Pervinca Paccini
Tunnel

 

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Ci riuscirono.
Su un fuoristrada ingoiato da uno dei tanti tunnel luridi attraverso i quali Milano spia le sue stremate periferie. Su quel fuoristrada, posteggiato lungo la ferrovia. Vicino a un marciapiedi offeso dall'immondizia.
Ci riuscirono.
Si impadronirono del tempo e dello spazio.
Del mio tempo e del mio spazio.
Brandelli di vestiti fra le cosce, mentre quelli mi divaricavano le gambe. L'alito della notte sconvolto dall'odore sordido di saliva del numero uno.
Uno schiaffo mi colpì sulla guancia. Respirai senza un lamento.
Ferma. Devo stare ferma. Devo fare tutto quello che vogliono loro.
"E non fare tante storie. Muoviti. Fammi godere".
Indifferente all'osceno del mio sesso spalancato, inghiottii l'incredulità del sangue e un rigurgito di vomito. Insulti indecenti rotolarono su di me.
Calma. Non devo ribellarmi.
L'umiliazione e il dolore non contavano più nulla. Ciò che contava era vivere.
Così cercai il lontano, per distanziare lo sgomento della carne, per guardare dall'estraneità di un punto qualunque ciò che stava succedendo, ma - Dio, fa che finisca in fretta - vidi la violenza abbattersi sul mio spazio fisico, devastarne i territori, spazzarne via le coordinate geografiche, spianarne con ferocia i confini. E allora rimasi lì, tutta intera, con la vita negli occhi, a sentinella del corpo, a sorvegliarne il fiato, a cercare di succhiare via la sofferenza.
Sì, quelli ci riuscirono.
Trafugarono la mia coscienza. Trafugarono anche la mia coscienza.
La sentii affievolirsi su tutto fuorché su un'ultima parola: Vivere. Sentii il tempo relativo del prima e del dopo annullarsi. Sentii solo quell'imperativo assoluto: Vivere. Sentii la ragione addomesticare la rabbia e l'istinto rendere docile la ragione.
In quell'angolo, nella melma della strada, si acquattarono la giustizia, la ribellione, la dignità, l'umanità e tutte le altre stronzate che diventano valori solo quando c'è tempo, quando il tempo attraversa i pensieri e le cose con la normalità dei suoi ritmi, e soprattutto quando la disperazione del mondo fa capolino da un dove qualsiasi, non troppo vicino, solo quel tanto che basta per svegliare la compassione.
Inchiodata a quella parola: Vivere.
Rimasi. Sul fuoristrada mattatoio, come una pecora muta, con il respiro rivolto all'interno per non fare rumore e il silenzio dipinto sul muso.
Il numero due mi strizzò un capezzolo, con forza. Provai a urlare.
Vivere. L'imperativo mi impose il silenzio.
Il dolore si fece tenue fruscio della gola, leggero balbettio, il niente di un sussurro. Un sapore di preghiera scandalizzò le consuetudini di tutta un'esistenza.
Il numero due catturò quel cenno di voce.
"Le piace alla puttana, eh. Dai che ci divertiamo".
Zitta. Non devo eccitarli.
La bava del suo ghigno si sollevò per un istante dal mio viso contratto su un singhiozzo che rimase incatramato nella gola, mentre una lacrima scivolava giù fino al labbro e diluiva lo schifo e il sudore e l'unto di quella bestia.
Le sue mani si strinsero intorno al mio collo. Una risata liquidò il silenzio.
Mamma... aiutami... Mi riconobbi in un rantolo. Senza voce.
Poi l'aria tornò. Ripresi a sperare.
"Muovi quel culo, avanti".
Bisognava ubbidire. Tutto stava a non perdere la calma. Padrona di me, questo dovevo essere. Sì, vigile. Attenta a non farmi tradire da un movimento qualunque, dal benché minimo fruscio della paura.
Lo sentii grugnire come un maiale.
Bisognava tenere duro. Vivere.
Il numero tre si avvicinò. La sigaretta brillò nel buio. Chiusi gli occhi.
"Guardami in faccia, puttana. Fammi vedere le tue smorfie. E dai che ti piace farti sbattere".
Le palpebre si alzarono. Un pugno improvviso le precipitò nuovamente nel buio.
"Guardami, ho detto".
Il mio sguardo storto, come trafitto da decine di spilli, si proiettò lontano con l'ombra gonfia dei lividi a velarne l'angoscia. Scivolò oltre, ancora una volta, a cercare la distanza. La faccia rossa di piacere del numero tre scolorì nel buio.
Sentii l'odore della carne bruciata, prima ancora del male. Quello venne dopo, dopo che ebbi raccolto le ultime briciole di forza per non guaire di disperazione.
Non ce la faccio, Dio. Fammi svenire.
Ma non svenni. Nemmeno quando la brace si avvicinò un'altra volta. E un'altra ancora.
Il numero tre mi girò.
Brani di passato pretesero di riemergere. Li respinsi insieme ai visi della mia vita, per non farmi fottere dai sentimenti.
Concentrarsi. Bisogna concentrarsi, ora. Per non commettere errori.
I denti trassero note stonate dalla pelle che rivestiva il sedile. Odore di macchina nuova.
Vivere.
Dovevo riempire il presente di futuro. Per dare una possibilità, non fosse stata che una sola possibilità, al domani.
Vivere. Ora.
Scaricata dal fuoristrada, mi accasciai. La borsa piombò sul braccio disteso come l'ultima ondata su un relitto. Il borbottio del motore si spense nel brusio del traffico. L'umidità ruvida dell'asfalto penetrò nella mia pelle.
Rimasi lì.
Un nulla di rifiuti, un nulla di macerie. Rimasi per terra come un cumulo di nulla.
Davanti alla bocca del tunnel che prometteva di risucchiarmi con la sua lunga proboscide verso la salvezza, dentro la città, nel cuore della mia casa dove mi sarei svegliata dall'insulto di quella notte.
Rimasi.
Toccai il mio sesso appiccicoso di sangue e di sperma. Ordinai agli occhi di aprirsi. Uno solo ubbidì. Bucce d'arancia e una lattina, questo fu tutto ciò che vidi.
Rimasi lì.
Bucce d'arancia, una lattina, quattro mozziconi. Furono tutto ciò che vidi.
Un sorriso tumefatto tagliò di sbieco le labbra.
Viva. Sono viva.
Sul selciato, quella notte, seppi cos'è la felicità.
Viva.
Aprii ancora gli occhi. Tutti e due. A fatica. I mozziconi erano lì. Li contai: uno... due... tre... quattro... Viva. Sono viva. Uno... due... tre... Sono ancora viva. Uno... due...

 

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Giugno-dicembre 2012, n. 1-2


 

 

 

 

 

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