Letterature Biblioteche Ipertesti, a cura di Federico Pellizzi, Roma, Carocci, 2005, pp. 263, € 23,80

di Mirko Tavosanis

 

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Una presentazione del volume Letterature biblioteche ipertesti, pubblicato nel 2005, deve partire dal fatto che il libro raccoglie in effetti interventi provenienti da convegni tenuti tra il 1996 e il 1998. Un simile scarto tra stesura e pubblicazione non è eccezionale nell'area umanistica. Tuttavia, nell'evoluzione delle reti informatiche, e di internet in particolare, questi otto-dieci anni hanno completamente cambiato il panorama. Da un periodo ancora quasi pionieristico si è passati a un mondo in cui internet è una realtà consolidata e uno strumento di lavoro quotidiano per un'ampia percentuale della popolazione dei paesi più ricchi, umanisti inclusi.
Inutile cercare di riassumere qui le tappe principali di questo percorso. È invece opportuno notare che nonostante lo sfasamento temporale, anzi, proprio grazie a esso, la pubblicazione oggi di questa raccolta di interventi offre un importante spunto di riflessione. Non tanto perché alcuni aggiornamenti ai testi permettono di seguire anche sviluppi più recenti, quanto perché ritrovarsi di fronte queste osservazioni è un buon modo per controllare quanto le speculazioni sul futuro prossimo possano cogliere nel segno (o meno). Esperimento ancora più interessante in quanto molti degli interventi presentati sono non solo acuti ma anche, per l'epoca della loro stesura, aggiornati sulla bibliografia corrente. Non potevano però tener conto di due eventi a loro contemporanei e che negli anni successivi hanno rivoluzionato il panorama, se non delle «letterature», certamente sia delle «biblioteche» che degli «ipertesti»: proprio al 1996 risale la formazione del gruppo incaricato di produrre il linguaggio Xml, mentre il 1998 è stato l'anno della fondazione di Google, Inc.
Prendiamo quindi in esame la sezione del volume che sembra in astratto la più esposta all'invecchiamento: la quarta e ultima, dedicata a Biblioteche digitali e testi elettronici. Se nel caso italiano si sconta ancora oggi un sensibile ritardo nelle infrastrutture bibliotecarie, nei contesti più avanzati i problemi del passaggio «dal possesso all'accesso» (titolo dell'intervento di Antonio Scolari) sono passati da tempo dalla teoria alla pratica - così com'è documentata per esempio dal «Bollettino AIB» - attraverso percorsi che non erano stati previsti. L'ipotesi un tempo seducente di condurre «un'attività di biblioteca» nei confronti dei documenti elettronici (p. 216) è adesso alla periferia del dibattito (anche se in Italia si sono avuti gli importanti contributi, tra gli altri, di Giuseppe Vitiello, a cominciare da Alessandrie d'Europa, 2002); e la consultazione di biblioteche digitali di testi letterari o assimilabili, per quanto importante in un determinato settore, è solo un'attività di nicchia tra gli innumerevoli usi della Rete. Perfino i problemi del reperimento di informazioni sono stati gestiti in modo all'epoca poco prevedibile: le osservazioni acute di Gabriele Gatti (Un mondo in forma di biblioteca) nascono per esempio in un contesto in cui la soluzione del problema del sovraccarico informativo sembrava gestibile solo attraverso i metadati, rimasti invece un percorso di minoranza. Viceversa, quella che l'autore presentava solo come prospettiva interessante ma remota («non trovo utile assumere una posizione "umanistica" a tutti i costi e proclamare che in nessun modo potranno essere le macchine a sbrogliare la matassa che le macchine stesse hanno ingarbugliato», p. 201) è oggi, tramite Google, la prassi quotidiana di decine di milioni di utenti.
