Roberto Caracci
Il tunel tra le dita

 

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Ivano si allontanò di un paio di metri e piantò nella sabbia la sua bandierina, fatta con un bastoncino di ghiacciolo e la carta colorata di una caramella alla menta.
«Ecco - mi disse, già trafelato - Adesso piazza la tua frontiera e cominciamo a scavare».
Mi inginocchiai sulla sabbia finissima della spiaggia, già torrida sotto il sole di mezzogiorno, e provai a far stare in piedi quello che avevo trovato per usare come bandiera, un ossicino d'ala di pollo spolpata, sormontata da un pacchetto vuoto di Nazionali di mio padre.
«Ma che schifo di frontiera - commentò Ivano - Non potevi mettere qualcosa di diverso dalla spazzatura?».
Allargai le braccia e poi mi impegnai a rendere più credibile la mia bandierina, lacerando in due parti il pacchetto di sigarette e facendone una specie di coda di rondine.
Ivano rovesciò l'acqua di un secchiello a dieci centimetri dalla sua bandiera, per trasformare la sabbia in fango e poi rimuoverla più facilmente.
«Tieni - mi disse poi lanciandomi il secchiello - Vallo a riempire per te. Non ce n'è più».
Mi avviai verso la riva, correndo a piccoli saltelli veloci sulle piante nude dei piedi, tra i bagnanti e gli ombrelloni. Ogni tanto, quando la sabbia scottava troppo, saltavo nel cerchio d'ombra di un ombrellone provvidenziale, e me ne rimanevo lì ansimando, sotto occhi perplessi o infastiditi. Poi, sotto l'ultimo ombrellone, prima del bagnasciuga, una mano larga e forte mi strizzò il polpaccio confidenzialmente. Non mi ero accorto di essere balzato nel cerchio d'ombra dei miei genitori, che ora mi ammonivano a non correre a catapulta e a infilare i sandaletti. Io però avevo poco tempo fermarmi e schizzai subito via, sulla sabbia scura della battigia.
Quando tornai alla 'frontiera', con il mio secchiello pieno di acqua di mare, Ivano aveva già ammonticchiato una collina di sabbia nera e bagnata accanto a sé, con la paletta, e si accingeva a spianare il terreno, prima di cominciare a scavare. L'ossicino di pollo era già caduto, ma lo lasciai stare e inclinai il secchiello per lasciarne colare tutta l'acqua sulla mia zona.
«Stai attento - mi rimproverò Ivano - Stanno arrivando rivoli fin qui, alla mia frontiera».
Cercai di bloccare i ruscelli d'acqua che scivolavano verso i piedi di Ivano e immersi le mani in quell'oasi di fango che ero riuscito a formare. Poi gli chiesi la paletta per innalzare anche io la mia collina.
«Serve a me - mi rispose - Devo scavare. Perché non te la porti da casa?».
Tornai sotto l'ombrellone dei miei genitori e raccolsi accanto a un salvagente un vecchio cucchiaio di plastica da pic nic, che usavo per fare le 'formine' a stampo di uovo con la sabbia bagnata.
«Con quello ci metterai una vita», disse Ivano con un ghigno sul labbro.
Ma io mi diedi da fare e cucchiaiata dopo cucchiaiata, malgrado il fango sgocciolasse da tutte le parti, riuscii a togliere un bel po' di sabbia dalla mia zona di frontiera e a formare una montagnola scura, molle come un budino di cioccolato, alla mia destra. Quando ebbi finito di spianare un cerchio perfetto di terreno sotto le mie ginocchia, alzai gli occhi su Ivano soddisfatto, ma lui aveva già mezzo avambraccio nascosto sotto terra e controllava a testa bassa, con i capelli sudati sugli occhi, il risultato dei primi colpi di paletta.
«Il problema è quando ci sono queste maledette pietre», lo sentii dire, a denti stretti. Fra le sue dita apparve un piccolo sasso, che fece poi volare via alle sue spalle.
Cominciai a scavare nella mia zona, ma senza la paletta era complicato. Il cucchiaio di plastica, incastrato nella sabbia dura, si spezzò subito contro una piccola e nodosa radice. Non mi rimanevano che le unghie e con quelle ottenni una buca di qualche centimetro, anche se Ivano affondava già fino al gomito nel terreno, e ogni tanto mi lanciava occhiate lucide di compatimento.
