Elena Ferrante, I giorni dell'abbandono, Roma, Edizioni e/o, 2002, pp. 213, € 14,00.
di Anna Frabetti

 

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Possibile avvicinare l'universo doloroso e complesso di Elena Ferrante volendo preliminarmente sottrarsi ad ogni stereotipo di «scrittura al femminile»? Se la premessa può risultare polemica, essa è resa necessaria - quanto meno - dall'enigma biografico che circonda questa figura letteraria, felicemente ostinata nel rifiuto di ogni compromesso mediatico. L'universo immaginativo e linguistico della Ferrante è popolato di voci e corpi femminili, espressioni di una scrittura generata dal ventre - «scrivere veramente è parlare dal fondo del grembo materno» (I giorni dell'abbandono, pp. 141-142) -, pur essendo privo di concessioni ad un facile gioco psicanalitico, come di accenti femministi, nel senso più tradizionale del termine.
Dieci anni separano il romanzo d'esordio, L'amore molesto1 da I giorni dell'abbandono; dieci anni che caratterizzano ulteriormente la fisionomia singolare dell'autrice sullo sfondo di un panorama letterario sempre più improntato alla velocità e all'effimero; dieci anni che sembrano invece amplificare l'evoluzione, e, potremmo dire, la necessità della scrittura. La continuità tra i due incipit diventa allora una premessa necessaria alla nostra lettura: «Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno» pare risuonare in «Un pomeriggio d'aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi». Se la prima opera si apriva sul triangolo maternità-sangue-morte, modulando poi infinite variazioni nel nome della madre, la seconda prende le mosse da un lutto, anch'esso simbolicamente legato alla perdita della madre, perdita dell'amore primigenio, punto al quale ogni abbandono sembra ricondurre. Nei Giorni dell'abbandono Olga, trentotto anni e due figli per i quali ha rinunciato a un lavoro presso una casa editrice e a certe ambizioni letterarie, viene lasciata dal marito dopo quindici anni di matrimonio; la spiegazione che egli le dà è che sta vivendo «un vuoto di senso», la realtà è il corpo di una donna di quasi vent'anni più giovane, figlia di un'amica di famiglia. L'abbandono è, per Olga, una sorta di deflagrazione della sua esistenza precedente, di figlia, di moglie, di madre. Deflagrazione linguistica, in primis, scompaginamento delle abitudini e dei ritmi di vita e del discorso: il disordine, il rumore, i toni urlati della sua famiglia e della sua città d'origine, Napoli, levigati da anni di vita composta e disciplinata a Torino, irrompono come una vertigine, la vertigine del dolore che abbatte ogni barriera, lessicale e comportamentale. Abbandono, quindi, anche in questa duplice accezione, come perdita del controllo, dell'inibizione, indotta dal dolore. Il linguaggio diventa violento come i gesti, di una disperazione che è carnale e cerebrale al tempo stesso, alimentata dalla sofferenza e dall'impotenza della razionalità, dalla ricerca nella razionalità di un conforto impossibile. La parte centrale del libro è il climax, racconto dilatato nello spazio e nel tempo, di una giornata in cui tutto è continuamente sul punto di precipitare, di sottrarsi disperatamente ad ogni ordine. E proprio da questa giornata, Olga comincia a riprendere contatto con il presente, recuperando dapprima il suo ruolo di madre, di donna e, alla fine, anche una nuova relazione, un amore «quieto».
Tematiche simili - non particolarmente originali perlomeno in superficie - spiegano l'evidenza con la quale il nome della Ferrante è stato avvicinato a quello di scrittori tra loro così lontani, da Hanif Kureishi a Domenico Starnone, da Simone De Beauvoir a Elsa Morante. Al di là della pertinenza di tali comparazioni, ciò che più colpisce e sconvolge, a nostro avviso, nei Giorni dell'abbandono come già nell'Amore molesto, è la forza dell'invenzione linguistica, che costruisce e compone una voce riconoscibile all'intero romanzo. Quella di Olga non è solo una vicenda di dolore, ma - indirettamente - anche una sorta di discorso metalinguistico del dolore: «amavo la scrittura di chi ti fa affacciare da ogni rigo per guardare di sotto e sentire la vertigine della profondità, la nerezza dell'inferno» (p. 21) - scrive Olga e la riflessione del personaggio è già un'interrogazione dell'autrice sul farsi della propria scrittura. Quali sono le parole del lutto? Forse le parole del caos, un caos biologico e cronologico per così dire, parole incise con implacabile esattezza nella carne:

«L'andamento che ordina eventi è solo il momento dell'accumulo di energia prima di una nuova tromba d'aria. Un'immagine, questa, che mi torna utile: permette di pensare a un tempo del dolore che ci investe avanzando a vortice; ma anche a una scrittura delle emozioni che sia sonorità del respiro, un vento dei polmoni che, producendo musica, fa roteare relitti d'epoche diverse e infine mulinando passa. Delia e Olga raccontano dal di dentro di questo vorticare. Anche quando rallentano non prendono le distanze, non contemplano, non si ritagliano spazi esterni di considerazione. Sono donne che dicono la loro storia dal centro di una vertigine».2

Primo ricettacolo della vertigine è infatti il corpo, il suo linguaggio: «andare al fondo, abbandonarmi, sprofondare sorda e muta nelle mie stesse vene, nel mio intestino, nella vescica» (p. 110). La parola è come generata, secreta dal corpo; e il corpo, nella sua presente e viva consistenza è, al contempo, un corpo aperto al passato, sul quale i fantasmi dell'infanzia paiono innestarsi e fondersi, acronicamente. Come nell'Amore molesto il passato ed i suoi abitanti coabitano il presente, popolando un universo di doppi, così nei Giorni dell'abbandono a Olga si sovrappone più di ogni altro lo spettro della «poverella», l'archetipo della donna abbandonata, che rivive nella memoria attraverso le parole della madre:

«Un dolore così appariscente cominciò a disgustarmi. Avevo otto anni ma mi vergognavo per lei, non si accompagnava più ai figli, non aveva più l'odore buono. Adesso veniva giù per le scale rigida, il corpo prosciugato [...]. Era diventata di pelle trasparente sulle ossa, gli occhi annegati in pozze violacee, le mani di ragnatela umida. Mia madre esclamò una volta: poverella, è diventata secca come un'alice salata. Da allora la seguii ogni giorno con lo sguardo per sorvegliarla mentre usciva dal portone senza la borsa della spesa, senza occhi nelle occhiaie, il passo che sbandava. Volevo scoprirne la natura nuova di pesce grigioazzurro, i grani di sale che luccicavano su braccia e gambe». (p. 15)

Il terrore dell'inorganico che accompagna questo ritratto - a quale «sconciata» galleria pirandelliana potrebbe appartenere? - punteggia la storia di Olga, «asciutta come una conchiglia vuota su una spiaggia d'estate» (p. 33) e si alterna a momenti in cui l'organico prevale e irrompe in tutta la sua smodata necessità. Entrambi indissolubilmente legati al bisogno stesso della maternità «materica» della parola:

«E mia madre rideva amaro degli amari di quella storia e di altre tutte uguali che conosceva. Le donne senza amore dissipavano la luce degli occhi, le donne senza amore morivano da vive. Diceva così mentre cuciva per ore [...]: io ascoltavo. Il bisogno di scrivere storie l'ho scoperto lì, sotto il tavolo, mentre giocavo». (p. 47)

Il bisogno della scrittura sarebbe dunque intrinsecamente legato all'esperienza della perdita? Certo, in tale chiave si possono interpretare molte delle scelte linguistiche della Ferrante. L'abbandono prende una consistenza corporea nel sangue e nell'eccesso verbale, in quel linguaggio osceno, che già nell'Amore molesto avevamo incontrato, sotto forma di dialogo tra la lingua e il dialetto, lingua dell'infanzia, delle pulsioni, della città che le racchiude. La violenza con cui Olga si rivolge al marito e, con tono diverso, ai figli (alla figlia Ilaria in particolare, l'unica alla quale la donna chieda realmente aiuto) è una sorta di ricongiungimento a una parte di sé volontariamente abbandonata in un altrove, mai realmente abbandonato: «Per tenere sotto controllo l'angoscia dei mutamenti mi ero definitivamente abituata ad aspettare con pazienza che ogni emozione implodesse e prendesse la via della voce pacata, custodita in gola per non dare spettacolo di me» (p. 11). La voce che non si può più placare esplode qui in una totale perdita di centro: la deflagrazione di sé nasce allora dall'intersecarsi dei piani temporali che assediano il presente, diventando inestricabili, in un coagulo di dolore lontano e vicino:

«Se la donna era davvero nella stanza, riflettei, io di conseguenza non potevo essere che una bambina di otto anni. O peggio: se quella donna era lì, una bambina di otto anni che mi era ormai estranea, stava avendo la meglio su di me, che ne avevo trentotto, e mi stava imponendo il suo tempo, il suo mondo. Lavorava, la bambina, a togliermi il terreno sotto i piedi sostituendolo col suo. Ed era solo l'inizio: se l'avessi assecondata, se mi fossi abbandonata, sentivo che quel giorno e lo spazio stesso dell'appartamento si sarebbero aperti a tanti tempi diversi, a una folla di ambienti e persone e cose e me stesse che avrebbero esibito tutte, simultaneamente presenti, eventi reali, sogni, incubi, fino a creare un labirinto così fitto da cui non sarei più uscita. [...] Riscuotiti, Olga. Nessuna donna in carne e ossa era entrata tutta intera nella mia testa di bambina, tre decenni prima; nessuna donna in carne e ossa poteva uscirne adesso, tutta intera. La persona che avevo appena visto dietro la scrivania di Mario era solo un effetto della parola "donna", "donna di piazza Mazzini", "la poverella". Tenersi dunque a queste nozioni: il cane è vivo, per ora; la donna invece è morta, annegata da tre decenni; io ho smesso di essere una bambina di otto anni trent'anni fa. Per ricordarmene mi morsi una nocca a lungo, fino a sentire dolore. Poi sprofondai nel tanfo malato del cane, volli sentire solo quello». (pp. 126-127)

L'annullamento del tempo lineare è del resto un altro tratto comune ai due romanzi della Ferrante; e in entrambi, il ritrovamento del linguaggio approda al ritrovamento di sé e della propria identità temporale. Nel caso di Delia dell'Amore molesto, l'explicit racchiudeva la disgiunzione di sé dalla madre; nel caso di Olga, esso rappresenta una sorta di proiezione nel futuro, un abbandono definitivo delle antiche modalità di vita, condensato in quell'avverbio finale, «quietamente», che tanto ha indignato e deluso la critica che si è occupata dei Giorni dell'abbandono. Forse il significato di questo congedo sta proprio in una sorta di sospensione del discorso, quale ricerca disperata di un proprio baricentro, fisico e verbale, di una propria nuova consistenza, nel consistere di un linguaggio che possa rinominare l'esistenza. Una sorta di sospensione, che annuncia forse una parola più sommessa e il silenzio.
Rimane solo da augurarsi, a questo punto, che l'avverbio non sia seguito da altri dieci anni di silenzio. Anche se forse, di fronte a tanta labile letteratura figlia della velocità, altri dieci anni non sembrerebbero poi così importanti.

 

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