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Pierluigi Pellini, Tre grandi critici. Luigi Blasucci, Remo Ceserani, Francesco Orlando, Leonforte, Siké, 2023, 105 pp., 12 €
di Giulia Bassi, Università degli Studi di Siena
Tre grandi critici è un libro che si apre all'insegna di una parola: distanza. Cronologica, innanzitutto (vengono immediatamente ricordate le date di scomparsa di Lugi Blasucci, nel 2021, di Remo Ceserani, nel 2016, e di Francesco Orlando, nel 2010), ma anche culturale e di metodo. I testi a loro dedicati, nati come ricordi e commemorazioni, danno spunto di volta in volta a riflessioni sulla scuola e sull'università contemporanee, sulla critica letteraria ieri e oggi: «provo in queste pagine a dire che cosa mi hanno insegnato» scrive Pellini nella Premessa «e forse perché ci sono ancora oggi indispensabili» (pp. 10-11).
Tali considerazioni sono intensificate da un racconto intarsiato di «schegge autobiografiche» (p. 10), dalle quali emergono rapporti intellettuali e umani non sempre semplici con i tre maestri. Proprio nella scelta di non adottare «il titolo più ovvio: Tre maestri» (p. 10) si percepisce ancora una presa di distanza: il termine, il cui peso doveva percepirsi allora e che adottato oggi sarebbe forse anacronistico, ricorre in modo sistematico e non privo di problematicità in quasi tutti i testi. In tal senso, è emblematico il ricordo di Francesco Orlando (l'unico dei tre che «ha voluto fortemente essere Maestro, senza virgolette ironiche», ibid.):
«Nella sua rigidità schiva di viaggi, di mondanità accademiche, di strategie commerciali, Francesco Orlando era invece un maestro vero. Per questo è ancora aperta in me la ferita di quando - era il 1997, la nostra amicizia già da qualche tempo si era raffreddata - decretò senza appello: "Tu non sei un maestro" (non, incoraggiante, possibilista: "Non sei ancora un maestro").
Aveva letto la mia tesi di dottorato, le cui ambizioni di sprezzata affabulazione erano fatte (apposta?) per irritarlo. Aveva ragione, naturalmente. Ma non solo, voglio credere, per mia pretenziosa inadeguatezza: se lui per primo è stato vittima, solo in parte consapevole, di una trasformazione (epocale?) che riduce la letteratura a intrattenimento, e condanna la critica letteraria all'irrilevanza sociale». (p. 78)
Il nodo che tiene legati questi ricordi sembra sottendere dunque un'interrogazione su tale figura, o ruolo: sulle modalità così diverse in cui ciascuno dei tre grandi critici è stato un maestro, indagate in una prospettiva sia autobiografica sia generazionale (quella generazione di studiose e studiosi che sono stati loro allievi diretti e che, in una certa misura, hanno anche la responsabilità della trasmissione della loro eredità intellettuale); ma la domanda implicita - se essere "maestro" oggi è impensabile nella stessa forma (non tanto, come si è visto, per doti personali quanto per una trasformazione "epocale" che è avvenuta) - riguarda anche l'evoluzione di tale ruolo, forse non del tutto scomparso.
Ora, dai testi raccolti in questo libro un'idea di eredità intellettuale, di "trasmissione dei loro insegnamenti oggi", emerge: certamente sfaccettata e imperfetta, ma necessaria per affrontare alcune questioni cruciali nello studio della letteratura; la principale delle quali proviene proprio dal critico da cui Pellini si sentiva più lontano, almeno negli anni di formazione alla Normale di Pisa, come racconta il primo ricordo, Pisa 1989: Luigi Blasucci, a cui è dedicato anche il secondo testo, «Tombeau» per Gino Blasucci, e l'ultimo, Un profilo di Luigi Blasucci (già nel volume La critica viva. Lettura collettiva di una generazione 1920-1940, a cura di Luciano Curreri e dello stesso Pellini, Quodlibet, 2022). Quel primo ricordo "pisano" è diverso sia dagli altri due per Blasucci, sia da quelli su Ceserani e Orlando. La chiave che dà accesso al primo scritto (e che introduce quindi al libro) è infatti l'autobiografia, in una forma più immediata: l'autore parte dalla descrizione della propria famiglia, dell'estrazione sociale e degli studi liceali, per arrivare appunto all'incontro con Blasucci nel 1989, a Pisa; incontro che proprio sulla base di questo percorso si profila come un riconoscimento:
«Se Luigi Blasucci, di cui avevo letto al liceo il solo articolo sui leopardiani "segnali dell'infinito", senza comprenderne la profondità (insofferente, com'ero, al tempo, nei confronti di quello che mi pareva eccesso di formalismo, se non arida micrologia), ha potuto valutare bene uno scritto di cui non ricordo nulla (ma l'avrà letto lui?) e soprattutto un orale in cui mi ostinavo a esporre banalità sull'ideologia di Montale, in risposta a sue puntuali domande su metrica e retorica dei testi, è probabilmente - non ho mai osato chiederglielo, ma ne sono intimamente convinto - perché deve avere intravisto in me qualche traccia di una storia che era stata anche sua, in tempi diversissimi: figlio di una famiglia ancora più modesta della mia, di Altamura, anche lui normalista». (p. 16)
