Daniele Borghi
Nota sul saggio.
Come un genere può rilanciare il contenuto ovvero la libera espressione al vaglio della tecnica di scrittura

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Il saggio come genere letterario
Discontinuità, soggettività, argomentazione
Responsabilità, interdisciplinarietà
La forma del saggio
Conclusioni
Bibliografia


 

§ II. Discontinuità, soggettività, argomentazione

I. Il saggio come genere letterario

La posizione privilegiata di cui possiamo godere, gettando oggi uno sguardo indietro ai primi dieci anni del 2000, ci consente di avere una visione d'insieme sul lungo periodo, e di cogliere quindi una tendenza comune, condivisa da più studiosi, che segna in un certo qual modo gli sviluppi della nostra cultura. Grazie ad alcune importanti pubblicazioni di questi anni si è consolidata la discussione intorno al genere del saggio, tradizionalmente riconosciuto come marginale rispetto alle letterature nazionali.1 Di più: è riconosciuta e trasmessa l'importanza della scrittura saggistica e con essa è fiorita una seria riflessone teorica. Dopo Francia e Inghilterra, le patrie del genere, e Germania, negli anni Sessanta della critica della cultura, questa consapevolezza finalmente ha raggiunto il nostro Paese.
Questa nota risponde alla necessità di una riflessione lucida sul mezzo che i nostri pensieri hanno a disposizione e raccoglie una bibliografia disponibile in Italia sul genere saggistico. Proprio questo - a mio avviso - può costituire una seppur parziale risposta alla crisi della critica e della letteratura raccontata da molti con tono preoccupato in questi ultimi anni.
Mi spiego, e allo stesso tempo ripercorro alcuni punti fondamentali toccati nelle pubblicazioni di questi anni.

L'affermazione del genere saggio, come si è andato definendo a partire dal secondo dopoguerra, è sancita indubbiamente dal Convegno internazionale dal titolo «Il saggio. Forme e funzioni di un genere letterario» organizzato dall'Università di Bologna fra l'11 e il 13 novembre 2004, dal quale è nata nel 2007 la pubblicazione omonima, per i tipi dell'editore Il Mulino, curata da Giulia Cantarutti, Luisa Avellini e Silvia Albertazzi. In questo volume non poteva mancare la presenza di Alfonso Berardinelli che già scriveva sulla forma saggistica nel 1986 in La ragione critica2 ed è stato poi autore nel 2002 del libro La forma del saggio. Definizione e attualità di un genera letterario,3 che Giulia Cantarutti cita nell'introduzione al libro di cui è curatrice e definisce "epocale".4 A questi titoli aggiungo Convergenze di Remo Ceserani del 2010, anche se non dedicato propriamente al saggio, e, infine, il più recente libro di Angela Borghesi,5 Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento, che, figlio di questa nuova consapevolezza, ricostruisce genealogia e rapporti tra saggisti italiani.
Le date individuano chiaramente un periodo in cui la necessità, le qualità e i vantaggi di una discussione condotta attraverso l'argomentazione e la prosa sono accertati e affermati definitivamente, e che ha prodotto quei testi oggi molto utili e assolutamente necessari per affrontare lo studio del saggio come genere. Strumenti che mancavano nel nostro Paese, come ha riconosciuto anche Giuliana Benvenuti intervenendo al Convegno bolognese: «la tradizione italiana non ha esempi di convergenza tra romanzo e saggio paragonabili a quelli di Musil o Thomas Mann né ha teorici attrezzati come Lukács o Adorno».6

Deve essere ricordata in primis l'importanza che il genere saggistico è venuto a ricoprire nel corso del Novecento e tuttora ricopre nella cultura occidentale.7 Dalla fine della seconda Guerra mondiale emerge un nuovo senso di responsabilità sociale degli scrittori che determina una fondamentale presa di posizione critica degli stessi nei confronti della creazione letteraria8 e una nuova fortuna per il «più critico e instabile dei generi, al genere letterario della riflessione, dell'interpretazione e dell'autocoscienza».9 Un'impasse che nell'Italia postbellica è molto sentita, per esempio da Calvino, il quale percepisce che il momento storico richiede una riflessione e un pensiero sul fare letterario e non di intraprendere la strada della produzione vera e propria.10 «Nel secolo della crisi dei generi» prende piede infatti «l'uso del saggio-reportage e del saggio-diario per esplorare una realtà che sfuggiva alle categorie teoriche e che richiedeva descrizioni dirette, accurate, spregiudicate».11 Da quel momento il saggio ha assunto una funzione strategica per la modernità e preso le caratteristiche che oggi maggiormente sottolineiamo: abbandona i caratteri del trattato, «meglio adatto ad esprimere un dogma, cioè una dottrina o teorizzazione in sé conclusa e ben fondata»,12 e inizia a rappresentare il «genere letterario del pensiero critico e antidogmatico» canale privilegiato della cosiddetta critica della cultura, che «ha perciò esercitato una funzione essenziale nello sviluppo della cultura occidentale. Dietro la sua forma si può leggere la crescita storica dell'individuo moderno, ma anche della pubblica discussione e della ragione critica applicata a temi di interesse collettivo».13
L'Europa sembra aver perso la capacità «di inventare e proporre miti e storie», mentre mantiene un legame privilegiato con la forma saggistica, e soddisfa la richiesta di narrazione attingendo dalle altre culture. Analizza magistralmente Berardinelli:

«La letteratura europea, anche negli ultimi due secoli, ha prodotto straordinari capolavori in poesia e nell'arte del romanzo. Il romanzo in particolare è stato a lungo un genere letterario tipicamente europeo. Ma ho l'impressione che le nostre capacità narrative si stiano esaurendo. È invece nella saggistica, nel genere letterario veicolo di interpretazioni, analisi e commenti, che anche negli ultimi cinquant'anni l'Europa ha prodotto di più. Insomma: interpretiamo miti e racconti prodotti altrove, in America, Asia, Africa».14

Inoltre, una riflessione sull'essenza teorica del saggio è resa obbligatoria dalla fortuna attuale dell'autofiction, genere narrativo caratterizzato proprio dall'intreccio di elementi finzionali con riferimenti reali che possono provenire dalla cronaca, dal reportage, dall'autobiografia dell'autore o da dati che vengono esposti proprio come in un vero saggio o trattato.
Questi esiti confermano una volta di più di essere di fronte alla «forma letteraria più espressiva della nostra epoca che accentua al massimo la tendenza al rimescolamento, la fusione e la riformulazione dei generi letterari»,15 e ribadiscono la sua importanza per i nostri giorni e la necessità nell'affrontare anche l'analisi testuale di opere d'invenzione.

Potrebbe facilmente essere obiettato d'altra parte che già «il romanzo novecentesco si era molto compromesso con la saggistica» - «Proust poteva essere considerato più un erede di Montaigne che di Balzac e Flaubert. Le prose di Kafka sono costruite con la maniera dell'aforisma e della parabola. Mann e Musil hanno usato il romanzo come habitat del pensiero. Cosa che più tardi ha fatto anche Milan Kundera, mentre Calvino, come Pasolini, ha concluso la sua carriera di scrittore con eccellenti libri di prosa in bilico fra saggio e racconto»16 - e che la tendenza al rimescolamento e alla fusione era già riconosciuta e utilizzata in passato, oltre che dagli autori già citati, anche da Renato Serra, che univa il racconto di aneddoti al saggio vero e proprio, o da Wieland, Uwe Johsnon e Broch, che Gherard Haas, riferendosi al suo panorama nazionale nel 1969, portava come esempio di questa commistione.17 In questa occasione mi limito all'accezione attuale del saggio e ai suoi significati odierni, che, a differenza del passato quando si trattava di un uso non sistematico e di esiti indipendenti, sono utilizzati in maniera deliberata e rappresentano una vera e propria cifra programmatica, per esempio proprio nell'autofiction.
Allo stesso modo, anche se in queste pagine è trascurato, non si dimentica qui tutto quello che il passato ha prodotto insieme alla lunga tradizione saggistica europea e ai modelli e agli anticipatori che hanno permesso risultati così importanti nel Novecento. Si potrebbe risalire fino al rinascimento, poi ai padri Bacone e Montaigne (che a loro volta guardavano ai classici come Platone e Plutarco), passare per l'illuminismo e le riviste inglesi del settecento, poi a Voltaire e Rousseau e così via. Evoluzione ben delineata da Rohner risalendo alle origini del saggio,18 cominciata dall'area anglosassone, attenta alla forma e promotrice della concisione come mezzo stilistico determinante, per giungere in ambito tedesco più influenzato dalla cultura francese e dal «procedimento letterario»,19 senza dimenticare i fondamentali influssi d'oltreoceano come nel caso di R.W. Emerson. Ancora si potrebbe allungare il lungo elenco di autori illustri, che da soli potrebbero costituire l'argomento di una trattazione: De Sanctis, Kierkegaard, Benn, Kraus, Erasmo da Rotterdam, Schiller, Goethe, Schlegel, Gide, Valery, Camus, Herder, Hobbes, Locke; in Italia Cecchi, Praz, Debenedetti, Manganelli, Citati, Arbasino; scrittori che hanno prodotto dei grandi lavori che hanno segnato la storia del genere e che solo oggi vengono ricondotti ad uno sguardo teorico complessivo, consapevole e condiviso.

 

§ III. Responsabilità, interdisciplinarietà Torna al sommario dell'articolo

II. Discontinuità, soggettività, argomentazione

Torniamo, dunque, a ciò che preme qui sottolineare. Il libro del Mulino, assemblato con grande intelligenza e ottimo risultato, si serve della diversità di contributi - interviste, saggi di studiosi o degli scrittori stessi - per offrire una panoramica delle molteplici sfaccettature del genere in esso indagato. Ognuno dei saggi anche se dedicati ad autori specifici, esemplifica e evidenzia alcune delle caratteristiche e degli elementi principali necessari, insieme alle indicazioni tratte dalle altre pubblicazioni di questi ultimi anni, per costruire una definizione veritiera e il più possibile completa del genere saggistico. Elementi tutti collegati fra loro, non certo in una successione lineare come sono qui presentati, ma come una rete funzionale (che però subisce la resistenza di una trattazione separata, come sarà possibile riscontrare) e che si richiamano costantemente a vicenda; aspetti imprescindibili, tutti necessari ma non autonomamente sufficienti nella definizione del genere saggistico, che sono stati evidenziati nel corso del tempo e raccolti in questi ultimi anni.20