Solo nell'intervento finale di Fabio Ciotti (Tecnologia e trasmissione del sapere: verso la biblioteca digitale, in parte rielaborato negli anni successivi) si ha quindi l'accenno alla più importante novità degli ultimi anni nel settore dei testi elettronici: il consolidamento della codifica dei testi. Che si è trasformata da pratica accessoria e «meccanica» in una disciplina a tutto tondo, caratterizzata da un rapporto proficuo con la realtà industriale e al tempo stesso con un forte spessore teorico (a segnare questa evoluzione, nel 2005 in Italia sono comparsi un adattamento del manuale TEI Lite, a cura dello stesso Ciotti, e soprattutto il manuale La codifica dei testi di Elena Pierazzo). Al punto che forse si può affermare che nell'informatica umanistica è questo il settore più interessante e meritevole di una formalizzazione accademica.
Il resto del volume, che propone contributi di tipo più teorico, potrebbe sembrare meno agganciato all'attualità. Tuttavia anche qui si può misurare bene il passaggio del tempo, che ha portato non tanto a una soluzione dei problemi descritti quanto a un drastico spostamento degli interessi (con una mossa che verrebbe da definire un «superamento», nel senso freudiano proposto da Francesco Orlando). È soprattutto sorprendente notare quanto fosse centrale ancora negli anni 1996-1998 la prospettiva dello «scrittore», invece che - come è stato più di recente - quella del «lettore» (peraltro ancora poco gestita dal punto di vista teorico).
Prendiamo in esame in dettaglio, come esempio di questo stato di cose, le osservazioni compiute da Jacques Anis nel suo L'ipertesto come ipermetafora. L'intervento inizia raccontando la storia dell'ipertesto e le prime riflessioni teoriche; sia le fonti primarie che il montaggio compiuto dall'autore rivelano però un notevole sbilanciamento sul lato «attivo» dell'ipertesto. Il ricercatore descritto da Vannevar Bush, per esempio, «runs through an encyclopedia», «goes, building a trail», «inserts a comment of his own, either linking it into the main trail or joining it by a side trail to a particular item», «branches off» e perfino «inserts a page of longhand analysis of his own»: i verbi usati per descrivere quest'attività, riesaminati oggi, sembrano singolarmente attivi e costruttivi; molto più di quanto non si ricavi dalla terminologia oggi corrente di "navigazione" o "ricerca". Lo stesso avviene nella seconda sezione (con citazioni dalle opere di Jay Bolter: «With the aid of computer, the writer constructs the text as a dynamic network of verbal and visual symbols») e nella terza, dedicata all'ipertesto presentato, secondo la teoria di Nelson, come «the most general form of writing». Nella quarta sezione, l'immagine della biblioteca elettronica viene evocata, ancora attraverso le parole di Bolter, come «a community of writers in an instant and effortless communication»; nella quinta vengono presentate le valenze utopiche di questo paradiso per autori e lettori; e infine, nella sesta se ne tracciano le implicazioni filosofiche.
Viceversa, nella pratica, ora che la Rete ha raggiunto una maturità e una presenza stabile, il ruolo degli autori ne è uscito ridimensionato - come era forse prevedibile che avvenisse. La pubblicazione di informazioni leggibili, al di là dell'ondata dei blog, continua a rimanere appannaggio di un gruppo percentualmente ristretto di professionisti e semiprofessionisti. E perfino l'idea di Bolter che «each act of writing and reading will leave a trace for future writing and reading» si è rivelata non solo pienamente applicabile nei motori di ricerca, ma anche carica, più che di stimoli creativi, di terrificanti implicazioni per la privacy (si veda su questo, per esempio, il recente libro divulgativo di John Battelle The Search, 2005). Chi vuole, in fin dei conti, che ogni proprio atto di scrittura e lettura rimanga per l'eternità a disposizione di concorrenti, venditori, giudici e tribunali?
