Gino Ruozzi, Ennio Flaiano, una verità personale, Roma, Carocci, 2012, pp. 301, € 25
di Eleonora Conti

 

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Il volume che Gino Ruozzi dedica a Ennio Flaiano (1910-1972) nel quarantennale della morte intende offrirne un ritratto il più possibile esaustivo e sgombrare il campo da una serie di luoghi comuni ed equivoci: Flaiano è stato infatti un intellettuale così versatile, privo di pregiudizi e acuto nel mettere a fuoco i meccanismi della società italiana, da essere stato considerato spesso, paradossalmente, un eccentrico delle nostre lettere. Una anomalia fin da subito riscontrabile nella scelta di dedicare l'intera sua vita a scritture "marginali" (sceneggiature, articoli di giornale, recensioni, testi teatrali, apologhi, aforismi, diari). Nel tradizionalissimo panorama italiano, si concede dunque il lusso di restare l'autore di un solo romanzo e, pur esordendo con un testo già maturo, Tempo di uccidere (1947), che gli valse il primo Premio Strega, egli non trova congeniale la scrittura romanzesca. Così, nonostante le pressioni di editori ed amici, preferisce dedicarsi a generi che gli permettano di cogliere, con la sua acuta intelligenza e la sua penna vivace, i mali della società italiana da un'altra prospettiva.
Una di esse è senz'altro quella offerta dal cinema, a cui si dedica come soggettista e sceneggiatore fin dai primi anni Quaranta. I film più rappresentativi dell'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta portano la firma di Ennio Flaiano, sceneggiatore dei maggiori film di Fellini, fra cui La dolce vita, de La notte di Antonioni, di Guardie e ladri di Monicelli e Steno. Allo stesso modo teatro e giornalismo offrono angoli di visuale e generi più adatti alla sua scrittura inquieta. Ed è proprio grazie al giornalismo, alla scuola di Mario Pannunzio, che Flaiano si confermerà nell'idea che ciò che conta è la qualità della scrittura in sé, indipendentemente dal contesto di pubblicazione (p. 276), la parola scritta e non il genere letterario.

Eppure, egli non sempre ha goduto della fama che si meritava e numerose sono le delusioni legate allo scarso successo di alcuni dei suoi testi (si pensi alla pièce Un marziano a Roma, portata in scena da un giovanissimo Vittorio Gassman; o alle vicissitudini della sceneggiatura di Melampo, che diventerà racconto e vivrà al cinema nella messa in scena di Marco Ferreri, col titolo La cagna, troppo lontana da ciò che Flaiano aveva in mente in origine). Ruozzi cerca anche di ridare il giusto peso al Flaiano scrittore «spiritoso», etichetta che l'autore sopportò malvolentieri, frutto di un giudizio autorevole ma riduttivo, che incontrò invece un favore tale da trasformarsi in una specie di epigrafe tombale. Allo stesso modo, il critico distingue opportunamente tra opere aforistiche e di aforismi: un solo libro è a suo avviso da definirsi aforistico (per varietà di scritture e libertà costitutiva), tra quelli licenziati direttamente dall'autore, Diario notturno, del 1956; mentre il gusto per la parola fulminea è presente in quasi tutte le sue opere, che sono ricche di aforismi pur appartenendo a generi diversi, aforismi spesso pronunciati dai personaggi stessi messi in scena da Flaiano.

La città in cui sceglie di vivere per la maggior parte della sua vita, Roma, rappresenta per Flaiano (abruzzese di origine) un osservatorio privilegiato sulla società intellettuale italiana del secondo dopoguerra e degli anni del boom. Qui intreccia relazioni di collaborazione e amicizia con i maggiori intellettuali del tempo e ha modo di offrire uno spaccato di quella che egli stesso definisce la «società del caffè». Sotto la sua penna cadono pittori registi poeti scrittori giornalisti: da Federico Fellini a Vincenzo Cardarelli, da Leo Longanesi e Mino Maccari – l'amico della vita –, da Amerigo Bartoli a Vitaliano Brancati, da Bruno Barilli a Mario Soldati, ai grandi registi americani ed europei per i quali scrive sceneggiature e soggetti. Una pagina di storia intellettuale italiana emerge così dai Fogli di Via Veneto, pubblicati in tre puntate su «L'Europeo» nel 1962: gusto del ritratto, critica dei nuovi modi di vita, viva partecipazione ai mutamenti in atto a Roma, la città che considererà sempre la sua «tana», nonostante che in quegli anni avesse assunto le caratteristiche fastidiose di una affollata spiaggia alla moda.

Il ritratto di Flaiano che emerge dalle pagine critiche di Ruozzi è ricco e a tutto tondo: rende ragione della sua poliedrica produzione, delle cocenti delusioni e dei successi non sempre riconosciutigli, delle vicende umane e del talento che tanto colpiva i suoi contemporanei e amici. Allo stesso modo dà un'idea della ricca biblioteca di autori che occhieggia dalle sue pagine, autori a cui rende omaggio, a cui si ispira, che cita, che inserisce nei discorsi e nella formazione dei suoi stessi personaggi: tra essi spiccano Charlie Chaplin (per il quale nutriva un'ammirazione immensa), Anton Čechov (lo scrittore non destinato a divenire un classico, «ma che anzi continua a parlare di noi»), il Melville di Bartleby lo scrivano (personaggio che secondo alcuni incarna lo spirito stesso di Flaiano, con il suo tenace e cortese rifiuto di adeguarsi e scendere a compromessi), Giacomo Casanova (della cui vita era appassionato lettore e che cercò di portare sullo schermo a partire dal romanzo di Schnitzler, Il ritorno di Casanova, per la regia di George Cukor), i classici italiani (da Boccaccio a Manzoni al Leopardi dello Zibaldone).

Se ciò che Flaiano ci offre è una «verità personale», come ribadisce il titolo del saggio di Ruozzi, eccentrici come lui sono spesso i protagonisti dei suoi testi: si pensi al tenente protagonista di Tempo di uccidere che, immerso in una guerra patita con profonda noia esistenziale (la guerra d'Etiopia), macchina una catena di delitti e resta invischiato in un'avventura che non ha voluto e di cui non vede il senso. Allo stesso modo, il marziano che un giorno dalla sua astronave sbarca a Roma vive sulla sua pelle il potere annientante della società italiana e, da alieno fiducioso nella propria capacità di cambiare le cose, si trasforma in connivente di un sistema che tutto ingloba. Flaiano è profondamente attratto anche dal tema del doppio e dello specchio, come dimostrano i due racconti lunghi raccolti ne Il gioco e il massacro, ossia Oh Bombay! e il già ricordato Melampus. Il paradosso, il graffio satirico, il surreale – più che il realismo – sono gli strumenti che gli paiono più adatti ad assolvere al compito che egli si è assegnato, di offrire un ritratto vivido del suo tempo. Un rovesciamento di prospettiva di stampo illuminista, affine al gusto per lo straniamento di uno Swift e di un Voltaire.
Proprio ora che La grande bellezza di Paolo Sorrentino, sorta di Dolce vita degli anni Duemila, rappresenterà l'Italia agli Oscar, e che sono più vivi che mai i «mostri quotidiani» da cui Ennio Flaiano ci ha messo in guardia per tutta la sua vita, risuonano di echi profondamente attuali le sue pagine mai pacificate.

 

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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2


 

 

 

 

 

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