Il rapporto umano e intellettuale che affiora appare emblematico del legame che a volte si crea in modo indiretto e apparentemente contrario con alcune delle proprie figure di riferimento (come scrive Pellini «contro, e in realtà con, Luigi Blasucci», p. 10); se da un lato può esserci stato un riconoscimento, infatti, dall'altro c'è stata una giovanile, perentoria presa di distanza: «Non era Blasucci, nel 1989, il mio modello». E più avanti:
«Come ha scritto benissimo Niccolò Scaffai, compito della critica, per Blasucci, non è "la decifrazione dei significati nascosti, ma la definizione di quelli esposti". Invece, il giovane ingenuo che ero inseguiva, nello studio della letteratura, la più aggiornata (per l'Italia) teoria - e le sirene dei significati nascosti. Mi attiravano appunto le scienze umane: psicanalisi, antropologia, economia politica; e le letture (che si presentavano come) profonde. Soprattutto, a ogni sforzo intellettuale chiedevo una diretta implicazione politica». (p. 19)
Distanza che verrà riconosciuta piuttosto come «mal celata simpatia», come scrive Blasucci a Pellini nella sua dedica a I tempi dei «Canti», già nel 1996; e che doveva sfumarsi nel corso del tempo. È insomma da quello dei tre critici di cui è stato allievo «laterale, rispetto alla sua scuola» - diversamente dai citati Donnarumma, Simonetti, Scaffai e più tardi Campeggiani («Certo, con i suoi allievi diretti poteva essere frustrante: il suo imperativo di fedeltà al testo, il suo rifiuto dell'azzardo ermeneutico, che erano esigenze deontologiche, potevano essere percepiti come rigidità autoritaria», p. 25) - che Pellini, come accennato, sembra riprendere una questione essenziale per chi studia e insegna letteratura, e cioè l'idea di una «letteratura come funzione vitale»:1
«Distingueva insomma con impeccabile lucidità chi sceglieva gli argomenti di studio perché li riteneva essenziali per la propria vita, per la propria visione del mondo; e chi si specializzava sul classico (o peggio sul minore) di turno, solo perché su quell'autore restava ancora tanto da fare - un'edizione critica, un commento...: con logica, appunto, squallidamente produttivista e neoliberista. [...]
Soprattutto, però, Blasucci mi ha insegnato (a volte, forse, anche senza che me ne rendessi conto) che ha senso fare questo mestiere per piacere e per convinzione esistenziale; per dare voce ai testi e aggiungere bellezza alla loro lettura [...]».
Lo spunto, tra l'altro, sollecita una breve considerazione sulla storia della critica letteraria («potrebbe anche essere tempo di riflettere su quel che il rifiuto radicale dell'estetica crociana ha fatto perdere nei decenni finali del Novecento alla nostra critica letteraria», p. 25). In tal senso, la memoria e la scrittura, nel seguire il ricordo di queste figure, muovono dall'autobiografia verso questioni critiche e didattiche: ciascuno dei ricordi accentra riflessioni di metodo e analisi sociale. Un altro dei testi più apertamente autobiografici qui raccolto, ad esempio, intitolato Divagazioni per Remo, prende le mosse dal racconto di un'estate in Abruzzo con i figli per riflettere sull'insegnamento scolastico a partire dagli esercizi dei manuali. L'esito è un bilancio di quella che è stata l'officina del Materiale e l'immaginario, con Remo Ceserani e Lidia De Federicis:
«Va da sé che Lidia e Remo, in quegli anni di impegno e utopia, immaginavano, per classi di liceo fortemente motivate, e per insegnanti d'élite, un lavoro critico collettivo, che scardinasse, con strumenti verificabili e materialistici, sia l'autoritarismo della lezione frontale, sia il fumo delle letture spiritualiste, sia l'ipocrisia dei moralismi edificanti. Di qui la metafora del "laboratorio": che non voleva escludere il plaisir du texte; semmai ambiva a rifondarlo su nuove basi: di libero esame dei testi e rinnovata consapevolezza linguistica, storica, ideologica. Che poi oggi un Materiale e l'immaginario, o uno strumento didattico altrettanto innovativo e ambizioso, sia inimmaginabile, è verissimo: [...] Semplicemente, perché il mercato internazionale della conoscenza non chiede oggi investimenti in consapevolezza storica; tantomeno in sapere critico». (pp. 49-50).
I tre critici devono aver agito come poli magnetici anche durante gli anni di formazione a Pisa, in un certo senso l'uno mitigando la totale adesione ai metodi dell'altro: così, ad esempio, è grazie alla figura di Blasucci che Pellini non è diventato «un "orlandiano" ortodosso: dando qualche dispiacere a Francesco. Grazie a lui, solo a tratti mi sono fatto contagiare dalla schietta, quasi adolescenziale curiosità di Remo per certe novità d'oltre oceano - di cui peraltro lo stesso Ceserani vedeva i rischi, come nel caso della confusa galassia dei Cultural Studies» (p. 24).
