Émile Zola, Roma, prefazione di Emanuele Trevi, Roma, Bordeaux, 2012, pp. IX-725
di Claudio Gigante

 

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Romanzo fluviale, pubblicato nel 1896 in contemporanea in Francia e in Italia, dove apparve parzialmente a puntate su «La Tribuna» prima di uscire in volume, Rome di Zola è ambientato nell'autunno del 1894, al tempo del secondo governo Crispi: una stagione di crisi non soltanto per le conseguenze degli scandali finanziari legati alla Banca Romana e per le infuocate tensioni sociali esistenti in diverse aree del Paese, a cominciare dalla Sicilia, ma anche per i dubbi sulla tenuta della stessa Unità. Si tratta di un libro di grande interesse che meritava, dopo tanti anni di assenza dalle librerie italiane, una nuova edizione (l'ultima ristampa risale addirittura al 1923): avrebbe meritato anche un'introduzione più "robusta" (le garbate pagine di Trevi sono poco più di un invito alla lettura) e, magari, una nuova traduzione (in luogo della «rivisitata» versione ottocentesca di Emilia Luzzatto, che neppure viene nominata).
Nel suo romanzo, pur con difetti di varia natura, Zola coglie due temi fondativi della crisi dell'Italia post-unitaria: in primo luogo, lo scarto drammatico tra il mito a lungo vagheggiato della capitale - che per la sola forza del suo passato remoto avrebbe dovuto dare linfa al glorioso futuro della nuova Italia - e l'impasto di corruzione politica e finanziaria che nella realtà si era formato; in secondo luogo, il paradosso di uno stato che costruisce la propria capitale sul principio di un'idea: Roma non è la città che ha guidato il processo unitario né il suo prestigio nasce da una riconosciuta superiorità politica; il suo primato è il frutto di una visione archeologica della Storia e di una costruzione ideologica: quando questa non sarà più condivisa, anche il primato verrà meno.
Zola immagina che un prete francese, Pierre Froment, protagonista già di Lourdes (che insieme a Rome e al successivo Paris forma il ciclo Trois Villes), accorra nel 1894 a Roma per difendere un proprio libro - nel quale ha vagheggiato una profonda riforma della Chiesa - che rischia di essere condannato all'Indice; dopo una lunga serie di incontri con personaggi di ogni risma, Froment ottiene un'udienza da Leone XIII: ma il suo libro sarà ugualmente condannato (come del resto nella realtà avvenne per Rome e per tutti i romanzi zoliani). Il prete comprende tardivamente di avere coltivato un'illusione impossibile: la Chiesa non potrà mai essere riformata, perché una sua rinunzia alle prerogative temporali significherebbe la fine della stessa istituzione, che ha ragione di esistere soltanto nella sua granitica "romanità"; le aperture alle questioni sociali del papa vanno intese in un senso puramente caritatevole, non certo in una prospettiva rivoluzionaria. Lo sguardo di Froment si estende sulla capitale del nuovo stato, travolta dallo scandalo finanziario legato alla speculazione edilizia del nascente quartiere Prati; la classe dirigente della nuova Italia non sembra neppure lontanamente all'altezza dei voti delle generazioni precedenti. Ne nasce - pur all'interno di episodi troppo caricati, simili alle tinte gotiche di altre generazioni (in particolare, la storia di amore e morte di Dario e Benedetta) - un complesso ragionamento sui «vecchi» e sui «giovani», sulle illusioni patriottiche di una generazione tradite dalla malattia affaristica di un'altra, che forse (ci tornerò dopo) contribuì a ispirare I vecchi e i giovani di Pirandello.
