati [...] e Italo Calvino»,16 cioè i due scrittori che, insieme a Primo Levi, chiudono Notturno italiano.
Dunque, ricapitoliamo. Dai tre poli critici (Ghidetti e Lattarulo; Calvino; Contini) visti sopra, su cui si è fondato il canone e da cui è partita l'elaborazione critica del fantastico italiano, si ricava quanto segue. Fantastico, in italiano, si riferirebbe a narrazioni dove l'autore lavora su una logica altra rispetto a quella del quotidiano e guarda le cose con distacco ironico, con ammiccante leggerezza. Questo era vero nel Rinascimento, ai tempi di Ariosto, come è vero nel Novecento, con Calvino. Fuori d'Italia, invece, le cose starebbero diversamente: in Francia, dove pure originariamente fantastico aveva la stessa accezione, si indica piuttosto, sulla scorta di Todorov, una narrazione che suscita un'emozione forte nel lettore, di spavento e inquietudine, come nelle storie ottocentesche che si reggono sul "credere" agli strani casi narrati. Allo stesso modo il racconto fantastico come emerge in Germania agli inizi dell'Ottocento mira a dar voce al mondo interiore dell'uomo, alla soggettività dell'individuo, e nasce come controcanto portato dall'idealismo filosofico alla Ragione e al Secolo dei Lumi. Ecco la divaricazione portata dal Romanticismo: il fantastico in Francia e in Germania si sarebbe spinto a esplorare gli oscuri recessi della mente, le paure dell'uomo, le inquietudini del mondo interiore, con racconti che spingono a credere all'esistenza di una realtà altra, di là da quella percepita dai sensi. L'Italia, in questo campo, avrebbe dato poco, troppo lucida e ironica per credere agli spiriti. Nel Novecento, poi, il surrealismo francese avrebbe proseguito sulla via inaugurata dal Romanticismo fino a praticare la scrittura automatica, mirando a far emergere l'inconscio direttamente dalla penna che scorre senza il controllo della ragione. L'Italia, invece, come non si era abbandonata alle «nebulosità» degli spettri romantici, così non si lascia andare all'irrazionalità, pur calcolata, dell'automatismo à la manière de Breton, ma rinasce al vero fantastico, fatto di gioco e ammicco al magico-surreale, proprio nel Novecento, quando, disperse le nebbie romantiche, si afferma (o riafferma, è il caso di dire) un fantastico ironico e intellettuale di cui la penisola aveva già fornito preclari esempi con Ariosto.
Il quadro appena descritto, se mira a rendere ragione di un diverso sviluppo del Romanticismo prima, e dell'avanguardia poi, in Italia rispetto ad altri paesi europei, si presta d'altra parte - ci pare, piuttosto pericolosamente - all'affermazione più o meno esplicita di una costituzionale propensione italiana alla razionalità e dunque all'individuazione di un fantastico italiano "geneticamente" luminoso e terso, per cui la storia letteraria finisce per essere vista e presentata, nei casi peggiori, non come l'effetto di opzioni culturali ma di tendenze "naturali". Così il fantastico italiano del Novecento è stato descritto anche nei termini di «un fantastico classico, come quello di Leopardi, "latino", non più giocato sull'ombra [come quello romantico], ma sulla luce e i suoi miraggi»,17 perché esisterebbe uno «"spettro solare" tipicamente italiano»,18 per il quale «la fantasia italiana [...] rifugge dai toni e dalle atmosfere cupe, non genera mai orrore. È "classica", non "romantica"».19 È una bella favola critica, questa dell'Italia letteraria sempre lucida e razionale, ma come ha scritto Remo Ceserani, «ethnic explanations of this kind do not pass a critical scrutiny»;20 e tanto dovrebbe bastare per non continuare, periodicamente, a riproporle. In ogni caso, questa favola bella interessa qui per il peso che ha esercitato non solo sulla critica italiana sul fantastico, ma anche, indirettamente, sull'elaborazione della categoria di fantastico femminile in Italia.
(Per inciso, sarà anche da notare che i termini di questa storia del «fantastico emozionale» romantico ottocentesco fuori d'Italia, basato sul credere alle storie narrate, e dell'ironia e della razionalità italiane e tutte novecentesche, sono stati cambiati, all'occorrenza, senza preoccuparsi troppo di eventuali contraddizioni;21 e però anche senza che questo abbia portato a un ripensamento generale di quelle categorie).

 

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III. Chi ha paura del fantastico femminile?

