Daniele Comberiati e Chiara Mengozzi (a cura di), Storie condivise nell'Italia contemporanea. Narrazioni e performance transculturali, Roma, Carocci, 2022, 268 pp., 27 €
di Carlo Baghetti, LEST, CNRS, Aix Marseille Univ, Aix-en-Provence

 

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Con il volume Storie condivise nell'Italia contemporanea. Narrazioni e performance transculturali Daniele Comberiati e Chiara Mengozzi coordinano un gruppo di ricercatrici e ricercatori, tra i più esperti in termini di narrazioni "della migrazione" - genitivo problematico, come viene sottolineato in alcuni dei saggi presenti nel volume -, per offrire al pubblico italiano una panoramica teoricamente aggiornata e fortemente interdisciplinare di come si sia evoluto il campo d'indagine relativo a queste narrazioni negli ultimi trent'anni.
Tra i vari meriti del volume vi è quello di non interessarsi unicamente ad autrici e autori che, venendo in Italia, ne adottano la lingua per raccontare l'incontro con un nuovo paese e una nuova cultura, come è stato a lungo fatto, ma s'interessano anche alle traiettorie migratorie che hanno coinvolto gli italiani all'estero, aggiungendo così un tassello transnazionale importante. A questo si aggiunge una riflessione, portata avanti da più d'un autore, sui meccanismi extratestuali di tale produzione culturale: da una parte, il fenomeno di canonizzazione, che molto spesso esclude testi scritti dagli autori cosiddetti "migranti", a dimostrazione del fatto che l'ampio dibattito generatosi non è sufficiente per permettere una pacifica integrazione culturale di questi testi; dall'altro, un'attenzione specifica ai meccanismi editoriali che commercializzano tale letteratura in maniera non innocente, talvolta riproducendo stereotipi orientalizzanti o di genere.
Il saggio che apre il volume è firmato da Ugo Fracassa, il quale propone al lettore un utile e necessario "stato dell'arte" della critica letteraria. Scomponendo in tre decenni la sua ricognizione, Fracassa avanza l'ipotesi di un eccessivo quanto nocivo «eccesso di "teoria"», che ha determinato l'«esigua fortuna critica della letteratura migrante» (p. 40). Uno sforzo teorico che, applicato com'è a una materia vasta, cangiante e riluttante alla pacifica classificazione sotto etichette critiche generiche, quali appunto "della migrazione", non ha limitato la sensazione di «indistinto» che alcuni intellettuali hanno percepito e dichiarato. Indistinzione di cui è spia la parola "fenomeno", spesso usata per definire tanto la produzione letteraria italofona, quanto (ma provocatoriamente) la critica teorica che l'ha riconosciuta, studiata e promossa. La sempre più frequente identificazione del lettore con l'autore, una letteratura che privilegia la fabula all'intreccio, la tensione ad assottigliare le barriere tra testo e contesto, tra romanzo e cronaca, hanno generato - secondo Fracassa - un dibattito di cui la letteratura italofona è rimasta vittima. Fenomeni a cui va aggiunta l'influenza delle "Theories" provenienti da oltreoceano, che tendono a servirsi contemporaneamente, come sottolinea forse in maniera eccessivamente critica l'autore del saggio, di «Marx e Said con Derrida, Bourdieu e Zizek con Agamben, Butler con Lacan» (p. 52).
