Sezione monografica «Il lavoro e il suo racconto: sociologia e letteratura nell'analisi del mercato del lavoro», a cura di Stefano Lazzarin e Giustina Orientale Caputo, in «Sociologia del lavoro», n. 153, 2019, pp. 33-181
di Carlo Baghetti

 

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La parte monografica del numero 153 (2019) di «Sociologia del lavoro», sulla quale si concentra questa recensione, a cura di Stefano Lazzarin e Giustina Orientale Caputo, segna un punto di svolta, importante e nuovo, per le ricerche nell'ambito della letteratura del lavoro. Molti ricercatori si sono dedicati a questo argomento negli ultimi anni, complice anche l'esplosione di questo genere di narrazioni, ma Lazzarin e Orientale Caputo sembrano voler prendere il problema dall'origine e si domandano: «la letteratura può essere "sociologicamente produttiva" anche per quel che riguarda le tematiche del lavoro, della disoccupazione, della precarietà, dell'immigrazione, e le nuove relazioni fra capitale e lavoro?» (p. 38).
Nell'ampia introduzione, in cui i due curatori ricostruiscono con precisione e acutezza il dibattito che ha preceduto lo studio, la qualità del ragionamento e, ancor di più, la bibliografia che segue vanno considerate un punto di riferimento importante per coloro che vogliano iniziare le ricerche in questo ambito. Il volume ha il merito di affrontare un nodo problematico che, nella pur ampia bibliografia critica sulle rappresentazioni artistiche del lavoro, non ha ancora avuto uno sviluppo adeguato: il legame, che definire tematico è riduttivo, tra la questione di genere, la questione migratoria e quella lavorativa. Una possibile lettura "di genere" emerge da una nota a piè pagina, in cui si cita il testo Non credere di avere diritti (Libreria delle donne, 1987) e a cui segue una frase a cui è affidato il compito di suggerire al lettore gli sviluppi di una riflessione ulteriore e a nostro avviso necessaria: «Come le donne ieri, i lavoratori oggi ci appaiono soggetti privati anche del diritto di avere diritti» (p. 44), che potrebbe aprire discussioni ampie e urgenti sul tempo presente (qual è il ruolo della donna oggi nel mercato del lavoro? quali rappresentazioni ne vengono fatte? è corretto parlare di "femminilizzazione" del lavoratore? e, di contro, qual è il ruolo dell'uomo? ecc.), che il volume ha il merito di sollecitare.
Il tentativo compiuto dai curatori è ancor più meritorio perché, come si diceva, si propone di superare le distinzioni e giungere a una vera e propria interdisciplinarità. Processo assai difficile e che necessita talvolta di sacrifici dolorosi, come ad esempio non mettere nel giusto valore le opere letterarie studiate oppure trascurare aspetti precipui della sociologia, che però i curatori evitano agilmente grazie a una struttura che prevede una ripartizione equilibrata dei saggi: ve ne sono d'impostazione più sociologica e altri d'impostazione più letteraria, per un risultato finale che risulta utile agli specialisti dell'una e dell'altra materia.
L'organizzazione dei saggi, spiegano i curatori, segue il progressivo passaggio dalla teoria alla pratica, quest'ultima intesa come presentazione di case studies sui quali riflettere. È quindi logico che ad aprire la sezione monografica sia il saggio di Mariano Longo, Un insolito connubio. Sull'uso delle narrazioni letterarie nelle scienze sociali, che propone al lettore una ricostruzione del dibattito intorno all'uso delle fonti letterarie da parte della sociologia. Il percorso appare obbligato: Laslett, che indica il paradosso di un tale ricorso; Searle, che tenta una configurazione linguistica dell'atto narrativo; Sparshott, che individua nel lettore (nella memoria, nel senso comune, nelle conoscenze del mondo reale) il mezzo che egli ha per colmare lo iato tra realtà e rappresentazione.
