Jan Skácel, Il colore del silenzio (Poesie 1957-1989) a c. di A. Cosentino; postfazione di J. Mikolajewski, Pesaro, Metauro Edizioni («Biblioteca di Poesia»), 2004, pp. 253; € 22

di Laura Toppan

 

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Il colore del silenzio, che inaugura la collana di Poesia diretta da Massimo Rizzante nelle edizioni Metauro, è un'antologia (con testo a fronte) che offre al lettore italiano l'iter poetico di Jan Skácel, uno dei maggiori poeti cechi del Novecento. Seguendo il criterio cronologico, il volume si apre con alcuni testi scelti dalla prima raccolta del '57, Quante occasioni ha una rosa, e si chiude con E di nuovo l'amore, pubblicata postuma nel '91 e qui per la prima volta in traduzione italiana. «Non è stata impresa facile - spiega Anna Cosentino nella bella prefazione -: la lingua di Skácel è densa ed essenziale, carica e nitida, con rime sorprendenti, con una struttura fonica efficace, con un gusto surrealista per la sinestesia.1» Ha scelto quindi in italiano il verso libero, arricchito da allitterazioni ed assonanze, dato che «la ricerca della rima avrebbe comportato difficoltà insormontabili, prodotto un effetto antiquato e richiamato associazioni inopportune.2»
Ma facciamo un passo indietro, e ripercorriamo la biografia travagliata del poeta insieme alla curatrice dell'antologia, che nel 1986 ebbe il privilegio di incontrarlo.3
Jan Skácel nasce il 7 febbraio 1922 a Vnorovy,4 un paesino della zona di confine chiamata Slovácko, nella Moravia sud-orientale, e trascorre l'infanzia in campagna. Il legame con la sua terra è profondo, interiore, vissuto e scavato nella lingua. Figlio di due insegnanti, frequenta le prime classi a Poštorná, il liceo a Břeclav e a Brno. Terminati gli studi trova lavoro come manovale e come maschera in un cinema. Durante la seconda guerra mondiale tenta varie volte di fuggire dal "campo di lavoro" di Totaleinstaz e, per punizione, nel novembre del '41 viene deportato nei territori austriaci del Reich dove lavora come operaio nei cantieri stradali. Dalla Germania scrive ai genitori delle lettere, invece dall'Austria, dove la censura è sistematica, inizia a scrivere delle poesie: intuisce quanto la metafora possa dire e celare. Alla fine della guerra ritorna a Brno e nel '45 entra nel partito comunista. Sino al '48 frequenta i corsi di letteratura ceca e russa all'Università e scopre che «[...] la maggior parte dei professori aveva ripreso ad insegnare come se le lezioni non fossero mai state sospese il 17 novembre del '39».5 Nel '48 viene assunto come redattore della rubrica di cultura del quotidiano «Rovnost» di Brno, dove prende il posto di Oldřich Mikulášek, il poeta cui si deve la sua scoperta e di cui sarebbe diventato col tempo grande amico. Nel '52 viene licenziato perché accusato di trozkismo e "deviazioni", e rinuncia ad un posto di professore all'università per andare a lavorare in un'officina metalmeccanica sino al '54. L'amico Mikulášek lo vuole nella redazione di Brno della radio cecoslovacca, ed è lui che lo spingerà a mettere insieme la sua prima raccolta di poesie, Quante occasioni ha una rosa, in cui si delinea già il suo carattere di poeta intimista, con riferimenti al paesaggio della campagna morava e forti rinvii alla tradizione letteraria ceca, in particolare al mondo delle fiabe di Karel Jaromír Erben (1811-1870), poeta romantico e folklorista. La natura è per Skácel uno spazio drammatico, una parte del destino umano: «Stasera è venuta a trovarmi una rosa. / Sedevamo in due soli / rorida lei beveva acqua pura, / la mia visitatrice, splendida rosa bianca, / nel bicchiere del mio cuore».