Uno di questi è la discontinuità che Arnaldo Bruni21 rileva già nell' Orazione inaugurale di Foscolo - esempio di militanza ancora valido per i nostri giorni: «esercizio critico insuperato, almeno sul versante italiano di quegli anni, e risulta precedente necessario per intendere il futuro sviluppo del genere»22 - e che ritroviamo, nello stesso volume, al centro del contributo di Graziella Pulce.23 Il saggio «può toccare la cronaca ma non è solo cronaca, può prendere posizione su un dato argomento ma non è però commento, può riferirsi a un'esperienza di viaggio ma non è semplice reportage, può dar conto della lettura di un libro ma non sarà sufficiente a definirlo recensione».24 Si tratta di una scrittura occasionale: della possibilità di scegliere il proprio argomento, ma anche di scegliere qualsiasi argomento, e di saltare da un argomento a un altro. Discontinuità che non si riscontra solo a livello tematico, ma si manifesta anche come «forma stessa del saggio»,25 come la definisce Adorno. Forma aforistica, sintetica e irregolare che si traduce in apertura, o meglio in «cattiva finitezza»,26 più affine alla frammentarietà del reale, che nei nostri tempi, segnati da molteplicità e contraddizione, ha soppiantato l'idea e l'aspirazione alla totalità, ad una verità unica, alla completezza e al controllo positivistico su tutto.

La libertà tematica rimanda ad un secondo aspetto, quello della soggettività, che pone il saggio in una posizione non conformista e lo rende soggetto a una dominante radicalmente non idealista. «Lo stare di fronte alla pagina bianca è condizione strettamente individuale, come squisitamente individuali sono le proprietà della scrittura saggistica».27 Il limite di un punto di vista singolare, che può essere condiviso o meno e che comunque è in attesa di essere smentito, allo stesso tempo, comporta una maggiore adesione alla componente umana, dà valore alla propria personalità e all'esperienza personale di vita. Dall'interazione del soggetto con l'oggetto deriva quindi una maggiore concretezza e una minore astrazione, che allontana dalla teoria: come avvertiva Lukács nella Lettera a Leo Popper, bisogna considerare l'attività del saggista un'«esperienza sentimentale, come realtà diretta, come principio esistenziale spontaneo»,28 un'esperienza intellettuale e concettuale, forma critica per eccellenza, che assorbe in sé anche la teoria.29 In quanto personale non significa che non abbia da dire nulla all'esperienza altrui, come ricordano la figura di Paolo Sarpi tratteggiata da Pasquale Guaragnella o la saggistica «diaristica» di Renato Serra descritta da Giuliana Benvenuti. Il motivo è presto spiegato attraverso le parole di Auerbach a proposito di Montaigne che Guaragnella cita da Mimesis: «se ogni uomo offre occasione e materia sufficiente per l'esposizione di tutta la filosofia morale allora è senz'altro giustificata l'esatta e sincera introspezione di un uomo qualsiasi».30 Soggettività e umanità rappresentano la «concezione della vita ordinaria che ha reciprocità con l'universale»31 e costituiscono un cardine possibile del problema del contatto fra arte e vita, che tanto ha interessato la filosofia e la critica del secolo passato.
Proprio l'esperienza, secondo Filippo La Porta, «è il nostro principale strumento ermeneutico»: il modo migliore per conoscere qualcuno, o qualcosa, è «riuscire a distaccarsi un po' da lui e metterlo in relazione con qualcun altro, istituendo una serie di feconde somiglianze-dissomiglianze».32

Il saggio, dunque, è il luogo del pensiero organizzato, dove chiunque può elaborare e stendere in tranquillità e libertà la propria riflessione organica e costruita, che abbia tutti i caratteri della completezza. «Scrivendo posso correggere» spiegava, con un'affermazione elementare ma per nulla scontata, Calvino nelle Lezioni Americane: «Scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto».33 Ma è dalle parole di Adorno che si coglie l'essenza strutturale del saggio, il quale «non si cura della certezza scevra di dubbio [...] i suoi concetti vanno esposti in modo che si reggano a vicenda e che ciascuno riceva la propria precisa articolazione soltanto dalle figurazioni che forma nel rapporto con gli altri».34 In primo piano è l'argomentazione: struttura autoportante che dà solidità alla tesi. Presenza ancora più necessaria nella critica letteraria perché, come ricordano le riflessioni di Franco Brioschi a proposito del giudizio, non si può mai dimostrare scientificamente un valore o un disvalore, ma si può solo argomentarlo in modo più o meno razionalmente convincente;35 e prima di lui anche Adorno dava al rigenerato saggio la nuova funzione di "interpretare"36 e non più quella di catalogare o accettare.
Dall'argomentazione deriva anche l'autorità di critico o autore in genere, che rappresenta essa stessa una seconda risposta al problema della soggettività: «il problema del critico [...] è come passare dalla dimensione personale, "diaristica", alla dimensione pubblica: dalla singolarità dell'esperienza all'argomentazione razionale. È la forma saggistica il medium stilistico nel quale questo problema può essere affrontato. La saggistica è equilibrismo tra provocazione, anarchia e finzione (o funzione) cerimoniale e pedagogica. I giudizi di valore e di gusto devono entrare in una strategia argomentativa che mira alla persuasione di un pubblico senza nascondere la radice individuale di valutazioni ed esperienze».37
L'imprescindibile argomentazione produce anche due ulteriori risvolti importanti: aumenta la consapevolezza e esercita una funzione critica, o meglio autocritica. Il primo censore diventa allora la pagina bianca dell'indovinello veronese, l'atto stesso di mettere per iscritto, strumento principale per dare corpo al pensiero, organizzarlo, metterlo alla prova, coltivarlo e nello stesso tempo dargli forza, cioè sostanza.