A tale ricostruzione segue il non meno imprescindibile, seppur rapido, riferimento alle scienze cognitive e a coloro, come Bruner o Turner, che hanno spiegato l'importanza dei processi narrativi per la comprensione umana. Maggiore spazio è riservato alle teorie di Ricœur contenute nei tre volumi di Temps et récit e all'evoluzione del concetto di mimesis nelle mani del filosofo francese.
Il saggio di Longo si propone dunque di procedere all'esplorazione di una parte della bibliografia critica che si è concentrata sul difficile e altalenante rapporto tra letteratura e sociologia, una bibliografia composta fondamentalmente da classici, ma che nel contributo è mobilitata con profitto e in cui i testi sono posti in dialogo tra loro.
La chiusura dell'articolo è in linea con quanto fatto nel suo svolgimento, ovvero una descrizione delle fonti più autorevoli per comprendere la letteratura da parte di un sociologo; quest'ultima, per essere letta in chiave sociologica, dev'essere ridotta e depotenziata, poiché «ogni utilizzazione competente ai fini sociologici di un testo letterario ne riduce [...] inevitabilmente la complessità» (p. 74), fenomeno che al contempo serve la disciplina di provenienza, «che non può che arricchire la propria capacità di analisi: mostra la sua vitalità come disciplina, manifesta la sua capacità di analisi» (ibid.).
Dal punto di vista dell'interdisciplinarità appare innovativo il tentativo che Stefano Bory porta avanti nel secondo saggio - Una finzione empirica. Epistemologia del lavoro intellettuale tra sociologia e letteratura - poiché qui si pongono le due discipline sullo stesso piano: non la sociologia che s'interessa alla letteratura, ma due discorsi che ricorrendo alla «razionalità finzionale» (p. 83) raccontano, attraverso forme diverse, porzioni della medesima realtà fenomenica. «Non è la verità o la finzione dei fatti che si cerca di mettere in rilievo - scrive Bory -, quanto la sostanziale differenza tra romanzo e testo accademico, che risiede nella razionalità finzionale esplicitata e confessata nel primo, muta e rimossa del secondo» (ibid.). A partire da questo assunto, Bory cerca di porre sullo stesso piano le discipline, di fare una «sociologia con la letteratura, nel senso di insieme a» (p. 81).
Il passo successivo è all'analisi di tre testi narrativi statunitensi molto diversi tra loro ma che godono della medesima celebrità (Stoner di William, White Noise di DeLillo, The Da Vinci Code di Brown), che forniscono allo studioso l'occasione per riflettere sull'evoluzione del mondo accademico e sulla professione intellettuale dalla metà del Novecento ai primi anni Zero. Portando alle estreme conseguenze il suo posizionamento epistemologico, dopo aver citato vari passaggi delle opere narrative considerate, Bory preferisce non concludere il proprio saggio né in chiave critico letteraria né tantomeno in quella sociologica, affermando che «fare sociologia con la letteratura significa anche sapere qual è il momento in cui non c'è niente da aggiungere» (p. 94).
Rimane ancora in ambito sociologico Fabrizio Pirro, il quale - anche lui - propone una panoramica sugli scritti che si sono interessati al rapporto tra sociologia e lavoro dichiarando però di seguire l'impostazione suggerita da Znaniecki, ovvero di utilizzare la letteratura come «propositrice e illustratrice di temi e problemi» (p. 104) che poi possono essere studiati e approfonditi attraverso gli strumenti propri alla disciplina. La letteratura serve, secondo Pirro, ad avvicinare i problemi, rappresenta una porta d'ingresso privilegiata e spesso ignorata. Contrariamente a quanto suggerito nel saggio che lo precede, quello di Bory, ci troviamo di fronte a una disciplina (la sociologia) che osserva e che si serve di un'altra (la letteratura), utile nei primi passi di una ricerca, ma poi destinata all'accantonamento negli sviluppi dello studio.