Opélik, l'interprete più penetrante della poesia di Skácel, afferma che quest'ultimo «sostituisce il tempo artificiale con un tempo naturale, riabilita il passato, e con esso la dimensione della durata, dimostra la giustezza del remoto e autonomo tempo della fiaba e del mito, rivela che il nuovo ordine è uno pseudo-ordine o un disordine e si adegua all'ordine autentico».6 Fondamentale è anche l'amicizia di Skácel con alcuni pittori, ad esempio Josef Čapek, per i cui disegni scrive dei versi: da questa frequentazione deriva la forte componente coloristica presente nei suoi componimenti.
Nel '63 Skácel diventa direttore della rivista «Host do domu», ove ogni mese compaiono "la piccola recensione" o "il piccolo corsivo", una forma breve, a metà tra il corsivo giornalistico e il commento narrativo. In questi editoriali, vicini al poème en prose, Skácel commenta eventi pubblici e privati con un finale incisivo ironico, lirico, dolce o tragico, che ha la funzione di spiazzare il lettore.7 Questo tipo di scrittura inciderà sulla sua poesia che assumerà una forma più concisa, sino ad arrivare, nel '70, alla composizione di due cicli di cento quartine ciascuno con una chiusa inattesa: l'ultimo verso condensa tutti gli altri. Nel '70 la rivista «Host do domu» viene chiusa e da quel momento, sino all'81, il nome di Skácel scompare dalle case editrici "normalizzate": per poter pubblicare egli è costretto a nascondersi dietro uno pseudonimo o a farsi coprire dalla firma di amici e conoscenti compiacenti. Le sue poesie sono confinate al circuito clandestino del samizdat o alle riviste pubblicate all'estero dagli intelletuali cechi in esilio. Nell'89 Skácel riceve due riconoscimenti letterari: il premio «Petrarca», un premio tedesco conferitogli a Lucca, e il premio sloveno «Vilenica». Muore nello stesso anno, all'inizio di novembre, di ritorno da Vilenica, pochi giorni prima della caduta del regime totalitario cecoslovacco.
In vita, sempre gli fu negato un riconoscimento in patria, ma Skácel sapeva che «in questo mondo si mette tutto in vendita, l'onore e la fama; solo un cuore puro, un cuore umano, non si compra in nessun mercato». La sua poesia è autentica, contro un potere politico che cancella e annulla lo spazio pubblico. Quello di Skácel, è lo spazio di chi ha scelto un esilio interno, nel profondo di sé, è lo spazio di un segno di solitudine in mezzo al frastuono umano.
«È una poesia che sbaloridisce. Aspra nelle sensazioni, gioiosa nella leggerezza delle associazioni - afferma Mikolajewski nella sua postfazione al volume -. Sorprendente negli accostamenti, non detta fino in fondo, eppure trasparente[...]».8 A testimonianza di questa "opacità trasparente", riportiamo i versi del componimento Quel che è rimasto dell'angelo, che dà il titolo alla raccolta del '60:

«Al mattino,
sono ancora fasciati tutti gli alberi
e intatte le cose,
tra due pioppi si leva un angelo,
in volo dorme ancora.

Nelle fessure del sonno canta.

Chi esce per primo sulla via
è ferito dal canto,
forse intuisce qualcosa,
ma non scorge nulla.

È verde
ed è tutto quel che è rimasto dell'angelo».

L'angelo custode che veglia su ognuno di noi penetra nella natura, ne diventa parte integrante. L'aria si popola di personaggi che oscillano tra l'immaginario popolare e la fantasia del poeta, come Tristizia (in ceco Smuténka, un neologismo), che dà il titolo alla raccolta del '65:

«Quando fa buio in settembre,
ormai senza velluto, aspro, nudo,
nel campo passa tristizia
e canta,

tristizia passa tra le zolle
grigie come allodole e canta,

(è una storia più vecchia di me,
della mia morte,
della tristezza per me, perdona)

canta nel campo tristizia
e passa
lungo le strade di canapa d'autunno».

Dopo dieci anni di silenzio, nel 1981 esce Miglio antico, la sesta raccolta di poesia di Skácel, che contiene versi inediti e versi già pubblicati clandestinamente. L'espressione si fa sempre più «controllata ed essenziale» - afferma Anna Cosentino - perché «sono versi distillati dal silenzio»,9 come in Sonno dritto di fronte a noi:

«E anche gli alberi dormono in piedi come i cavalli
dormono tutta notte con le foglie abbassate
e le fronde quasi a terra.

Dormono senza sogni con gli scheletri sul marciapiede
schiacciati dalla luna. S'è assopita anche la linfa.
Anche gli uccelli dormono e i nidi fra i rami.

Nel profondo fin dove può arrivare
la mano vertiginosa del buio
le radici tacciono di parole cieche.

Al sonno perpendicolare risponde il silenzio».

Ed è dal silenzio che sanguina la ferita del regime in un'Ardua estate:

«[...]
E le ombre lungamente si stendono
nell'erba e un sangue di carminio
ha spruzzato i rami è sorta la luna
e si è spaurita la pernice».

Nella raccolta successiva Skácel scrive in quartine, in rima (abbandonata nella traduzione italiana), a testimonianza della necessità di una condensazione del suo pensiero e delle sue sensazioni: il verso procede per blocchi isolati, ma che rispondono tuttavia ad un'architettura interna e sotterranea. Nella raccolta Speranza dalle ali di faggio dell'83, nel ciclo Noccioline per un pappagallo nero, leggiamo:

«e agosto finisce sono scalzi i giorni
fioriti gli astri si sente già il freddo
l'autunno è una chiocciola sporge le corna
l'estate di san Martino scende nei giardini».

La natura si intreccia al "paesaggio di sentimenti" di Skácel, passato e presente si fondono, come nel componimento Marsia (della raccolta Colata nella cera persa dell'84), chiaro riferimento al mito del sileno che aveva osato sfidare il dio Apollo in una gara musicale contrapponendo il suo flauto alla cetra apollinea. Vinto nella prova, con il giudizio di Zeus e alla presenza di Atena, delle Muse e di Artemide, Marsia viene scorticato vivo dal suo sfidante:

«Cencio insanguinato secca e annerisce
cambia in corteccia si trasforma in buio

a fine settembre sanguina ancora
nel vasto fogliame dei vecchi platani

quando il dolore è appena un briciolo
di quel che devi ancora paventare

tu sei come Marsia sulla sua pelle
tamburellano le pioggie d'autunno.
Quanto tempo è passato e sembra ieri
e quanto è in fondo vicino a noi

il luogo in cui dio lo spellò vivo
e l'attaccò a un platano coi chiodi».

Le immagini si addensano, e la sofferenza interna si fa breccia dal silenzio, ma la speranza di un vento nuovo e leggero non abbandona il poeta, come nei versi di Poesia d'amore dell'ultima raccolta:

«Sul dorso della mano un segno bruno
ma io so bene
(quante volte ci disputammo una rosa)
che è il nostro autunno e una foglia d'acero
che il vento ti ha sospinto
inatteso sommesso sotto la pelle».


Durante la lettura - e la scoperta - della poesia di Jan Skácel, abbiamo avuto occasione di conversare con Lenka Froulikova,10 anch'essa testimone della personalità del poeta, studiosa dei suoi versi e traduttrice in francese di alcuni componimenti:

Come definirebbe il linguaggio della poesia di Skácel?

Jan Skácel esprime il suo pensiero sulla condizione dell'uomo in un linguaggio puro, sobrio, allusivo, in versi che a volte si avvicinano alla prosa. In lui la vita è leggera e pesante allo stesso tempo, innafferabile, e l'esistenza umana rimane aperta. Egli trova la propria ispirazione nella natura e nella campagna morava: è per questo che nei suoi versi risuonano i riflessi della creazione popolare e gli echi del linguaggio poetico cristallino delle canzoni e delle ballate del popolo moravo. La morte e la vita subiscono il peso dei miti leggendari, la sofferenza dell'uomo è troppo debole per assumere il proprio compito, la natura è troppo forte: di fronte ad essa l'uomo scopre la propria impotenza, la fatalità delle passioni. Il tema della paura, dell'angoscia, e della tristezza sono dominanti in Skácel, in particolare nei componimenti della raccolta Smuténka: il personaggio di Tristizia - un neologismo creato dal dialetto moravo - oscilla tra l'immaginario popolare e quello del poeta.


