Ernestina Pellegrini, Epica sull'acqua. L'opera letteraria di Claudio Magris, Bergamo, Moretti & Vitali, 2003², «Andar per storie», pp. 266, € 16,00.
di Elena Gurrieri

 

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In questa seconda edizione di Epica sull'acqua Ernestina Pellegrini ripropone intatto il testo del 1998, come lei stessa afferma, e vi aggiunge tre capitoli «che aggiornano il ritratto dello scrittore alla fine del 2003»: Microcosmi (1997, Premio Strega), narrazione del percorso di Magris nei «luoghi reali e simbolici della propria esistenza», Le Germanie di Claudio Magris (1999), ossia le immagini narrative e saggistiche della Germania, tratteggiate nel corso del tempo dall'autore triestino, e La mostra (2001), «una pièce teatrale violenta e visionaria» ovvero la vicenda sospesa tra il comico e il tragico del pittore triestino Vito Timmel.
Etica, ricerca intellettuale, politica sembrano essere i connotati "forti" del profilo dello stesso saggista Magris, che in Utopia e disincanto (1999) si sviluppano al meglio. Etica e Stile sono poi la chiave di lettura, o di volta, che permette di cogliere appieno la figura di Magris scrittore e uomo, mentre piace ricordare a tal proposito, anche per dare un senso preciso a termini appunto "alti" come Etica e Stile, che vent'anni fa, nel 1985, in una conferenza al Suor Orsola Benincasa di Napoli pubblicata subito dopo dall'editore Guida col titolo Quale totalità, Claudio Magris ha affermato che «il significato di ciò che si fa, nella vita e nell'azione, è nell'incontro con gli altri», dopodiché ha citato questo verso di Gottfried Benn: «Vivere significa gettare, inarcare ponti su fiumi che scorrono via».
Dinamico e dialogico è, del resto, il rapporto stesso che Ernestina Pellegrini instaura, nel libro, con l'opera letteraria di Claudio Magris, al quale dedica un vivace, coinvolto e coinvolgente ritratto, che lei stessa qualifica essere in fieri, cioè in divenire per definizione e secondo le indicazioni, potremmo dire, contenute nel vero e proprio programma di lavoro critico portato consapevolmente avanti negli anni, da lei stessa qualificato come «saggismo interlocutorio» nei confronti degli scrittori contemporanei, con speciale riferimento a quanti ancora viventi (Magris, Meneghello etc.).