Dopo aver presentato gli studi critici su tale rapporto, Pirro si concentra su una particolare produzione letteraria, quella "utopistica" (facendo attenzione a ben separarla dalla fantascienza, ma anche dalle distopie), che definisce una scrittura che «non commenta ma prospetta scenari, e si fa quindi, a suo modo, utopistica» (p. 107). In questo, Pirro nota una sostanziale identità con alcuni scritti sociologici - si fanno i nomi di Rifkin, Brynjolfsson e McAfee - prima di annunciare una serie di opere letterarie che potrebbero essere studiate in questa prospettiva, come ad esempio Utopia di Thomas More, Il cacciatore di androidi (da cui verrà tratto il film Blade Runner) di Philip K. Dick, Notizie da nessun luogo di William Morris.
Anche il saggio che segue è a firma di un sociologo, questa volta di Enrico Pugliese. Qui la focalizzazione è su una città in particolare, Napoli, che possiede una storia industriale e letteraria complessa e intrecciata. Nel 1904 infatti viene aperta l'acciaieria di Bagnoli, destinata a diventare una delle più importanti del sud Europa e a offrire alla città una narrazione diversa, meno indolente, che la allontana dagli stereotipi - accuratamente segnalati dallo studioso - che si sono ripetuti nei secoli («presunto rifiuto del lavoro [...], di una presunta creatività che porterebbe a inventarsi mestieri strani e improbabili e, ovviamente, della capacità di sopravvivere grazie alla famosa "arte di arrangiarsi"», p. 115). Pugliese traccia la storia industriale partenopea attraverso i romanzi che sono stati scritti lungo tutto il ventesimo secolo e l'inizio del ventunesimo: Tre operai, La pelle, Il mare non bagna Napoli, Donnarumma all'assalto, Mistero napoletano, La dismissione, Napoli ferrovia, fino ai più recenti Gomorra e L'amica geniale. A differenza degli articoli precedenti - e in linea di continuità con quelli che seguono - non vi è una riflessione metodologica, ma l'attenzione è spostata piuttosto da una parte sul nodo lavoro/non-lavoro che si racconta nei romanzi, dall'altra sulla critica verso le narrazioni più recenti, in particolare quella di Roberto Saviano, che, secondo il sociologo, manca di profondità storica e pone in maniera eccessiva e distorsiva l'accento sulla violenza.
L'articolo di Corrado Punzi e Marta Vignola, Taranto come utopia distopica. Narrazioni letterarie e sociologiche di un modello di sviluppo, torna ancora una volta sul concetto di utopia/distopia, che abbiamo visto centrale anche negli altri saggi presenti nella sezione monografica. Il saggio mette in pratica le varie teorie enunciate e utilizza i racconti di Cosimo Argentina, di Cristina Zagabria, di Fulvio Colucci e Lorenzo D'Alò come se fossero fonti orali, mischiandole, nella prosa saggistica, alle testimonianze raccolte dagli operai e sindacalisti intervistati a Taranto. L'uso "diretto" dei romanzi attenua la sensazione di discipline diverse che si osservano partendo ognuna dalle proprie metodologie e codici scientifici: Punzi e Vignola danno per acquisito il dibattito che i precedenti autori ricostruiscono e arricchiscono mettendolo in pratica. L'epilogo insiste sull'etica della testimonianza e sul valore delle contro-narrazioni, finalità a cui è possibile ascrivere anche il saggio dei due sociologi, anche se rimane da fare una riflessione circa l'impatto politico che i romanzi trattati hanno ottenuto o possono ottenere, informazioni che probabilmente la sociologia sarebbe in grado di offrire.