Nel saggio successivo, Giulia Molinarolo si concentra sul complesso e sfaccettato, talvolta contraddittorio, rapporto tra scritture migranti e mercato editoriale. Sono qui presenti una serie di riflessioni e problematiche già emerse nel saggio di Fracassa (un certo disinteresse della critica nei confronti di tali scritture, l'assenza di queste opere dal canone letterario, riflessioni sulla co-autorialità, la vocazione pedagogica, ecc.), ma stavolta declinate non guardando alla produzione critico-teorica, ma tentando di comprendere i principi commerciali da cui dipendono e derivano alcune precise scelte editoriali e di marketing. L'autrice fa un utile lavoro nell'individuare alcuni tratti che accomunano la produzione letteraria di attori medio-grandi del mercato editoriale: la genderizzazione dei testi e paratesti (colore, immagine, titolo); la serialità (a tal proposito, l'autrice parla di un non meglio precisato "ritorno alla serialità", che sarebbe utile declinare in una prospettiva storica); la sempre più frequente transmedialità; strategie testuali che puntano a favorire la capacità immersiva del lettore, come la narrazione autobiografica o l'impostazione testimoniale del racconto. Assumendo una logica deduttiva, Molinaro mostra i limiti, anche politici, di una produzione dalla pronunciata vocazione militante e i controsensi a cui costringono le dinamiche editoriali, quali banalizzazioni e stereotipizzazioni che depotenziano l'azione letteraria.
Nel saggio «La letteratura postcoloniale italiana», Anna Finozzi sembra stabilire un dialogo con Giulia Molinarolo scegliendo di concentrarsi sulla produzione letteraria destinata all'infanzia e all'adolescenza, partendo dalla constatazione del disinteresse critico che avvolge questa produzione. Mentre Molinarolo si concentra sulle dinamiche editoriali, commerciali e di confezionamento dei prodotti culturali, Finozzi tenta una lettura più ravvicinata dei testi ponendosi l'obiettivo di spiegare fenomeni quali la crossover fiction e il crosswriting, ovvero l'attitudine a mettere in discussione la demarcazione tra categorie anagrafiche di lettori con testi che possono essere letti a più livelli da pubblici diversi, nel primo caso; e scrittori che scrivono sia per adulti che per bambini, ma destinando loro opere diverse. La scelta dei curatori di far succedere i due saggi contribuisce a colmare il vuoto di attenzione, denunciato da entrambe, nei confronti di questa produzione, ma lascia anche in sospeso una domanda soggiacente ad entrambi i testi: se questa fetta di mercato è in costante crescita e molti autori si cimentano in riduzioni, adattamenti, edizioni scolastiche o produzioni originariamente pensate e scritte per questo pubblico, come mai l'aspetto puramente economico non viene menzionato o considerato?
Silvia Contarini, nel saggio intitolato «Narrazioni invisibili: le badanti letterarie», si concentra sulla figura della badante, la quale assomma diverse categorie di subalternità, sulla scorta del concetto d'invisibilità elaborato da Axel Honneth. L'amara constatazione da cui prende le mosse il saggio è che, quando presenti, le rappresentazioni delle badanti sono spesso piene di stereotipi o chiaramente sbagliate. Riprendendo quanto scrivono nella loro introduzione i curatori di Subalternità italiane (Deplano, Mari, Proglio 2014), Contarini opera una differenza tra "parlare per (un altro)" e "parlare accanto a (un altro)". Il corpus analizzato prende in considerazione tipologie testuali diverse: racconti scritti da donne venute a vivere in Italia (Vesna Stanic, Gabriella Kuruvilla, Christiana De Caldas Brito), scritti brevi ad opera di uomini e donne italiani (Tommaso Meozzi, Andrea Bajani, Dacia Maraini), oltre a due romanzi scritti da donne italiane (Cetta Petrollo e Titti Marrone). Al di là delle precise analisi narratologiche che svelano i rapporti di dominio che i testi promuovono (per lo più in maniera inconsapevole) o combattono, il saggio di Contarini ha un ruolo rilevante perché si focalizza sull'elemento lavorativo, prisma attraverso cui l'esperienza migratoria è stata osservata di rado. Leggere o rileggere i fenomeni migratori all'interno del campo di studi in costante espansione delle Labour Narratives aggiungerebbe una dimensione molto utile al dibattito critico.