L'obiettivo era la galleria. Un tunnel che dovevamo scavare da entrambe le parti, la sua e la mia: i nostri rispettivi posti di 'frontiera'. Quando le nostre dita si sarebbero incrociate, il lavoro sarebbe stato ultimato. Avremmo creato il nostro capolavoro di ingegneria, un sentiero sotterraneo nascosto a tutti, come un fiume carsico o il sentiero di una talpa. Avremmo camuffato i nostri segnali di frontiera, togliendo le bandierine, e collocando al posto loro due pietre di forma particolare, gemelle, quali segnali di accesso alle porte segrete. Sarebbe stata una strada, anche se impraticabile e lunga due soli metri, che avrebbe condotto da me a Ivano, da Ivano a me, come al confine tra due stati, un accesso del tutto clandestino, sconosciuto anche - e soprattutto - ai nostri genitori. La stretta delle dita a metà della galleria, una volta completata l'opera, avrebbe sanzionato quel patto di eterna amicizia tra me e Ivano, che ci avrebbe reso come due compagni di massoneria, almeno in questo inviolabili, inaccessibili al mondo intero.
Certo Ivano, che mi negava la paletta e continuava a sghignazzare sul mio cucchiaio da picnic in frantumi, non era il compagno più leale. Ma glielo perdonavo. Lui era fatto così. Sentivo che più di lui, stranamente, mi interessava il patto stipulato con lui, quello spazio sacro e sotterraneo che ci avrebbe legati: una strada nostra, una via creata dalle nostre mani, e probabilmente anche un luogo dove riporre piccoli oggetti, preziosi alla nostra società segreta, custoditi nella galleria come in una inespugnabile cassaforte di terra.
Intanto Ivano sollevava il braccio e me lo mostrava sporco di terra fino al gomito, con un sorriso di trionfo. Io ero arrivato da parte mia fino al polso e avevo le unghie scheggiate, interamente orlate di nero. Avevo raccolto qualche lombrico contorto dal dolore e un insetto dalla coda a forbice. Non avrei mai potuto scavare al suo ritmo. Ma oramai non lo guardavo neanche più, ne udivo solo il respiro affannato, i colpi di paletta impressi nel terreno, e le imprecazioni quando trovava una pietra. Quanto a me, di pietre ne avevo trovate tre, ma erano piccole, tonde, facilmente rimovibili, e non erano quelle a creare problemi alle mie unghie; anzi, una volta rimosse, mi permettevano di avanzare immediatamente con le dita qualche centimetro in più.
Giunse il momento in cui Ivano si alzò da terra, sporco e sudato, ma con una smorfia da gladiatore, e mi gettò addosso la paletta.
«Tieni - mi disse - e buon lavoro. Io ho fatto già la mia parte».
Infatti aveva un braccio completamente lordo e nero, a differenza dell'altro rimasto pulito. Sistemò meglio la bandierina di frontiera, che si era inclinata, e si sedette sulla sabbia asciutta a gambe incrociate, nella posizione di un capo indiano, per seguire con occhio lucido e ironico la mia opera. Usai la paletta per qualche centimetro, ma poi tornai a scavare con le unghie e le dita della mano, che mi sembravano più duttili, più efficaci. E poi oramai ci ero abituato.
«Come una scimmia… - commentò l'amico ridendo - Ce la faremo entro stasera?».
Ad un tratto dovetti allungarmi bocconi sulla sabbia, per infilare meglio il braccio nella buca. Fiutavo l'odore della terra umida e un po' di sabbia mi si era appiccicata sulle labbra. Il sole mi batteva pesante sulla schiena sudata, ma il mio corpo intero sembrava percepire oramai la sola frescura di quel braccio che avanzava lentamente nella terra e si spingeva verso l'altra metà del tunnel scavata da Ivano.
«Cosa fai? - disse a un certo punto la sua voce sarcastica, alta sopra di me - Ti sei addormentato sulla sabbia?».
In realtà la mia guancia ora posava su una specie di cuscino caldo di sabbia. A Ivano pareva che io fossi immobile come una salma, perché lui non poteva vedere le dita della mia mano che graffiavano la terra, la rastrellavano, la perforavano con la forza dei polpastrelli e delle unghie. Andavo avanti. Lentissimamente, ma andavo avanti.
