Michele Righini, Contemplando affascinati la propria assenza - La città nella narrativa italiana tra Ottocento e Novecento, Bologna, Bononia University Press, 2009, pp. 420, € 30,00
di Alessia Dagri

 

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Se paragoniamo lo sviluppo della metropoli italiana con l'espansione dei grossi e popolosi monocentri in Europa, possiamo notare un certo divario non solo di numeri, ma anche di tempi. In questo libro Righini ci illustra, nella sua prosa chiara e piacevole, come il pluricentrismo e la tarda crescita economica italiana abbiano avuto una ripercussione sullo sviluppo del genere romanzesco, forse la forma di letteratura più capace di interpretare la complessità della città. Un interessante esempio in merito è l'accostamento fatto da Amerigo Restucci tra il modo verghiano di scrivere di Milano e lo sguardo degli abitanti di una delle città invisibili di Calvino, Bauci, che guardano dall'alto la foresta che hanno lasciato con nostalgia, ma coscienti che l'essersene allontanati sia servito a preservarne l'integrità. Milano sarebbe la Bauci di Verga: l'autore fugge il territorio urbano scrutando a distanza il mondo rurale dei suoi ricordi e contemplando affascinato la sua assenza da esso. Tale città calviniana rappresenta uno sguardo nostalgico sulla perfezione pre-urbana che Righini ha notato perdurare nella letteratura italiana fino a quando il noir degli anni '70 ha "sdoganato" la città nella narrativa: il conservatorismo dei nostri letterati ha impedito loro di osservare veramente il centro urbano, facendone un'eco di vita campagnola o una reminiscenza della città del passato. Gli schemi letterari e ideologici, non più adatti al nuovo modo di vivere metropolitano, diventano schermi che lasciano trapelare solo qualche immagine, qualche intuizione, che però diventa principio generatore dell'opera solo con l'esplosione della città nei romanzi gialli degli ultimi quarant'anni.
Se fino alla modernità si può identificare un luogo rappresentativo per ogni fase storica, come ad esempio il Caffè per il Settecento, l'Ottocento non si può identificare con un luogo circoscritto perché lo spazio dominante è diventato quello urbano, che ampliandosi ingloba gli spazi precedenti. Si possono considerare luoghi antropologici solo gli spazi che diventano identitari, relazionali e storici, ovvero i posti che possiedono il cosiddetto genius loci, l'identità stabile che protegge il luogo da mutamenti strutturali che cancellino la sua identità, e che lo rende immaginabile. Della città si può parlare solo in maniera ambigua, perché le percezioni a riguardo sono molteplici. Lo spazio narrato è invero la rappresentazione di un modo di leggere la realtà tipica della cultura a cui l'opera appartiene (natura ortgebunden). Però il testo non si può prendere come materiale antropologico perché lo spazio reale e lo spazio artistico non sono identitari (problema sollevato anche da Lotman e Bachtin); Righini cita Turnaturi spiegando come si possano usare testi narrativi per studi sociologici non analizzandone la trama, ma le scelte stilistiche. Simmel ad esempio sostiene che lo stream of consciousness dei modernisti sia l'equivalente letterario dell'atteggiamento dell'uomo metropolitano, necessario per difendersi dai continui stimoli della città del Novecento. Una questione assolutamente attuale, se si pensa a internet e al problema della selezione delle fonti.
Considerando innanzitutto la storia del romanzo in Italia, visto con perplessità fino allo sdoganamento manzoniano (che comunque darà una spinta solo ai romanzi di tipo storico), l'analisi di Righini prende dunque in esame l'interpretazione della città da parte dei romanzieri tra Otto e Novecento, avvalendosi di mappe che ci mostrano come i personaggi dei romanzi usano lo spazio della città, e come questo spazio viene visto mano a mano che la città stessa si evolve fisicamente e nell'immaginario collettivo. Come già segnalato, uno degli autori analizzati è Verga, che nega all'ambiente urbano la possibilità di narrare storie peculiari. In linea con l'"ideale dell'ostrica", nella narrativa verghiana non c'è movimento tra le classi sociali, né tra le zone della città, delineando così una chiusura: egli non vuole staccarsi dal paesaggio rurale, né dai suoi canoni sociali. Persino i provocatori Scapigliati sembrano rifarsi a stilemi romantici con anacronistici picchi idilliaci. Unico esempio ottocentesco di un'interpretazione dello spazio urbano che non si basi sulla contrapposizione città/campagna sembra essere Manzoni, per il quale i mali dell'uomo non fanno distinzione di luogo.