Jessica Sciubba porta avanti una riflessione su Lampedusa con un approccio transmediale analizzando una raccolta poetica realizzata dal collettivo multiVERSI, un film documentario - Fuocoammare di Gianfranco Rosi - e un progetto museale - PortoM. Queste opere vengono affrontate con un'attrezzatura teorica di marca ecocritica e post-umana (dai saggi di Bennett, a Braidotti, passando per Cassano, molto citato, e Haraway). In queste rappresentazioni Sciubba isola elementi di contatto, sovrapposizione, confusione tra umano e non-umano ragionando sulla natura liminare di Lampedusa che si estende alle opere che cercano di raccontarne la vita "di frontiera". Particolarmente proficue le pagine dedicate a quello che l'autrice definisce il «lato indicibile della migrazione» (p. 140) ovvero l'emergere, più o meno consapevole da parte degli autori, dell'associazione tra rifiuti e migranti. In società e regimi economici opulenti, che tendono al consumo irrazionale e alla scriteriata produzione di rifiuti (a tal proposito, ci saremmo aspettati almeno un riferimento agli studi di Marco Armiero o del suo gruppo di ricerca), si sviluppa un atteggiamento irresponsabile nei confronti di tutto quanto è scarto, rifiuto, eccesso inutile. In questa categoria finiscono anche le "vite di scarto", come definite da Bauman, dei migranti. L'esposizione e analisi dei materiali del corpus si conclude con la constatazione, simile a quanto emerge anche da altri saggi presenti nel volume, che a coloro che compiono il percorso migratorio in prima persona vengono lasciati margini esigui per esprimere la propria agency. Una constatazione che identifica una tendenza generale, ma che lascia il dubbio su altre forme espressive e sull'impossibile agentività dei migranti.
Il saggio di Emma Bond si propone di leggere il movimento Black Lives in chiave artistico-culturale studiando le opere di Maud Sulter, Justin Randolph Thompson e Igiaba Scego, i quali recuperano e in parte reinventano i percorsi biografici e artistici di Mary Edmonia Lewis e Sarah Parker Remond, donne afroamericane che si trasferirono in Italia (a Roma e a Firenze) nel XIX secolo. L'articolo si propone di riflettere sui limiti etici e sulle potenzialità politiche dell'uso di fonti d'archivio, soprattutto quando si tratta di materiale lacunoso e incoerente, come molto spesso accade con soggetti afro-discendenti. Analizzando l'uso delle fonti, più o meno fantasioso, che viene fatto dagli artisti contemporanei, Bond studia la capacità di controbilanciare la rimozione storica a cui le black lives sono da sempre soggette, attraverso lo sfruttamento del «valore generativo» (p. 158) che i vuoti d'archivio permettono e la necessaria azione di «rimemoria, ovvero la capacità di portare il passato nel presente attraverso l'invenzione» (p. 157). Una riflessione necessaria sugli archivi e i suoi utilizzi per la creazione di una storia alternativa, ma anche una possibilità per cambiare le regole di cosa sia "archiviabile", quindi degno d'interesse.
Il saggio di Paola Ranzini si concentra sul "teatro migrante", ovvero quelle forme di creazione e collaborazione artistiche, d'incontro e scambio di pratiche culturali in atto da oltre un trentennio in Italia, ma visto spesso in maniera riduttiva e contenutistica come teatro fatto da migranti o su tematiche proprie all'esperienza di migrazione. Ranzini studia in particolare l'affermarsi di forme di narrazione orale nel teatro italiano a partire dagli anni Novanta e i frutti delle collaborazioni tra cantori italiani e stranieri, i quali, per lavorare insieme, piegano i propri moduli creativi giungendo a «una pratica artistica e performativa generata dal transito, dall'innesto e dal reciproco arricchimento di forme che si reinventano in un terzo spazio» (p. 194).
Il saggio firmato da Luciana Manca e Alessandro Portelli aggiunge un tassello importante alla vocazione interdisciplinare che Mengozzi e Comberiati hanno voluto dare al saggio trattando le rappresentazioni musicali e, in particolare, soffermandosi su alcune realtà coristiche impegnate in una dinamica interculturale. Il saggio, diviso in due sezioni, si concentra dapprima su una ricognizione dei cori multietnici (definizione giudicata limitante dagli autori) e delle realtà ad esse collegate, fatta da Portelli; e, nella seconda sezione, a cura di Manca, uno studio più approfondito portato avanti con gli strumenti dell'intervista qualitativa propri della sociologia e della storia orale, su due realtà specifiche presenti nel Nord Italia: "Voci dal mondo" di Mestre e "Canto sconfinato" di Pordenone.