«La scrittura con la quale comunichiamo pensieri, giudizi, riflessioni, interpretazioni può presentarsi come tipo di scrittura più diretto, ma anche più sofisticato e più indocile o viceversa più flessibile e maneggevole [...] Il saggio è anzitutto il genere letterario del pensiero critico [...] crescita storica dell'individuo moderno, ma anche della pubblica discussione e della ragione critica applicata a temi di interesse collettivo».38

Genere della «pubblica discussione» scrive Berardinelli che già in precedenza aveva definito il saggio come «discussione e conversazione in forma scritta», e il saggista, riferendosi ad Enzensberger, «un autore-presenza con cui si dialoga, più che un autore-opera da analizzare»39. Una precisazione che ricorda come anche in questo caso non è sufficiente considerare il lavoro di scrittura come «pensiero critico» personale, argomentazione organica e costruita: la necessità di convincere, persuadere, che presuppone la presenza di qualcuno da convincere e rimanda a una modalità di dialogo. Il saggio dunque crea processi, nessi che da una dimensione privata portano ad una dimensione sociale. Proposito che ricorda quello espresso nell'editoriale e nelle pagine della rivista «Il Menabò», che tanti testi esemplari ha pubblicato, e che offrendo contatti con Francia e Germania - che in quegli anni conducevano le riflessioni intorno al genere saggistico - dimostrò apertura e respiro internazionale.
In questo modo si instaura una dialettica basata sul confronto, necessaria per entrare in relazione e realizzare, ciò che dice Berardinelli, la «ragione critica applicata a temi di interesse collettivo», cioè da ultimo per la formazione dell'identità nazionale. A dimostrazione di questa funzione forte stanno i saggi del volume di Cantarutti, Avellini, Albertazzi dedicati alla saggistica postcoloniale di America latina, Caraibi, Australia, che vertono tutti sulla necessità di costruire e creare un'identità propria, anche attraverso l'affermazione e la costruzione di un pensiero proprio attraverso la scrittura. Il saggio assume una funzione di distruzione e cambiamento di idee, come nel caso dei pregiudizi colonialisti, e rende visibili le cose nascoste dall'ortodossia: «la legge formale più intima del saggio è l'eresia»,40 sentenzia la massima di Adorno.
Si tratta di un "tentativo"41 che si sottopone alla discussione, alla contestazione pubblica, ed al quale si attende una risposta - anche se in tempi diversi, a qualunque posizione espressa, sempre con la dovuta argomentazione e sempre sullo stesso piano.42 Insieme, le posizione diverse che così sono venute in contatto, costituiranno un frammento in più nella comprensione dell'argomento del contendere.

 