Questa dunque la struttura o sequenza della monografia presa in esame: dopo un primo capitolo intitolato «Dal saggismo alla narrativa. Fra Tolstoj e Kafka» (pp. 17-24), che è ancora utile a disegnare il profilo dello scrittore Magris delineato tra coscienza e disincanto, il secondo capitolo, «Illazioni su una sciabola. Un racconto per Borges» (pp. 25-47), riguarda il primo romanzo magrisiano uscito in volume presso Garzanti nel 1985 (del '92 è l'edizione indagata da Pellegrini), e in seguito tradotto in varie lingue. Segue il terzo capitolo dedicato a «Danubio. Il fiume dei destini». Danubio è un libro uscito nel 1986, sempre da Garzanti, ed è un'opera di natura in certo senso ibrida, tra il saggio e il romanzo. Racconta di un «viaggio lungo le rive del Danubio, dalla Selva Nera al Mar Nero» in cui è dato riconoscere «il racconto di una metamorfosi interiore» (p. 51). È ancora Magris a illuminarci: «Danubio non è un libro sulla Mitteleuropa, ma un viaggio per uscire dalle ossessioni mitteleuropee, simboleggiato dalla grande nostalgia del mare» (Danubio e post-Danubio, in «Rivista di Studi Ungheresi», 1992, n. 7, p. 28).
Nel capitolo dedicato a «Stadelmann. L'assedio azzurro» (pp. 100-119), il primo testo teatrale di Magris uscito da Garzanti nel 1988, si ricostruisce la drammatica vicenda del congedo dal mondo e dalla vita di un personaggio, Carl Wilhelm Stadelmann, per otto anni cameriere e segretario personale di Goethe e che, una volta licenziato, va a ritirarsi in un ospizio di Jena. Invitato ai festeggiamenti solenni del grande poeta, Stadelmann si lascia finalmente andare ad uno sfogo umano che lo pone di fronte all'amara realtà: una vita, la sua, subalterna e manipolata, che non lascia sufficiente margine né al senso né al piacere di vivere. Perciò tanto vale, agli occhi di un vecchio ormai stanco e solo, deciderne almeno la fine con il suicidio. Stadelmann è solo il primo dei protagonisti di «biografie imperfette» che narrano, da Un altro mare a Il Conde fino a Le Voci, i mondi interiori di uomini in cui nulla c'è di edificante, «eppure, da quella desolazione, balugina qualcosa di struggente e di affascinante» (p. 109); su questo materiale fatto di vite umane abitate da «destini oscuri e bizzarri», tanto più difficili da trattare quanto più sfuggenti e, almeno apparentemente, inconsistenti, Claudio Magris tesse di volta in volta la sua tela drammaturgica, narrativa o saggistica da grande artista-artigiano innamorato qual è degli esseri umani «umiliati e offesi», eseguendo «un'operazione di restauro» che mira a ricostruire, attraverso brillanti «illazioni», «la loro enigmatica parabola esistenziale» (p. 110).
Il quinto capitolo del libro, «Un altro mare. Come una biografia» (pp. 120-152), analizza il romanzo omonimo del 1991, da molti ritenuto la prova narrativa davvero matura di Magris, che in questo racconto lungo si avventura di nuovo in un percorso di ricerca del significato profondo di una vita segnata dall'assenza e dal principio di fuga, quella appunto di Enrico Mreule, il migliore amico di Carlo Michelstaedter. Guardando il personaggio dall'interno, Magris ha voluto stavolta raccontare «la storia di un uomo che non aveva voluto avere storia» (p. 122); ha cioè ricostruito la vita del «giovanissimo grecista e filosofo che nel 1909 lascia Gorizia e alcuni amici insostituibili - con i quali si era riunito per anni in una soffitta per leggere nell'originale Omero e i presocratici, Platone e il Vangelo, Leopardi e Schopenhauer, i discorsi di Buddha e Tolstoj» (p. 123). Questi decide, alla fine, di andare in Argentina per vagare nella desolata Patagonia, la terra che secondo Blaise Cendrars più «si addice all'immensa tristezza degli uomini», per attutire il suo non pacificato sentimento dell'esistere, apparentemente mosso dalla volontà di viaggiare ma, in realtà, «per stare fermo» e non mutare e neppure crescere come avrebbe potuto, stando piuttosto a contatto con gli altri esseri umani; ciò che Enrico persegue è, invece, la massima aderenza al suo «modello di identificazione che è il Filottete di Sofocle, l'eroe della sconfitta reso inavvicinabile e solitario da una cancrenosa ferita» (p. 123).
Nel successivo capitolo, «Trieste e altri luoghi della scrittura» (pp. 154-171), ad essere al centro dell'attenzione di Magris è l'«identità plurale» di una città di frontiera, Trieste, patria amatissima: una «città nordica», «che guarda al mondo di lingua tedesca [...], ma può essere anche la "città dell'estate" [...] la città del mare, della luce e della calda vita sabiana [...]», tale da presentarsi come «statica e insieme metamorfica, che può essere ossessionata da chiusure, da diffidenze reciproche da parte di diversi gruppi etnici» proprio perché - sono parole dell'autore - «come molte città dell'Europa centrale, sono luoghi che possono diventare ossessivi, luoghi di chiusura, di isolamento, di rancori, di rifiuto dell'altro. Anche questo va messo sulla bilancia, per non avere un quadro falsamente idillico della città di frontiera» (p. 164). D'altronde Trieste è anche il «luogo della scrittura» per eccellenza nell'universo simbolico dello scrittore: in Itaca e oltre (1982), in particolare, Magris «si sofferma sul "fascino del non-tempo triestino", di un tramonto ma anche di una felicità perennemente attesi e differiti, di una situazione "indefinita" che permette di acquistare familiarità con l'anacronismo e di imparare a sopportare «quel disguido generale che è il mondo», nell'illusione di "vivere in una città di carta" divenuta metafora della vita stessa» (p. 169).