La stessa prospettiva si ritrova in altri due interventi che prendono in esame altrettanti tipi di scrittura. Il saggio di Massimo Riva, Per una comunità della formazione letteraria: il world wide web e la nuova italianistica, è di particolare interesse perché aggiunge a numerose osservazioni penetranti anche molte proposte per il futuro. Alla domanda «su che cosa deve fare un critico» la risposta «in fondo semplice» veniva riassunta così: «bisogna scrivere in ipertesto, sperimentare in pieno il nuovo ambiente elettronico privo di gravità, avventurarsi sul web per dimostrare o sfatare l'accuratezza e la tenuta di certi presupposti teorici (o templates metafisici) cui, per formazione o per cultura, siamo (nostalgicamente o pervicacemente) attaccati» (p. 53). Operazione che negli anni successivi è diventata tanto comune da svuotare di senso la posizione teorica.
Il fatto che in un periodo pionieristico il punto di partenza anche per la produzione non accademica fosse la scrittura, e non la lettura, è invece condensato nel titolo di un intervento di Lorenzo Miglioli: Ancora alla ricerca del nuovo lettore modello. Ricerca che peraltro non ha avuto molto successo: col senno di poi, la «narrativa interattiva non lineare» (dal titolo del contributo di Maurizio Oliva e Jeffrey Johnson) non si è mai affermata come tale - mentre il mondo del videogioco è diventato una delle principali industrie dell'intrattenimento.
In positivo, invece, ciò che stacca il periodo contemporaneo dall'epoca di stesura di questi testi è stato l'avvento della ricerca su internet in senso moderno, con la nascita e la fortuna di Google. La disponibilità di un sistema capace di fornire risultati interessanti per l'utente, grazie a un algoritmo efficace e a un complesso lavoro redazionale, ha trasformato il panorama della rete in un modo che era stato al massimo immaginato a grandi linee, ma mai previsto nei dettagli.
In sostanza, quindi, nella moderna internet - a differenza di quanto avveniva nel modello di Bush - l'ipertesto non è più qualcosa che i lettori possono consultare solo secondo binari predisposti e curati. Che debbano esistere professionisti impegnati nella realizzazione di percorsi era (ed è tuttora) l'idea dei cataloghi degli anni Novanta, come per esempio Yahoo, ma i numerosi successi ottenuti in questo settore sono stati eclissati dal trionfo di Google, che oggi rappresenta senz'altro il paradigma dominante. Secondo studi di mercato di Jakob Nielsen, l'88% degli utenti, davanti a un compito da eseguire in rete, parte oggi da un motore di ricerca - di solito, appunto, Google. E, più in generale, «a major change over the years has been a declining emphasis on using search to identify good sites as such. Rather than hunt for sites to explore and use in depth, users now hunt for specific answers. The Web as a whole has thus become one agglomerated resource for people who use search engines to dredge up specific pages related to specific needs, without caring which sites supply the pages» (J. Nielsen, Alertbox, 16 agosto 2004). L'importanza della creazione di «ipertesti» nel senso classico proposto da Landow ha subito quindi un drastico ridimensionamento.
Che l'attenzione dei ricercatori si stia spostando in questo senso naturalmente non cancella la validità di interventi approfonditi sull'ipertesto, come Per una critica del link di Federico Pellizzi. In questo caso, anzi, si ha modo di valutare quanto è stato purtroppo lasciato indietro dall'evoluzione delle mode, mentre avrebbe potuto costituire un importante punto di partenza per altri filoni di ricerca. Il concetto di base di Pellizzi è che i «collegamenti» (link) interessanti non si esauriscano nel semplice «collegamento ipertestuale tra un documento e un altro, o tra porzioni di documenti». Anzi, i collegamenti possono essere indicati come i rapporti «di elementi testuali con possibili processi» (pp. 90-91). I quali processi possono essere descritti come una serie di «pragmemi»: avvio, collegamento, determinazione spaziale e temporale, scelta di opzioni, interrogazione, bricolage e uscita. È forse l'idea più stimolante tra quelle contenute nel volume, e, oltre a rappresentare un valido punto di partenza per ulteriori sviluppi dell'analisi, consente il passaggio agevole dallo studio del paradigma della navigazione a quello della ricerca.

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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