Centrale in questa prospettiva è la figura di un vecchio patriota milanese, Orlando Prada, una sorta di maratoneta delle battaglie risorgimentali, protagonista di un intero secolo di lotte: più volte ferito in giovinezza, Prada è vissuto nel mito dell'Unità e nel culto di Roma; colpito adesso da paralisi, vive al piano alto di un edificio, ironia della sorte, di via XX settembre, consolandosi con il panorama della città, simbolo di tutto quello che ha desiderato nella sua vita. Alla sua visione ideale è contrappostala corruzione del mondo politico e l'amara scoperta che l'Unità è ancora da farsi: da un lato, ci sarebbe «il Nord lavoratore ed economo, politico prudente, imbevuto delle grandi idee», dall'altro,il Mezzogiorno «indolente, assetato di vita, tutto calore e colore, nell'attività ingenua e disordinata, come nella sonorità delle belle parole squillanti» (p. 141); un Mezzogiorno politicamente formato da individui scaltri e traffichini che concepiscono la costruzione della nuova capitale soltanto come un colossale affare. Fonte principale di queste asserzioni è un articolo di Alfred Berl apparso su La revue de Paris nel 1895 che, oltre a descrivere i caratteri dei meridionali e dei settentrionali in termini che Zola riprende alla lettera, propone la medesima visione della nuova capitale e del nuovo stato militarmente conquistati dalle forze del nord, ma politicamente preda dell'attivismo dei deputati meridionali, gente che in gran parte non ha dato alcun contributo alla lotta per l'Unità, ma che adesso si è dedicata a una spoliazione sistematica delle pubbliche finanze. Nel romanzo è il napoletano Sacco a incarnare il tipo dell'affarista sbarcato a Roma alla conquista del potere.
Ma non è solo un problema nord-sud: c'è anche - vivissima - la questione generazionale. Luigi Prada, il figlio di Orlando, allevato nel mito della costruzione nazionale, è divenuto uno dei più intriganti affaristi della capitale; avido e senza scrupoli, ammira il padre ma non riesce a farsi contagiare dalla sua passione patriottica. I «vecchi» muoiono e non c'è un «giovane» che ne prenda il testimone ideale, grida Orlando. L'ardore dei «vecchi» per la conquista dell'Unità e di Roma, desiderata come e più di una donna amata, si è trasformato nei «giovani» in sete di affari. Se Orlando ancora spera nella grandezza futura dell'Italia, la sua speranza è rappresentata come una lontana utopia, nutrita da un patetica incrollabile fede: invece, nei pochi «giovani» dove sono ancora vivi i semi dell'ideale inizia a serpeggiare un desiderio di anarchia e distruzione, nel romanzo incarnato dal giovane Angiolo Mascara, nipote ventenne di uno dei Mille morto in battaglia. È un anarchico che non ha più fiducia nelle parole dei «vecchi» e non crede al mito della terza Roma; insegue, con i suoi compagni, il mito della quarta Roma, che rinascerà dalle ceneri di quella che i patrioti dell'altra generazione si erano illusi di edificare.
Quasi dimenticato oggi, il romanzo di Zola fu vivacemente discusso al suo apparire dalla stampa del tempo (fra i tanti recensori vale ricordare almeno Capuana e Ojetti) e ispirò per vari aspetti Il Santo di Fogazzaro. È possibile che abbia anche svolto un ruolo, per marginale che sia stato, nella formazione de I Vecchi e i giovani di Pirandello (la cui gestazione ebbe probabilmente inizio proprio a partire dal 1896), romanzo, ambientato negli stessi anni, che pur prendendo le mosse da un'analoga percezione della crisi degli ideali risorgimentali e del divario etico-politico fra vecchi e giovani, ne offre un'interpretazione del tutto diversa. In Pirandello è un vecchio siciliano, Mauro Mortara, a svolgere la funzione di misurare la distanza fra gli ideali della sua generazione e la corruzione o semplicemente l'abulia dei «giovani». L'Orlando di Zola, che vive a Roma da un quarto di secolo, ha avuto modo giorno dopo giorno di familiarizzarsi con l'idea del declino dei propri ideali. Per Mortara si tratta invece di un'agnizione tardiva e improvvisa che coincide con il suo viaggio a Roma. Ma, come Orlando, malgrado tutto e sino al tragico finale, Mortara nutre una fiducia inscalfibile nella futura grandezza della nazione; anche Mortara ama Roma ancora prima di conoscerla: la ama come simbolo di una passione prossima al delirio dell'amour de loin; in un'epoca in cui, osserva la voce narrante, era diventata «quasi titolo d'infamia la qualifica di "vecchio patriota"». Alle figure di vari personaggi implicati nel gioco e nella corruzione politica (fra cui il ministro d'Atri, in parte ispirato a Crispi) Pirandello aggiunge quella dell'affarista Flaminio Salvo, del principe Lando Laurentano (aristocratico ma socialista) e del giovane Antonio Del Re nipote, come l'Angiolo Mascara di Zola, di un garibaldino morto in Sicilia. Personaggio serioso e "inetto" (in senso sveviano), Del Re accarezza anche lui il sogno di vendicare con la «mano armata» i torti della malaunità, giungendo a immaginare un attentato ai danni del Parlamento.