Quando, dopo una infinità, il mio dito medio perforò l'ultimo strato e si agitò nel vuoto, soffiai nella sabbia sotto la mia guancia delle sillabe di trionfo e Ivano si sdraiò allora nella mia stessa posizione, bocconi, allungando il suo braccio nel foro scavato dalla sua parte. Sfondai l'ultimo grumo di terra e le cinque dita della mano rimassero a spenzolare per qualche lungo secondo. Già mi chiedevo se non avessi sbagliato percorso e quel vuoto che avevo trovato non fosse magari la tana di una talpa, quando sentii il contatto di una, poi di altre dita, che si muovevano anch'esse nel vuoto. In quell'attimo mi sorpresi a pensare, mio malgrado, alla 'solitudine', di quelle dita, di quella mano. Cercavano la mia, ma avrebbero potuto anche non trovarla. Le mie dita avrebbero potuto sottrarsi e lasciare quella mano sola, come la mano di uno scalatore che cerca un sostegno prima di precipitare, o quella di un naufrago prima di sparire sott'acqua. Ma quando quella mano afferrò la mia e quelle dita si incrociarono con le mie, stringendole con una forza che non mi aspettavo, mi venne fatto di pensare la stessa situazione, ma al contrario: la mia mano che continuava a spenzolare nel vuoto, e dopo essere arrivata fin lì, brancolare nella solitudine della terra più totale, essere costretta a retrocedere, rinchiudersi in un pugno di rabbia e infine aprirsi, desolata, come il palmo di un accattone. La realtà era invece quella di una stretta d'acciaio, luminosa, dentro il ventre umido della terra, fra due corpi che giocavano a incontrarsi, e si congiungevano nel segreto di un tunnel impenetrabile al resto del mondo. Di là c'era Ivano, ma poteva esserci chiunque, anche un altro me stesso, anche la mia mano sinistra, con cui tornavo a unirmi attraverso la terra. Incontravo Ivano, qualcuno, me stesso, lungo un sentiero che prima non c'era, che le mie unghie stesse e le mie dita avevano scavato.
Poi accadde quello che Ivano non si aspettava. Il mio amico era già lì in piedi, in mezzo a una frotta di bambini curiosi, a cui lui vietava minacciosamente di calpestare le zone di frontiera, segnalate dalle bandierine.
«Guai a chi attraversa le porte segrete della nostra trincea», diceva, difendendo il territorio con le braccia aperte. Tutto sarebbe dovuto rimanere, appunto, 'segreto', ma in questo modo l'intera spiaggia finiva col sapere che lì c'era un tunnel, il 'nostro' traforo privato. Non era a questo punto neanche sufficiente sostituire le bandierine con delle pietre di forma speciale, se la loro funzione doveva essere quella di indicare le due opposte zone di frontiera senza dare nell'occhio. Pensai che Ivano avesse commesso un errore. Ma non fu solo per questo che, dopo aver stretto le nostre mani alla metà della galleria, e aver ricevuto qualche anonima pacca di complimento sulle spalle bruciate dal sole, mi rigettai bocconi a terra e tuffai il braccio nel foro dentro la sabbia per scavare ancora.
Sentivo intanto la voce di Diego, uno dei 'grandi', domandare con un tono di scherno:
«E come facciamo a essere sicuri che lì sotto quelle due buche di merda c'è una galleria? Io non la vedo. Qualcuno la vede, ragazzi? - (sghignazzata generale) - L'unica prova è quella dell'acqua. Versiamoci una bella secchiata da un buco e vediamo se esce dall'altro…».
«Non ti ci provare nemmeno», disse la voce tremante di Ivano. Non lo vedevo ma immaginavo sopra di me i suoi pugni stretti dalla rabbia, in posizione di combattimento.
Il mio braccio destro si era allungato in tutta la sua estensione, raggiungendo il punto in cui si era prima unito con quello di Ivano.
«E allora proviamo col fuoco - diceva la voce di Diego - Diamo fuoco a un pezzo di carta e lo gettiamo nel buco. Se il fumo esce dall'altra parte, dove c'è quel mezzo pollo morto - (altra sghignazzata) - Vuol dire che i due bambocci sono dei veri ingegneri. Io credo solo a quello che vedo. Non sono coglione».
«Tu non getterai la tua mondezza nel nostro tunnel - ribatté Ivano a voce bassa - Zona di frontiera. Mi-li-ta-re. Hai capito?».
Mi stesi in tutta la mia lunghezza sulla sabbia. Per continuare l'opera di scavo, avevo bisogno di tenere schiacciata la guancia sulla sabbia. Le mie dita presero a grattare la parete di terra a sinistra, dove mi era più comodo con il braccio destro, a qualche centimetro dal punto in cui avevo incontrato le dita di Ivano, e che riconoscevo da una pietruzza di forma cilindrica.