Quali sono state le difficoltà maggiori che ha incontrato nella traduzione francese dei versi skàceliani?

Penso, insieme a Jiři Reynek, figlio di un poeta ceco e anch'egli traduttore, che far "transitare" una poesia da una lingua ad un'altra sia un atto necessario ed utile, ma anche forzato e violento: è come rompere un guscio, una conchiglia. Tradurre poesia è sempre difficile, perché il componimento è un'unità naturale di forma e contenuto. Il traduttore dovrebbe riuscire a rispettare la forma elaborata e precisa del poeta - rime, cesure, lunghezza dei versi, struttura delle strofe - e la composizione del contenuto - la ripartizione dei motivi e delle immagini. In Skácel la lingua è concreta e semplice da una parte, dall'altra è allusiva e piena di innovazioni lessicali, quindi di non facile traduzione.


Philippe Jaccottet ha tradotto in francese i versi di Skàcel a partire da una traduzione tedesca. Come giudica quest'operazione?

Non posso giudicare la traduzione di Jacottet perché non sarei obbiettiva: la mia lingua madre è il ceco e conosco l'opera di Skácel nella lingua originale, oltre che conoscerne tutti gli angoli più reconditi; così è facile che nella scelta tra sinonimi possibili legati ad un dato contesto, possa preferire una parola diversa da quella scelta da Jaccottet.


Come ha proceduto per la Sua traduzione?

Ho tradotto dei versi di qualche componimento con un obbiettivo assai modesto: spiegare ed illustrare il posto e il ruolo della poesia di Skácel all'interno dei canoni della letteratura ceca del Ventesimo secolo.


Com'è avvenuto l'incontro con Skàcel?

Jan Skácel è stato pubblicato e conosciuto dal grande pubblico ceco prima del 1968. Durante gli anni della normalizzazione, dal '70 all'80, egli è stato quasi messo da parte dalla vita letteraria ceca ed è morto qualche giorno prima della rivoluzione dell'89. Tuttavia, in questi lunghi anni in cui è stato più o meno ridotto al silenzio, la sua poesia è rimasta presente nelle biblioteche dei cechi. Per loro essa era il simbolo dell'autenticità contro un potere politico svuotato di ogni senso, e poteva esserlo grazie alle categorie chiave di Skácel - infanzia, amore, paesaggio, silenzio -, che rappresentavano dei rapporti fragili, ma comunque legati ad usi e costumi, quindi ad una tradizione ben consolidata, ad una vita popolare autentica.
Al liceo, e nei primi anni universitari a Brno, la città di Skácel, ho scoperto e studiato la sua opera nel periodo precedente gli avvenimenti del '68 e ho anche avuto la fortuna di incontrarlo, ogni tanto, in un caffè situato in un hôtel particulier, sede del Museo entografico moravo. Era un luogo nascosto, conosciuto solo da un pubblico di iniziati, frequentato da artisti, storici dell'arte, scrittori e studenti. Coloro che frequentavano il caffè si conoscevano bene e grazie a Mario, il proprietario, vi ho passato ore e ore bevendo caffè, studiando e discutendo con amici e compagni di corso. Mi ricordo benissimo, come fosse oggi, che vicino al bancone c'era un tavolino attorno al quale si parlava liberamente di arte, di letteratura, e anche di politica. Era il tavolino ove vedevo regolarmente Jan Skácel e intorno a cui ho assistito, e partecipato, a discussioni così arricchenti per la mia formazione letteraria e spirituale.

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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