Dei tre, Ceserani - a cui è dedicata la coppia di testi Dittico per Remo Ceserani - è quello che scardina maggiormente le definizioni di "padre" o "maestro" («non abbiamo mai percepito Ceserani come veramente "padre"; tantomeno come "maestro", nel deteriore senso che al termine conferisce l'accademia. Fra noi lo chiamavamo - a volte, sempre più di rado, capita ancora - zio Remo», p. 59), pur essendolo stato nell'affermare di non aver «un metodo da riprodurre» (p. 62); nella pratica della chiarezza espositiva come «primo articolo della deontologia del critico» (p. 64); nell'aver lasciato non una scuola ma degli allievi di cui «era fiero, soprattutto, diceva, perché tutti molto diversi fra noi, e molto diversi da lui» (p. 65). Un tratto rimane impresso: «la pazienza attentissima dei suoi occhi (ascoltava con lo sguardo)»; particolare che ritorna anche nel ritratto di Francesco Orlando, per il quale la «disponibilità all'ascolto» era invece «sempre pronta a inglobare e annullare, con seducente prepotenza, ogni possibile obiezione» (p. 69).
È proprio Orlando quello che emerge in modo più nitido e critico allo stesso tempo. Nel Trittico per Francesco Orlando, oltre all'incontestabile grandezza intellettuale, sono delineate la rigidità del metodo («La sua proposta teorica, oggi, può tornarci utile solo per frammenti: e lui non ammetteva adesioni parziali o eclettiche», p. 89) e la stessa rigidità che forse si era imposto come uomo («Questo era l'intera sua vita: un sistema ferreo architettato - si sarebbe detto - innanzitutto per essere felicemente trasgredito», p. 76). Affiora anche l'immagine di Orlando scrittore della Doppia seduzione, la cui qualità migliore risiede nella «lingua di traduzione», come la definisce Pellini, «tutta intrisa di letteratura, ma inedita nella tradizione letteraria italiana» (p. 85).
È di Orlando, forse, l'eredità oggi più urgente (come dimostrerebbero anche le numerose pubblicazioni a lui dedicate che si sono susseguite in questi anni, tra cui la raccolta di articoli In principio Marcel Proust, curato nel 2022 da Luciano Pellegrini per la collana "Extrema ratio" di Nottetempo; e il recente Letteratura, ragione, represso. Su Francesco Orlando (1934-2010), a cura di Stefano Brugnolo, Francesco Fiorentino, Gianni Iotti, Luciano Pellegrini e Sergio Zatti, Edizioni della Normale, 2024). È proprio negli scritti a lui dedicati, infatti, che si trova la domanda che i critici di oggi dovrebbero ancora porsi, «che risuona, implicita o esplicita, in ogni pagina di Orlando», ossia il rapporto tra testo letterario, mondo, storia collettiva e psiche umana. «Nel fioco dibattito odierno, non è in gioco la prevalenza di questa o quella idea della letteratura, ma la legittimità stessa della teoria letteraria. Per questo l'eredità di Orlando è più che mai preziosa» (p. 91). I tre grandi critici dovevano forse essere accostati, come avviene in queste pagine, per far tornare a riflettere su tali questioni e per capire meglio in cosa consiste oggi l'eredità di un maestro ai suoi allievi.
«Di padri e figli parla uno dei più folgoranti fra gli epigrammi di Blasucci, che bisognerebbe raccogliere e pubblicare» (p. 37): questo libro è anche una piccola officina di idee e intenzioni, che proprio in questi ultimissimi anni si sono concretizzate o ancora da farsi. Dai Pensieri ai quattro venti ai Nuovi studi montaliani di Luigi Blasucci (editi entrambi nel 2022, il primo curato da Giuliana Petrucci per le edizioni ETS; il secondo da Niccolò Scaffai per le Edizioni della Normale); agli articoli di Remo Ceserani su «il manifesto», ancora da raccogliere («ne ha scritti quattrocentododici: sul romanzo contemporaneo, sulla teoria della letteratura, sull'università, sui mutamenti socio-culturali, su molto altro - basterebbero a far di lui un testimone decisivo dei nostri anni», p. 64), alla sua cartella sul computer intitolata «Letteratura modernità liquida» («l'introduzione e quattro capitoli sono in una fase di elaborazione avanzata; un capitolo è frammentario; di altri tre capitoli c'è solo il titolo. Forse, se le figlie Giovanna e Teresa lo riterranno opportuno, proveremo a mettere ordine in questo materiale e farne un volumetto [...]», p. 66), alla nuova edizione del Materiale e l'immaginario curata da Marina Polacco (Loescher editore, 2023); fino al già ricordato La critica viva, per certi aspetti complementare a Tre grandi critici ma più ampio naturalmente, e con un taglio scientifico).
E forse anche in questo consiste l'essere o l'essere stato non soltanto un grande critico, ma un maestro: nel rimettere in circolo le idee e le questioni; nel far nascere ancora nuovi libri, anche a distanza di tempo.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2023
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Giugno-dicembre 2023, n. 1-2
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