«Che cosa hai detto, pezzo di merda?- sillabava intanto Diego, sopra la mia nuca- Tu lo sai che potrei ficcarti a testa in giù dentro questo buco di fogna e lasciarti a gambe per aria tutto il pomeriggio? Quella sì che sarebbe monnezza!».
Ivano tacque, mentre ridevano tutti. Poi fu la sua voce che all'improvviso mi strillò sulla nuca, prevalendo su tutte le altre.
«E tu che cazzo stai facendo, imbranato?».
Interruppi il lavoro delle dita e scostai la guancia dalla sabbia per dirgli che intendevo proseguire lo scavo da solo, ma non dalla sua parte. Volevo continuare la galleria per conto mio, di lato.
«Non ti permettere, deficiente…», stava già urlando Ivano, quando fu afferrato alle spalle da un paio di grandi, strattonato come un manichino e fatto rotolare proprio sopra la sua bandierina. Sentii immediatamente della sabbia umida franare sul dorso della mia mano destra, ma proveniva dalla parte di galleria scavata da Ivano. La mia restava intatta.
Poi però fu la mia volta. Qualcuno si mise a cavalcioni sulla mia schiena e mi afferrò la nuca con una mano, ad artiglio.
«Allora, orsetto scavatore - mi soffiò sul collo la voce di Diego, il cui fiato sapeva di birra - Ti trattano male, ah? E questo sarebbe il tuo miglior amico?».
Il corpo di Diego, robusto e massiccio, pesava sulle mie reni, bloccando ogni mio movimento, tranne quello del braccio destro infilato nella terra.
«Devi saper riconoscere i tuoi amici, no? Quelli che ti fanno scavare… Forza, non ascoltare il tuo socio pisciasotto e traditore. Scava! Fammi vedere come scavi!».
Cercavo di girare il viso congestionato verso la testa di Diego, alta contro il sole sopra la mia spalla, per pregarlo di mollarmi, di non stringermi troppo la nuca e non premermi la bocca contro la sabbia. Respiravo con il naso e provavo a supplicarlo con gli occhi, che mi bruciavano per le lacrime ed il sole.
«Allora, piccolo minatore, stai scavando? - ripeteva Diego - Lo sai che sono diffidente e se non vedo, non credo. Tira fuori il braccio da lì e fammi vedere. Voglio vedere la terra. Tira fuori!».
Dal foro del tunnel uscì il mio pugno chiuso su una zolla di fango e sassi, con le unghie nere, orribili.
«Bravo - commentò Diego allentando un po' la presa sul mio collo - E ora però devi dirmi perché lo fai, perché continui a scavare se il tunnel è già fatto, anzi era, visto che dalla parte del tuo amico restano solo la macerie della seconda guerra mondiale - (risate) - e al posto della bandierina il pisciasotto ha già vomitato l'anima e lasciato andare una sputazzata di muco e sabbia».
Risposi, mentre il sudore mi colava dalla fronte sugli occhi abbagliati dal sole, che mi piaceva aprire delle gallerie nuove, che ero stufo di giocare sui gradini delle case con i tappi di birra, che quello che scavavo sotto terra non era visibile eppure portava da qualche parte.
«Bene, Bravo! Il bimbetto vuole fare dunque l'esploratore da grande. Ma non gli basta trovare nuovi sentieri. Desidera anche che siano segreti, invisibili a tutti tranne a lui! Avete sentito, ragazzi? L'orsetto esploratore vuole costruirsi la sua mappa sotterranea per poi andarci solo lui, giocarci senza di noi, gettarci il suo bel tappo di birra e poi recuperarlo da solo dall'altra parte!».
Aprii la bocca da un lato per respirare meglio. Sul mio palato scivolarono dei granelli di sabbia. Di Ivano non sentivo più la voce né vedevo i piedi.
«E se ti dicessi - aggiunse Diego muovendosi sopra di me e stringendomi le reni tra le cosce robuste come i fianchi di un cavallo - che in questo stesso momento qualcuno sta orinando di gusto nel magnifico buco scavato dal tuo amico Ivano?».
Ci fu una sghignazzata generale. Poi Diego mi assestò uno scapaccione finale sulla nuca e si alzò, liberandomi del suo peso.