Con il racconto Il Conde (Genova, il Melangolo, 1993), Magris prosegue la sua «epopea sull'acqua». Intonato al basso continuo del monologo, il racconto Il Conde (apparso per la prima volta sul «Corriere della Sera» del 23 dicembre 1990 col titolo Io, pescatore di anime morte) narra la storia di un «anonimo barcaiolo», che ha perso la propria vita nell'atto di servire «un cacciatore di corpi annegati sul fiume Douro, che ha amato una donna e l'ha perduta [...]. È per una burla del Conde che il protagonista perde l'amore di Maria, incinta di lui, e si sposa con la Giba, una povera mentecatta, per poi rinchiudersi in un isolamento rancoroso e rinunciatario, da cui sembra risollevarlo la relazione totalizzante quanto assurda con una polena di legno, ripescata dal fondo del mare con il cadavere di un annegato [...]. Così i due Conde, padrone e servo, diventano l'espressione rovesciata di due relazioni diverse con la realtà e l'amore: una di usurpazione, dominio e disprezzo, l'altra di dipendenza assoluta, di abbandono incondizionato» (p. 184).
Realismo e «alterazione del reale», ricorda giustamente Ernestina Pellegrini, sono le due sponde fra cui oscilla il discorso narrativo magrisiano: buon esempio ne è, in sintesi, anche il testo del radiodramma Le Voci (presentato nei primi mesi del 1995 su Radiotre, protagonista l'attore Lino Capolicchio): in questo caso, ad essere sotto la luce dei riflettori è la storia di un uomo che esprime nel monologo tutta la sua solitudine, il suo delirio nonché la disagiata lontananza, ossia la perdita del contatto, così indispensabile, con il mondo delle cose reali, certo inevitabilmente piccole, che a tutti tocca incontrare nella più comune vita quotidiana.
A ben vedere in Epica sull'acqua Ernestina Pellegrini tenta (ben riuscendovi), quella che all'osservatore consapevole appare essere la necessaria quanto ardua impresa di disegnare il profilo o meglio il quadro, dell'opera variegata e vasta dello scrittore triestino. A fondare la metafora della ricerca narrativa, drammaturgica o saggistica visibile nei testi di Magris, c'è il mare, l'acqua: l'elemento della vita per eccellenza, vorrei dire, della nascita e della rinascita, fosse pure dopo lo sperdimento che un'immersione nelle acque profonde, dove tutto si rimescola e viene messo in discussione, può provocare. E anche se più spesso si tratta di fatti legati al lutto (Stadelmann, Il Conde) e di vite disperse, dissipate (Enrico Mreule in Un altro mare, il protagonista del monologo Le Voci), a me pare che il lavoro di Magris consista, soprattutto, in un'opera di risarcimento e come di rovesciamento ideale, inventato e voluto per i destini di alcuni personaggi che si sono riconosciuti dal momento in cui si è narrata - Magris e poi Pellegrini hanno narrato per noi, con grande pietas e straordinaria nobiltà intellettuale - la loro storia di Cristi e di perdenti. Così facendo, si è potuto suscitare finalmente nel lettore un effetto di fascino centuplicato rispetto a quello che avrebbe potuto ottenere qualsiasi biografia trionfale o di successo, destinata a passare come non aurea mediocritas nel crogiuolo della memoria storica, tracciata dall'esperienza umana sulla linea fluida del tempo.

 

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