Lando compie un'osservazione generazionale che si ritrova anche sulle labbra del vecchio Orlando: la sua generazione appartiene a un'«età sterile» che succede, come sempre nella storia, a un «tempo di straordinario rigoglio»; la freddezza del calcolo e poi della diplomazia - che avevano frenato gli slanci garibaldini del '62, del '66 e del '67 - ha spento la fiamma della passione patriottica: «Non poteva l'Italia farsi in altro modo?»; e soprattutto: «Ma, se la fiamma s'era lasciata soffocare, non era pur segno che non aveva in sé quella forza e quel calore che avrebbe dovuto avere?».
Il gioco di corrispondenze, a partire dall'immagine cancrenosa di Roma (diffusa anche in altri testi coevi) potrebbe continuare, ma il punto rilevante è che Pirandello presenta una visione della Storia opposta rispetto a quella di Zola. È la Sicilia, non Roma, la terra di conquista («Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i Continentali a incivilirli», pensa amaramente Caterina Auriti); è l'unificazione, osserva Corrado Selmi, che ha prodotto nell'isola un dissesto finanziario. Soprattutto, i Siciliani hanno contribuito con il sangue e con le armi all'impresa unitaria: ma sono stati in seguito traditi e umiliati, come se fossero stati "redenti" senza combattere. È per questo che Mortara può nutrire lo stesso orgoglio di Orlando; anche lui pensa di «avere fatto» l'Italia: e se in Rome sono i meridionali a non comprendere la natura ideale del patriottismo, ne I vecchi e i giovani sono i soldati piemontesi di guardia al monumento funebre di Vittorio Emanuele al Pantheon a prendersi gioco di Mortara, delle sue medaglie garibaldine, del suo orgoglioso diniego di fronte alla prospettiva di poter ricevere una pensione di reduce.
Ma Girgenti è l'altra faccia della medaglia della crisi economica: se nella capitale sono stati investiti ingenti capitali, grazie anche a crediti illimitati concessi senza copertura, a Girgenti ogni industria è sparita. Di fronte al supposto arricchimento del sud a spese del nord, Flaminio Salvo - che pure ha saputo realizzare i propri affari - ricorda invece che la «pioggia dei benefizii s'era riversata tutta su l'Italia settentrionale, e mai una goccia ne era caduta su le arse terre dell'isola»; sulla stessa lunghezza d'onda è il pensiero del socialista Lando che ritiene impossibile in Sicilia una lotta di classe finché il malcontento, «per l'incuria sprezzante verso l'isola fin dal 1860», accomunerà tutti gli ordini sociali. Il popolo siciliano dei Fasci è ridotto alla fame, esasperato, pronto anche a barbari eccidi in attesa di trovare un'identità politica. Un popolo lontanissimo dal tipo meridionale descritto da Zola: gaudente e spensierato, senza progetti di vita associata, contento in fondo della propria miseria, pronto a bearsi soltanto della luce meridiana, compenso stordente di ogni male ereditato. La coalizione di interessi economici di una parte del Paese ai danni dell'altra, con la sponda politica della capitale, esiste sì, ma i benefici sono andati tutti in direzione opposta: «Ecco come l'opera dei vecchi - pensa Lando -, ora nel bel mezzo d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre su, nel settentrione, s'irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia, la miseria e l'ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine!».
Insomma tutte le teste pensanti de I vecchi e i giovani - dalla radicale Caterina a Flaminio Salvo fino al socialista Lando - concordano nel rivendicare il tradimento che il sud, e la Sicilia in particolare, avrebbe subito dai governi postunitari. È una versione che non si potrebbe ricevere integralmente, per molte ragioni che oggi sono del resto materia sensibile del dibattito storiografico. Ma è una versione della Storia che ci riesce comunque molto più accetta rispetto all'affresco superficiale e francamente irritante (e forse Pirandello se ne irritò) che Zola aveva offerto ai suoi lettori.

 

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