«Scava, scava - disse - Scava le tue fogne. Sei un formidabile ingegnere. D'ora in poi sapremo dove andare a fare i nostri bisogni, anziché tornarcene a casa o farla in acqua. Vero, ragazzi? Ringraziamo questo operaio delle chiaviche, su».
Mi arrivò uno sputo sulla schiena, poi un calcetto sulle piante nude dei piedi. Dopo di che, non udii che le voci dei bagnanti sotto gli ombrelloni e il rumore della risacca del mare. Mi avevano lasciato solo, con la testa un po' dolorante per lo scapaccione e qualche livido ai piedi. Le lagrime mi premevano agli occhi e avevo una gran voglia di sollevarmi da lì, correre sotto l'ombrellone dei miei genitori e chiedere giustizia.
Ma in quel momento le dita della mia mano, in fondo al braccio, penetrarono in una zona di terreno così fresca e tenera, come fossero in prossimità di una sorgente d'acqua, che decisi di andare avanti. La galleria di Ivano era crollata e al posto della sua bandierina, alla frontiera, c'era un fazzoletto di carta pieno di muco. Continuai a grattare la terra fino all'intera lunghezza del mio braccio. Poi, quando capii che non potevo più andare avanti, pur premendo la faccia contro la sabbia, pensai ad ogni maniera possibile per proseguire la mia opera. Il sole cominciava a calare e a bruciare un po' meno sulla schiena, quando decisi di proseguire il tunnel perforando ancora la sabbia, ossia scavando nuove buche dall'alto in prossimità della linea della galleria, a intervalli regolari, per raggiungerla così, da più punti. Sapevo che era un duro lavoro, ma lo preferivo di gran lunga all'idea di tornare a giocare con Ivano, che già mi considerava un compagno inaffidabile, o con gli altri amici della spiaggia, che mi avevano deriso.
Quando, con l'aiuto della paletta nei punti più difficili, sentivo che la mia mano scesa nella nuova buca si muoveva nel vuoto, all'incrocio esatto con il ramo maestro della galleria, piegavo l'avambraccio e mi mettevo al lavoro, raschiando sabbia, terriccio, sassi. Vedevo ogni tanto piedi e sandali fermarsi a un metro da me, qualcuno di bambino, altri di adulti, e poi proseguire. La mia opera non interessava più a nessuno. Era quello che volevo. La voce di mio padre domandò nel sole, da qualche parte, se mi stavo divertendo, se non mi stessi stancando troppo. Io, senza girare la testa nel sole, dissi: «Sì, no», e continuai nel mio lavoro.
Dopo aver scavato quattro buche e aver fatto avanzare la mia galleria di una lunghezza molto superiore a quella progettata con Ivano, tirai fuori la mano e mi accasciai sfinito sulla schiena, con le braccia spalancate e gli occhi ridotti a due fessure ammaccate alla luce del sole, sotto le sopracciglia sporche di sabbia. Fu contro quella luce che vidi la sagoma di mia madre, la sua silhouette d'ombra lì in piedi sopra di me, altissima.
«Stai andando da qualche parte con la tua galleria?», chiese la voce di mia madre, dolcemente.
Io non capii immediatamente la domanda, poi risposi:
«Non lo so. Sto andando. Qualche parte è… dappertutto».
Sentii di non essermi spiegato, o di aver detto una sciocchezza. Il sudore mi colava sulla tempie, gocciolando sulla sabbia.
«Qualche parte non è dappertutto. Sono due cose diverse», precisò mia madre.
«Quando scavo sotto la sabbia - dissi - sono le mie dita a scavare, ma…».
«Ma?».
«Ma sotto terra ci sono i posti di blocco e le vie consentite».
«Come parli? - esclamò mia madre ridendo - Sembri un soldato di linea!».
«Me l'ha detto Ivano - precisai - E comunque il percorso lo scegli tu e non lo scegli tu…».
Mi sentii preso al braccio con forza e insieme con delicatezza.
«Su, alzati, soldato. Oggi mi parli per enigmi. Sei più lordo di un minatore di carbone. Un bel tuffo tra le onde e poi via a casa!».
Obbedii. Ma quando mia madre mi avvolse il telo di mare sul corpo infreddolito per asciugarmi, mi sentii chiedere dalla sua voce ironica e divertita: «Perdona una domanda, soldatino. Come farai domani a ritrovare la tua galleria? Sai che ci passeranno sopra in tanti, calpesteranno le entrate e le cancelleranno…».