Se la critica ha posto fin da subito il fantastico italiano sotto il segno della lucidità e dell'ironia, si capisce bene perché le donne, tradizionalmente percepite come creature terrigne, instabili, umorali, irrazionali, hanno faticato tanto a trovarvi un po' di spazio prima di tutto come autrici. Né le aiutava l'immagine che di esse restituivano, nell'ambito del fantastico e proprio in opposizione all'essenza maschile lucida e ironica, gli scrittori uomini nelle loro opere. E così veniamo a toccare brevemente il nostro secondo punto.
Partiamo da uno dei maggiori autori novecenteschi del fantastico italiano, che dell'ironia faceva una bandiera e vedeva in essa un «utilissimo filo d'Arianna»22. Secondo Savinio, l'uomo appena ebbe scoperto «in sé le infinite risorse dell'ironia, [...] si sentì sicuro e signore» del mondo: fu grazie all'ironia che «egli posò un occhio meno cupo e sospettoso sulla bruna e taciturna natura; […] s'abituò a volgere senza spavento lo sguardo sugli orizzonti dei mari e della terra. Misurò l'altezza del firmamento, appese alle stelle i suoi canti e le sue immaginazioni, s'aggirò con la mente per gl'infiniti spazi delle altezze e delle profondità e imparò a trastullarsi coi giochi della sua fantasia».23 Ma la donna non seguì l'uomo in questa scoperta:

«L'ironia e la donna
Molto [...] [l'uomo] si addolorò quando ebbe riscontrato gli effetti che produceva la sua ironia sulla donna. L'esperimento, tentato dall'uomo con la più cordiale spontaneità e senza che nemmeno lontanamente si sognasse di compiere un'azione perfida o rischiosa, diede, contr'ogni aspettativa, risultati infelicissimi e impreveduti. Egli fino allora aveva fermamente creduto che la donna gli fosse una compagna fidata, il suo simile per eccellenza, e anzi un essere più di lui privilegiato perché più ricca di grazia e di doni. Ma non appena ella fu tocca dall'ironia, gli si voltò contro con impeto feroce e nei suoi occhi sfavillò un odio mortale. Durante tale esperimento, l'uomo ebbe modo di rilevare quanto gli effetti ne somiglino stranamente all'irritazione manifestata dalla natura sotto gli stimoli dell'ironia. Onde chiaro gli divenne come la donna fosse più di lui vicina alle potenze elementari e come traesse direttamente da quelle».24

Sarebbe assurdo voler fare il processo alle intenzioni della letteratura, e tanto più a quella ironica: la letteratura non è la realtà e a essa non si applicano le categorie di vero o falso, giusto o sbagliato che regolano l'esistenza e la convivenza umana. D'altra parte non sarà inutile riflettere, anche a partire da righe come quelle appena citate, su quanto ritagliare uno spazio al femminile all'interno del fantastico italiano è stato doppiamente difficile - in termini di autorevolezza e presenza tra gli autori, ma anche di rappresentazione diversa come personaggi -, dato che la lucidità e l'ironia assegnate al fantastico erano considerate, spesso proprio dagli scrittori di letteratura fantastica, antitetiche alla cosiddetta essenza del femminile (cioè a quella che si voleva vedere come l'essenza del femminile). L'ironia dei nostri autori del Novecento sui modelli ottocenteschi si è esercitata anche sulla stereotipia di certi personaggi di donne, come la femme fatale: nell'opera di Bontempelli (che in vita aiutò con impegno e generosità scrittrici del fantastico come Paola Masino e Anna Maria Ortese a emergere) questo svuotamento o rovesciamento dei modelli è stato messo in luce chiaramente;25 d'altra parte anche le «candide eroine» bontempelliane, con il loro stupore naturale, rimangono soggetti fondamentalmente passivi nella realtà magica in cui si muovono.
Una ridiscussione del fantastico femminile nella letteratura italiana non può prescindere dalla consapevolezza di questa doppia difficoltà che abbiamo cercato di mettere in luce; e al tempo stesso dovrà fare attenzione a non incanalarsi in categorie strettamente binarie e antitetiche che tendono a una dimostrazione preventiva, costringendo la letteratura nel ruolo di prova da esibire di fronte a un tribunale. La letteratura fantastica del resto è cambiata molto nel corso del Novecento e le sole etichette di ironia e lucidità non bastano più a rendere conto di tutti i suoi sviluppi. Forse accanto a maggiori certezze teoriche sul fantastico femminile manca anche una prospettiva storica più ampia entro cui leggere certi mutamenti interni al fantastico. Per non dire che nella stessa lucida ironia dei nostri scrittori si possono scovare delle alternative in termini di gender letterario. Si veda per esempio il Bontempelli di Eva ultima:

«L'uomo […] non aveva nulla di soprannaturale o pauroso, […] ribatté [...] - Che cosa dunque vedi in me di diavolesco?
- Niente - proclamò la donna: - sono più diabolica io - e s'accennava spavaldamente la veste rossa.
Ma l'altro:
- Non vantarti: non più di qualunque altra donna.
- Ecco un luogo comune - lo ammonì Eva, - e non è in carattere.
Egli si difese:
- Dirò meglio: non più che un'altra donna, o che un altro uomo. Gli uni per gli altri, gli uomini sono infaticabili suscitatori di fantasime. E quando la creatura umana è sola, pensa, cioè si crea da sé le fantasime per il proprio consumo quotidiano».26

«Non più che un'altra donna, o che un altro uomo», dice Bontempelli. Le «fantasime» e chi le suscita hanno davvero un sesso? E chi ha paura del fantastico femminile?

 

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Giugno-dicembre 2018, n. 1-2