«Un po' di soldi, una donna e il relax della campagna: l'unica combinazione che spingesse i personaggi di Verga ad abbandonare il centro cittadino» (p. 257). A settant'anni di distanza da Verga, i personaggi di Moravia non si comportano diversamente: la prima via ripida sembra la "foresta selvaggia", e l'autore si rifà al Belli ottocentesco. Il valore astratto, il genius loci dei Racconti Romani è determinato dalla ristrettezza del luogo analizzato. Si verifica qui il fenomeno che Righini definisce riduzione: la città viene descritta ma non compresa; non è la protagonista della narrazione, seppure spesso il titolo le sia dedicato; essa viene trattata come un insieme di quartieri di campagna, dove le dinamiche sociali sono esattamente le stesse dell'ambiente rurale. Questo fenomeno è evidente soprattutto in Pratolini, dove il quartiere prende la lettera maiuscola ed è una comunità con leggi proprie, impermeabile rispetto all'esterno. I Quartieri di Santa Croce e Via del Corno hanno una vita di villaggio trasferita all'interno dello spazio urbano, e l'abbattimento del Quartiere per costruire nuove case viene visto dai personaggi come uno sfratto. Questo porta però a scoprire e rivalutare cose preesistenti al Quartiere: il potere rivoluzionario della demolizione viene quindi attutito in un'esaltazione del passato, come avviene nel periodo fascista.
È proprio la censura fascista degli anni '40 che impedisce agli autori stranieri di vendere in Italia, e agli italiani di ambientare i romanzi in patria (De Angelis ambienta a Milano Il mistero delle tre orchidee, ma è un caso isolato), tanto che il pubblico, anche dopo la guerra, chiede autori stranieri e ambientazioni anglosassoni, spingendo gli autori italiani a usare pseudonimi. La rappresentazione della città in questi romanzi è legata a un modello che richiede la ricostituzione finale dell'ordine infranto. Solo dal '70 in poi la delinquenza della metropoli approda a Milano, Roma, Torino, Napoli, e il legame tra poliziesco e ambiente metropolitano si stringe: il giallo si fa noir e diventa la più efficace espressione letteraria dell'urbano. Il nuovo modo di scrivere la città cerca soprattutto gli aspetti più nascosti di essa, la legge in chiave oscura, e può cambiare anche il modo di vederla nell'immaginario collettivo, cosa che avviene per l'apparentemente tranquilla Bologna, che nei gialli degli ultimi quarant'anni svela tutte le sue ambiguità. Righini ci illustra come il noir sia l'emblema del rifiuto dell'idillio: diniego dell'origine familiare campagnola, negazione della continuità lavorativa e della famiglia felice. Il poliziesco racconta infatti il disagio sociale, che non fa distinzione tra città e campagna, facendo cadere la concezione idillica di natura incontaminata. E tra la campagna e la città si aggiunge un altro elemento: le periferie degradate.
Il noir porta quindi aria nuova sulla rappresentazione delle nostre metropoli, per cui il piccolo paese e la grande città vengono ritratti sulla base dello stesso modello. Il mondo metropolitano trova una rappresentazione critica in questo genere letterario, che nei suoi migliori esempi abbandona quell'intenzione tipica dei primi romanzi gialli di ricostituire l'ordine iniziale, «perché non esiste più un ordine da infrangere e l'unica possibilità rimasta è quella di indagare il caos» (p. 391).

 

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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2


 

 

 

 

 

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