§ IV. La forma del saggio Torna al sommario dell'articolo

III. Responsabilità, interdisciplinarietà

Strettamente legato all'esigenza di dialogo - e componente per me più importante, che diventerà il cardine nella risposta a quanto si esporrà in seguito - è la responsabilità; argomento che molto preoccupa già Adorno fin dalle pagine iniziali de Il saggio come forma43 e che trova in Bachtin il teorizzatore principale che offre una chiara esposizione e soprattutto un collegamento particolare direttamente alla letteratura. Il filosofo del dialogismo e dell'atto responsabile definisce questo principio come consapevolezza dell'alterità e come relazione, unisce termini che abbiamo già riconosciuto come intrinseci al genere saggio e rafforza ancora una volta l'importanza data all'esperienza personale e ai valori in quanto elementi fondanti di qualsiasi attività percettiva e conoscitiva. Scrive Bachtin: «L'atto deve acquisire un piano unico per riflettersi in entrambe le direzioni, nel suo senso e nel suo essere; deve acquisire l'unità di una duplice responsabilità, sia rispetto al suo contenuto (responsabilità speciale) sia rispetto al suo essere (responsabilità morale); in più, la responsabilità speciale dev'essere momento incorporato di un'una e unica responsabilità morale. Solo così si possono superare una cattiva separatezza e l'impenetrabilità reciproca tra cultura e vita».44
Il carattere squisitamente individuale della scrittura saggistica, ma in generale una qualsiasi «azione individuale»,45 esige delle forme interne di controllo etico per rappresentare una onesta riflessione in mezzo a tante voci di mercanti, un vero progresso piuttosto che una regressione o un ostacolo ad una più chiara visione dell'argomento trattato, perché - questa volta mi rifaccio a Lukács - il diritto di giudicare il saggista «se lo prende, si crea da sé le sue categorie di giudizio. Ma nulla è più lontano dalla giustizia che la sua approssimatività, di questa guercia categoria di facile contentatura e soddisfatta di sé».46
Quanto al richiamo alla frattura, risanata dalla responsabilità per Bachtin, tra sentenze pronunciate e vita reale, cioè tra piano teorico-filosofico e piano concreto, ci vengono indicate due ulteriori forme di controllo, non puramente etiche: il contesto e la forma, espressione della componente estetica. Bachtin concepisce una filosofia morale che comprenda il diritto, la religione, la politica, la cultura tutta, il gusto e tutti gli aspetti della quotidianità; una sinergia che funge da deterrente verso ogni tentativo semplicistico e settoriale che ignora i vincoli di una realtà complessa come quella contemporanea. Del processo estetico che torna all'etica e la rafforza, invece, parla Alessandro Niero in «In the Shadow of Dante» nella saggistica di Iosif Brodskij,47 saggio finale del libro del Mulino che costituisce da solo l'ottava sezione e chiude le panoramica sull'argomento proprio con uno slancio etico conclusivo. Per Brodskij l'atteggiamento etico e il temperamento stesso di uno scrittore sono determinati e condizionati dall'estetica, ed è proprio questo legame profondo che plasma il poeta e che non è così lontano, come vedremo, da quello che guida il saggista. La forma, come già detto, esercita un controllo diretto, e una forte resistenza, sul contenuto.
Se possiede queste caratteristiche e supera l'esame di questi controlli, allora il saggio dice qualcosa di nuovo e diventa, con le parole di Lukács, «un genere artistico, un'autonoma insopprimibile rappresentazione formale di una vita propria e compiuta»48 nonché un vero e proprio «processo di autocritica del saggista»,49 ancora più necessario se si considera la possibile presenza di elementi di fictio nell'esposizione.

Un altro termine importante, prima di affrontare l'aspetto puramente formale, è interdisciplinarietà. Il saggio, libero da forti normative di genere e aperto alla sperimentazione, riesce ad essere il mezzo ideale per unire campi di studi lontani fra loro e spesso poco comunicanti, come sottolinea Ceserani, che invoca nel suo ultimo libro quelle Convergenze che integrano e uniscono ogni tipo di discussione e pensiero utile a sostenere la propria tesi e che mirano a conclusioni più complete attraverso la collaborazione tra le diverse discipline di studio. La portata interdisciplinare del saggio si riallaccia alla tradizione saggistica settecentesca del Popularriträt,50 che implicava l'inscindibilità dei saperi e il rifiuto dello specialismo, della pesantezza erudita e, in generale, della «simulata compiutezza» tipica dell'esposizione sistematico-scolastica, a favore degli «schizzi con la mano destra» e di un ritrovato rapporto tra cultura umanistica e scientifica.
Allo stesso tempo il saggio è anche il luogo della commistione di generi, trattato, autobiografia, narrazione, finzione, esemplificati nel libro di Cantarutti dall'opera di Renato Serra, di Borges o di Handke e analizzati nei contributi di Domenico Mugnolo e Christian Schärf. In una tale operazione «l'intento dominante dell'autore, indurre il lettore tramite esempi singoli a riflettere in modo autonomo su determinati temi, trae profitto dall'integrazione di elementi fittivi che non indebolisce, ma anzi potenzia la discussione con il lettore».51 Si serve della retorica ma anche di espedienti narrativi: come gli accorgimenti per la costruzione del personaggio, quando si affrontano autori o personaggi storici, o protagonisti inventati; la presenza di aneddoti; o la presenza di un narratore che incarna una posizione differente a quella che vuole promuovere l'autore, per esempio in Economia della mosca cieca di Enzensberger52 dove chi parla si propone come ignorante in materia economica per indagare i suoi concetti di base ed esprimere la sua critica proprio su quell'argomento a lungo studiato dall'autore.
Per Bense il saggio «ha formalmente il diritto di servirsi di ogni strumento della costruzione razionale o emozionale, [...] della meditazione, della deduzione, della descrizione; può servirsi della metafora come di simboli astratti, di congetture e di dimostrazioni, di procedimenti distruttivi e provocatori, può inasprire le proprie tesi come in un manifesto o in una teoria; può perfino dissimularle, se in questo modo può essere raggiunto un più alto grado di concreta efficacia: la prospettiva ottica e il montaggio meccanico sono gli strumenti tecnologici di questa estrema arte dell'esperimento».53
Riassumendo, «la finzione è in grado di rafforzare le varianti del dubbio»:54 il saggio stesso è già tentativo falsificabile che esercita la sua funzione e giustifica la sua presenza quando obbliga il lettore a verificare ogni affermazione, ogni sentenza sottoposta alla sua attenzione, a ragionare con la propria testa e a rapportare alla propria esperienza quanto letto per trarne insegnamento e non essere ingannato. Anche se si trattasse di un'intera esposizione di dati reali, questi devono comunque essere interpretati.