Barbara Spadaro realizza un capitolo sulle rappresentazioni della migrazione, della memoria e della transnazionalità attraverso l'analisi di una serie di fumetti e graphic novel del XX e XXI secolo, coniugando in maniera sapiente ricchezza e pluralità delle fonti, riflessione etico-politica sul mezzo estetico indagato nel suo evolversi, contezza delle dinamiche editoriali e dell'industria culturale contemporanea (non solo italiana), un'analisi precisa di un corpus ristretto di fumetti. Partendo dalla constatazione di una diffusione sempre maggiore del fumetto e del suo prestarsi al racconto dei fenomeni sociali più complessi e problematici, quale appunto la migrazione e lo scontro tra memorie condivise e antagoniste, Spadaro prende in esame un corpus transnazionale, allo stesso tempo relativo all'Italia, ma aperto a una dimensione globale. L'articolo si concentra su quattro aspetti centrali della questione migratoria: a) la migrazione dei fumettisti e la dimensione transnazionale del fumetto italiano; b) la ridefinizione della memoria dell'emigrazione italiana in autori italo-discendenti, utilizzati anche come strumento dell'analisi antropologica e psicologica; c) il caso dei refugee comics, analizzati nelle loro implicazioni etiche e nella dialettica di dominazione inconsapevole che si mette in moto in talune di queste (viene citato il fumetto edito da BeccoGiallo, Salvezza); d) l'uso del fumetto come veicolo di storie di vita transnazionali di figlie e figli delle migrazioni in Italia. Attraverso questi quattro angoli di osservazione Spadaro fa emergere una serie di caratteristiche convergenti di tale produzione quali, per citarne solo alcune, la dialettica tra memoria e post memoria; la multimodalità del fumetto; le pratiche di collaborazione tra artisti che lavorano con linguaggi diversi, ma che si ritrovano a poter dialogare e collaborare grazie a un dispositivo aperto e polifunzionale quale il fumetto.
Con l'ultimo saggio, firmato dal regista Manuel Coser, prosegue la traiettoria interdisciplinare disegnata dai curatori analizzando un'opera pienamente multimediale, che si situa all'incrocio tra film documentario, realtà virtuale e videogioco, l'U.N.O. - secondo la celebre formula dei Wu Ming - Babel - Il giorno del giudizio. Attraverso tale opera, il gruppo di registi (lo stesso Coser, insieme ad Andrea Grasselli e Guido Nicolas Zingari) hanno tentato di raccontare e far «percepire» (p. 248) agli spettatori occidentali cosa significhi essere una «persona in transito», un «richiedente» asilo, un «rifugiato» (p. 252) non assumendo il punto di vista di coloro che subiscono i processi, ma restando nella posizione scomoda e tuttavia inalienabile di spettatori italiani (o occidentali), bianchi, con documenti regolari. Lo studio che si snoda in quasi tutti i saggi su come studiare, parlare, raccontare, disegnare, mettere in scena, cantare la condizione migrante senza riattivare i meccanismi di forza e dominio che sono all'origine stessa del problema trova un riscontro pratico in questo ultimo saggio, che analizza le riflessioni sulla postura e il posizionamento che i registi hanno tenuto dinanzi all'oggetto narrato.
Grazie ai suoi dieci saggi, Storie condivise propone un aggiornamento teorico importante degli studi sulle rappresentazioni della migrazione, non solo e non tanto perché a distanza di oltre trent'anni dalle prime esplorazioni critiche viene presentata una bibliografia selettiva, una sorta di cassetta degli attrezzi di prima necessità per chiunque voglia avvicinarsi a questo ambito, ma riesce ad allargare lo sguardo a una dimensione interdisciplinare e multimediale fornendo riferimenti teorici, suggerendo posture critiche, proponendo nuovi modi d'intendere e affrontare questo oggetto di studi.

 

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gennaio-maggio 2023, n. 1-2


 

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