«Ho già chiuso le entrate con quattro pietre a forma di cuore - rivelai - e ricoperto le pietre con sabbia asciutta…».
Mi lasciai strofinare per bene con l'asciugamano e non dissi altro. Avevo già parlato troppo. Segreto per segreto, anche una mamma avrebbe dovuto restarci fuori.
E così non le rivelai quello che mi solleticava oramai la mente. Che domani avrei continuato a scavare, e così ancora dopodomani, e tutti i giorni successivi. Io stesso non sapevo quale percorso avrei compiuto. E non lo volevo neanche sapere. Sarei andato avanti. Nessuno avrebbe potuto fermarmi, né Diego né il sole cocente. Me ne sarei dato tutto il tempo. Sarebbe stato il mio labirinto, la mia trincea, la mia strada.
Un giorno, chi sa, avrei allargato tanto il tunnel con le mie mani, e poi pale da scavatore, badili veri, da potervici entrare non solo col braccio ma con tutto il corpo. Dapprima mi si sarei adagiato, tuffato dentro al terreno fino al collo, come avevo visto fare a un vecchio anziano bagnante, sepolto sotto una montagna di sabbia. Poi, col tempo - dandomi 'tutto il tempo' - avrei ampliato le pareti del tunnel di un metro, di due, di cinque metri, e mi ci sarei infilato per percorrerlo, batterlo, passeggiarvici quando e come avessi desiderato, richiudendo sopra di me le porte al mondo. Porte che sarebbero rimaste invisibili, contrassegnate da segni convenzionali come ossa di pollo appena visibili sotto la sabbia, di cui solo a lei, forse, e a qualcun altro avrei potuto rivelare l'ubicazione.
Era bello pensare che il tunnel mi avrebbe avvolto e protetto con quello stesso calore, quello stesso senso di sicurezza, con cui mia madre ora continuava a strofinarmi, con l'enorme telo profumato di doposole. Ma neanche questo era il caso di confessarle.
Del resto, non mi sarei mai accontentato di godermi la mia galleria sotterranea, passeggiandovi in lungo e in largo, come Napoleone a S. Elena: sarebbe stata alla lunga una prigionia. Tutto aveva senso se avessi continuato a scavare, aggirando ogni tipo di posto di blocco, di terra granulosa o di pietra, e spingendomi oltre, entro viscere della terra mai viste prima. Di quella rete di cunicoli, o di quel labirinto, non avrei dovuto avere la mappa, alla fine neanche io. "Tanto mia quella trincea - avrei detto a mia madre, mentre mi strofinava i capelli - da non appartenere più neanche a me…". Ma avrebbe risposto che parlavo per enigmi.
Avevo le unghie ancora orlate di terra, irreparabilmente nere. Lei me le avrebbe spazzolate a casa, per un'ora, dentro il bagno. Ma a cosa sarebbe servito, se il poi il giorno dopo le avrei rituffate nella sabbia scura e tra le pietre?
Il disco del sole in quel momento lambiva l'orizzonte. Rabbrividii per un attimo e di colpo mi sentii preso dalla stanchezza.
La sera il mio letto, prima di inabissarmi nel sonno, era un carrello da minatori che rotolava lungo i binari di una galleria buia e fragorosa. Sapevo che non era ancora scavata e che ero io a fare aprire quelle pareti di roccia con il mio sguardo, con la volontà del mio corpo disteso, con i miei due piedi puntati sul fondo, e le mie stesse mani che fungevano da battistrada e da timone. Non avevo paura di scivolare così, di rischiare di sfracellarmi contro la roccia. Confidavo nelle fenditure che si aprivano, nei varchi e negli imbocchi, a destra, a sinistra, ovunque volessi. Ero sotto terra, protetto dall'alto e dal basso, avvolto e invincibile. Poi, se avessi voluto, avrei potuto dirigere il mio sguardo verso la volta della galleria, in alto, e continuare a scavare lì, metro dopo metro, facendo impennare il mio carrello.
E mentre mi abbandonavo al sonno, e percepivo già il mio respiro ronfare sordo sotto il palato, già sentivo il mio letto inclinarsi e puntare il soffitto, nella direzione di una piccola feritoia di luce che già cominciava ad allargarsi, e aveva il colore rosso fiamma del sole al tramonto, sul filo del mare.
Dipendeva da me.

 

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Giugno-dicembre 2014, n. 1-2