 

§ V. Conclusioni Torna al sommario dell'articolo

IV. La forma del saggio

Molti nelle loro definizioni collocano il saggio a metà strada tra prosa e poesia: alcuni lo considerano portatore di una vera e propria poetica, ad esempio nella concezione di Glissant55 o ancora in Brodskij, altri sottolineano solamente quanto spesso i migliori saggisti siano anche scrittori o poeti, si pensi ad Enzensberger, altri ancora dedicano una parte importante della riflessione all'importanza della forma nella scrittura saggistica e a quantificare la componente estetica che lo rende forma d'arte, dimostrazione che ha occupato sia Adorno che Lukacs, mentre Berardinelli ricorda che il «problema dell'oggetto, del modo e dell'obiettivo della critica della cultura è diventato sempre più chiaramente, col tempo, un problema non solo di prospettiva, di metodo o di teoria, ma un problema di linguaggio: di invenzione delle strategie retoriche e stilistiche più adatte all'esercizio della critica».56 Tutti riconoscono alla forma del saggio una rilevanza certa, in accordo con la teorizzazione retorica di Perelman, secondo il quale è importante «non tanto studiare il problema delle figure nel suo insieme, quanto mostrare in che cosa e come l'uso di alcune figure determinate si spieghi con i bisogni dell'argomentazione».57
Il saggio «agisce sia dal punto di vista dei contenuti che della forma. In tal modo viene a crearsi uno spazio poetico sui generis che non si iscrive più in un patrimonio immaginativo, ma si colloca fra suono, narrazione e riflessione»,58 fa ricorso diffuso alle forme della narrazione e uso funzionale della metafora,59 così come degli accorgimenti di sintassi e di ritmo.
Per Berardinelli il ritmo deve essere utilizzato con giusta misura e bilanciato all'apporto di conoscenza, equilibrio prezioso che assume un ruolo portante per l'intera esposizione, e di cui può essere buona esemplificazione il brano tratto di Enzensberger: «Di noi non abbiamo eccessiva stima. Presuntuosi, se proprio, lo siamo al singolare. Il pluralis maiestatis non è il nostro forte. A quello vilitatis, di sminuizione, ci siamo abituati. Come collettività non siamo inclini al narcisismo. Solo la pubblicità si stambura ancora il petto soddisfatta. La propaganda dei partiti non riesce a starle dietro; non crede ai propri orecchi, quando si sente parlare. L'autoincensamento dei politici ha ormai meri effetti involontari: di penosità».60 Si tratta dell'incipit di Mediocrità e follia. Un invito alla bontà; in questo brano le frasi brevi, le pause di lettura segnate chiaramente dal punto fermo, fino ai due punti finali che isolano la specificazione finale, scandiscono il ritmo in maniera regolare, quasi a ricordare una divisione in versi - facilmente visualizzabile se si pensa di sostituire il punto con un a capo -, e indicano lo stato d'animo e la condizione di persone comuni anonime e senza velleità di successo. Rimanda «ad una sorta di esecuzione, performance produttrice attiva di senso. Come se anche la critica fosse imparentata con la musica (estensione dell'enunciazione di Valéry), in un discorso di ritmi, moduli e armonie».61
Per quanto riguarda la sintassi, essa determina semplicità e chiarezza del discorso: frasi minime, nette, che definiscono i punti nodali del ragionamento, la sua tesi, le premesse di partenza delle sue riflessioni o riassumono le conclusioni. I concetti sono racchiusi in massime che per la loro essenzialità e brevità si rivelano facilmente memorizzabili e spesso riutilizzati in citazione: «in ogni saggio - riconosceva Bense - si presentano delle locuzioni, quasi il germe dell'intero saggio, da cui può continuamente trarre motivi nuovi [...] Sono le proposizioni elementari di un saggio che possono appartenere tanto ad una poesia quanto ad una prosa».62
Il legame e l'affinità con la poesia si concretizza e si riassume nell'esattezza. Sono ancora utili le parole di Berardinelli: «mi interessa il fatto che le forme saggistiche siano consapevoli della loro particolare retorica e metrica e magari sappiano imparare dalla storia della poesia. La precisione estetica della prosa argomentativa costituisce un potenziale comunicativo da non sprecare».63
Il criterio dell'esattezza, della chiarezza e della scoperta rimandano a caratteristiche proprie della scienza. Passando attraverso la poesia si giunge nuovamente all'interdisciplinarietà e alla discussione intorno alla sua forma: il saggio è posto tra il trattato di intento scientifico e l'arte, «a metà strada fra scienza e invenzione»,64 cioè tra rigore scientifico e esigenza di espressione del pensiero. Musil, come Adorno, lo pone tra il campo dell'oggettività e quello della casualità, dell'irripetibilità dell'esperienza: «dalla scienza deriva il "metodo", dall'arte (e dunque dalla vita) la "materia"».65
Entrambi, scienziato e poeta, rispondono allo stesso spirito di ricerca, lo testimonia Glissant quando scrive che «il saggio si avvicina alla scrittura poetica quando è uno strumento di scoperta, quando serve a scavare in una materia. Talvolta i saggi si limitano ad essere delle ricapitolazioni. In questo caso, il saggio può avere un linguaggio razionale o completamente organizzato, strutturato, chiaro».66 Scienza, poesia e saggio sembrano rispondere a un'esigenza prima, e a loro comune, di dare nome e corpo a ciò che ancora non conosciamo e non sappiamo esprimere, formulano ipotesi, vanno per tentativi e li sperimentano. Inoltre, con il crollo del positivismo, la relatività e la consapevolezza dell'infallibilità della scienza - fenomeni pienamente novecenteschi -, le due discipline sembrano ancor più avvicinarsi. Spiega esaurientemente Calvino:

«La scienza si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura; costruisce modelli del mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo e deduttivo, e deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convenzioni linguistiche. Una cultura all'altezza della situazione, ci sarà soltanto quando la problematica della scienza, quella della filosofia , e quella della letteratura si mettano continuamente in crisi a vicenda».67

E ancora, ma questa volta in Lezioni americane e non a caso nel capitolo dedicato all'Esattezza, lo scrittore ligure sottolinea come entrambi, scienziato e poeta, conducono una «battaglia con la lingua per catturare qualcosa che ancora sfugge all'espressione».68
Il saggista deve essere carico di potenzialità immaginative, di «qualche attitudine visionaria e un certo gusto della fiction»,69 oltre che di visione d'insieme, come richiesto da Guy Larroux a ogni autore che stia per affrontare il genere saggistico, un «esprit universel»70 interdisciplinare e poliedrico, che guidi nel tentativo di comprendere il mondo. Egli dovrà saper usare la lingua per piegarla ai suoi fini, per raggiungere una chiarezza di pensiero che si può ottenere solo attraverso la continua elaborazione, la manipolazione e la visualizzazione nella parola scritta, per avvicinarsi maggiormente a ciò che vuole dire.71

Tre dimensioni definiscono dunque il «poliedro saggistico»72 costruito intorno all'oggetto esaminato: la dimensione teorica, della soggettività dominante, dell'esperienza, dell'argomentazione, della sinergia fra discipline diverse; quella pragmatica, della responsabilità, del controllo esercitato dal contesto e dell'adesione alla vita sociale; e quella stilistica, delle nuove possibilità narrative e dell'indagine poetica. Il problema dell'oggetto, tuttavia, costituisce l'ultimo ostacolo per l'affermazione del saggio come genere autonomo non relegato in osizione di sudditanza rispetto agli altri. Fin dalla definizione di Adorno, il saggio è considerato un genere non puro e quindi non propriamente letterario in quanto forma che tratta di altre forme, e poiché si sviluppa intorno ad un oggetto già esistente, nella critica letteraria spesso già di valore che illumina anche le parole del commentatore. Un limite che col tempo è stato superato e giustificato: «la specificità della scrittura saggistica viene a essere qualcosa che non si limita ad analizzare ma aumenta le proporzioni dell'oggetto»;73 in altre parole, tutte le caratteristiche individuate in queste pagine offrono la possibilità al saggio di dare un nuovo ordine a cose già esistenti.74 La sua «intensità» è determinata proprio dal fatto che deve in ogni istante riflettere su se stesso, risultando addirittura una letteratura elevata al quadrato come suggeriva una precisissima metafora calviniana.
Tutto questo perché l'oggetto stesso, inoltre, non si esaurisce mai, come spiega Andrea Tagliapietra:

«Il "saggio" non pretende di spiegare le cose. Non si assume la responsabilità di esaurire il significato del suo oggetto e, men che meno, di mostrarne un'improbabile essenza, ce ne offre solo un dettaglio [...] ciò che il saggio descrive non è, quindi, un dato, come nell'esperimento scientifico, bensì un'esperienza, un'avventura della comprensione.
Comprendere ciò che accade, non fornire una spiegazione valida per ogni occasione è, quindi, l'autentica finalità del saggio. Di qui l'andatura ondivaga, digressiva, come di chi fa una passeggiata senza meta, della migliore scrittura saggistica».75

Il saggista tratta in modo non sistematico - come uno schizzo a mano libera era stato detto - l'oggetto scelto e non esaurisce tutto quanto su di esso si può dire. Egli è vincolato a una "cattiva finitezza",76 che costringe il saggio ad essere, secondo l'etimologia del termine,77 un tentativo (per Musil) o un esperimento (Bense): ogni lavoro risulta essere mutevole ed effimero, esposto all'errore e soggetto a cambiamenti di idea;78 in conclusione, diventa unicamente un pretesto e un incoraggiamento per passi ulteriori.79
L'idea di verità, su un oggetto o teoretica, da tempo ormai non è più legata alla totalità, ma sia avvicina maggiormente al carattere frammentario e casuale che la forma e l'andamento del saggio riproducono: un procedere a «zig zag» imprescindibile perché frammentaria e dialogica è la realtà.

 

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V. Conclusioni

Gli spunti, le definizioni e le caratteristiche fondamentali sottolineati in queste pagine servono a mio avviso come risposta - o almeno come sicuro approccio e fondamento a una risposta più completa - a un'altra riflessione che ha caratterizzato questo inizio millennio; e insieme, al rischio di sminuire ogni possibile funzione del saggio, come l'abbiamo qui descritto nella sua funzione più alta di organizzatore di pensiero, a favore di una scrittura che già Adorno nel 1961 definiva da feuilleton: «Strappata alla disciplina della illibertà accademica, la libertà dello spirito diventa pur essa non libera, si adegua al bisogno socialmente preformato degli acquirenti»,80 come si vede sempre più spesso dai responsi dalle classifiche di vendita dei quotidiani e dei loro supplementi.
È di vivace attualità - quell'attualità dettata dai tempi di stampa di libri, riviste e giornali e della lettura - la preoccupazione e l'allarme per la mancanza di stile, di una generazione di critici adeguata, di valori, e per la decadenza della narrativa italiana. Pensieri che serpeggiano nelle riflessioni di critici, giornalisti di cultura, letterati militanti: c'è chi sembra arrendersi e esclamare sopraffatto: Meno letteratura per favore!81 e auspica «filtri selettivi da parte di persone qualificate», chi sembra schierarsi Contro la letteratura82 stessa, come Davide Rondoni, e chi come Alfonso Berardinelli ammonisce: Non incoraggiate il romanzo.83 Tutti slogan contenuti nei titoli di volumi usciti negli ultimi due anni, non certo gli unici sull'argomento, ai quali si devono aggiungere anche gli articoli apparsi nelle pagine culturali dei quotidiani (grande spazio è dedicato dal supplemento domenicale de «Il Sole 24 Ore») e sicuramente altri pamphlet, si pensi a Scritture a perdere84 di Giulio Ferroni, per ulteriore aggiunta. Una crisi continuamente evocata, ma raramente affrontata. Sono autori che si scandalizzano per il malcostume letterario, per l'incapacità della critica di scegliere e guidare, e aggiungono voci su voci a questa confusione in cui, si sa, l'«uomo della strada» sopravvive benissimo, e senza alcuna preoccupazione.
Non si vuole qui prendere posizione o ripetere ancora l'imminenza o la realizzazione della «fine della letteratura», per citare un altro libro di Ferroni sugli stessi temi.85 Si vuole piuttosto dare un'indicazione di metodo - per nulla originale per giunta - utile per mettersi in moto e costruire delle risposte concrete dopo questi anni di presa di coscienza della situazione e dei mezzi. Credo che la soluzione si trovi nel modo corretto di discutere così come avviene nel genere saggistico qui descritto che ha come elemento fondamentale l'argomentazione e l'organizzazione di pensiero. Un esercizio ancora più necessario oggi che, dal libro autoprodotto ai gruppi editoriali e alla grande distribuzione, si moltiplica un prodotto destinato a un pubblico lento a modificarsi, e si moltiplicano i panorami culturali con i quali siamo costretti a confrontarci: «i giovani critici vengono dopo la caduta del Muro, dopo l'esaurimento di ogni avanguardismo, dopo la fine dell'egemonia culturale di sinistra. Sono soli, disorganici a tutto, sradicati disappartenenti. Ma questo li costringe a contare solo sulle proprie forze. Se giudicano l'esistente inabitabile o se si esprimono a favore di qualsiasi "impegno" hanno bisogno di rimotivarlo a partire dalla propria esperienza, non possono più aggrapparsi a una filosofia della storia a un partito o a una classe sociale salvifica».86 Nel momento in cui non può più contare su teorie sociali e su utopie storiche e neppure su un consenso a priori di un pubblico di sinistra e d'opposizione, c'è la necessità di sbrogliare lentamente il tessuto della realtà e ripartire da definizioni chiare e isolate, dalle quali ripartire per più complesse relazioni. Questo è possibile attraverso l'uso della scrittura saggistica.

 

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VI. Bibliografia

  • Battistini, Andrea, e Ezio Raimondi - Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana. Le forme del testo. I. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 5-359.
  • Benassi, Stefano - Rilievi sulla scrittura di saggio del Novecento, in «Studi di Estetica», 1982, n.1, pp. 100-118.
  • Benassi, Stefano e Paolo Pullega (a cura di) - Il saggio. Storia di un genere e di uno stile, Bologna, Capelli Editore, 1989
  • Berardinelli, Alfonso - La forma del saggio. Definizione e attualità di un genera letterario, Venezia, Marsilio editore, 2002.
  • Borghesi, Angela - Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento, Macerata, Quodlibet, 2012.
  • Cantarutti, Giulia, e Luisa Avellini, Silvia Albertazzi (a cura di) - Il Saggio. Forme e funzioni di un genere letterario, Bologna, Il Mulino, 2007.
  • Di Girolamo, Costanzo, e Alfonso Berardinelli, Franco Brioschi - La ragione critica, Torino, Einaudi, 1986.

 

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