L'articolo di Barbara Distefano segna una discontinuità: a differenza di quelli precedenti, si tratta di una studiosa più abituata a lavorare con i metodi della critica letteraria piuttosto che con la sociologia, sebbene il terreno di studi presenti forti ancoraggi con il referente. Il corpus delimitato dalla studiosa è quello dei "racconti di scuola". Distefano si propone almeno due finalità: la prima, è ragionare su come la letteratura integri una serie di dati e statistiche mostrandosi permeabile alla cosiddetta «immaginazione sociologica» (p. 153); la seconda, è quella di ricostruire gli "effetti" che la creazione letteraria ha avuto sulla percezione del mestiere d'insegnante come lavoro ingrato, mal fatto e poco soddisfacente. Insieme a Cinzia Ruozzi, Distefano vede nel periodo 1985-1986, ovvero gli anni in cui vengono pubblicate le prime pagine di Ex cattedra di Domenico Starnone, i primi anni in cui si «inaugura una stagione in cui raccontare la nuova scuola» (p. 154). Il panorama letterario affrontato sembra essere dominato da una costante «pretesa sociologica» (ibid.), un discorso letterario che punti a mettere in evidenza i dati e i fenomeni piuttosto che concentrarsi sugli aspetti stilistici e formali. Il discorso sulla scuola è in queste opere legittimato dal fatto che lo scrittore stesso sia effettivamente un insegnante: è l'appartenenza alla congerie di testi non-fiction che conferisce una patina di veridicità ai racconti studiati. Torna nel saggio di Distefano l'interrogativo metodologico quando, insieme a Coser, Bruner e Bauman, afferma che le due scienze, sociologica e letteraria, siano «discipline sorelle e complementari contrassegnate da metodi d'indagine differenti, ma fondamentalmente accomunate dall'ambito d'indagine e dallo scopo, che in entrambi i casi è quello di proporre verità comunque contestabili» (p. 156). Costatando che la letteratura contemporanea ha tra le sue finalità quella di difendere dagli stereotipi il mestiere d'insegnate, Distefano rovescia la domanda e si chiede se la tradizione del racconto di scuola può aver contribuito al «radicarsi di qualche stereotipo» (p. 158). Nel tentativo di trovare una risposta a tale interrogativo Distefano retrocede ai primi anni Sessanta e rilegge Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi, che, secondo Varotti, è «il primo romanzo italiano in cui trova voce l'idea di una divergenza incomponibile tra società e scuola» (p. 160).
L'ultimo saggio raccolto nella sezione monografica è della sociologa Maria Letizia Pruna. Come nell'articolo di Corrado Punzi e Marta Vignola, la letteratura viene utilizzata come fonte primaria per ricostruire le condizioni di vita dei minatori tra il XIX e XX secolo. L'ampio arco cronologico preso in considerazione dalla studiosa, dal 1887 al 1956, mostra come vi sia una sostanziale immobilità nel mondo sotterraneo della miniera; i miglioramenti tecnologici sembrano non aver portato a evoluzioni significative delle condizioni di lavoro, complice anche il trasferimento dell'attività estrattiva in paesi extraeuropei, dove non sono sempre garantiti i diritti dei lavoratori. Pruna, con l'ausilio della letteratura (principalmente romanzi inglesi e francesi), isola alcuni momenti-chiave: quello della discesa nelle profondità della miniera attraverso un ascensore/gabbia che precipita fino a settecento metri sottoterra; quello in cui i minatori percorrono corridoi lunghi, bui, caldissimi prima di giungere al pianerottolo dove devono operare; il racconto dei pericoli che quotidianamente corrono i minatori; la descrizione delle paure più frequenti dei minatori; la rappresentazione dell'ambiente di lavoro. Il contributo ha l'indubbio merito di fare luce su un'attività che coinvolge, ancora oggi, milioni di lavoratori nel mondo, i quali operano in condizioni sanitarie indicibili, confrontati costantemente ad un mestiere tra i più rischiosi, e di farlo utilizzando la letteratura come fonte primaria, praticamente l'unica presa in considerazione all'interno dell'articolo. Il saggio è presentato come l'inizio (o presentazione parziale di lavori) di una ricerca più ampia: a due riprese (p. 172 e p. 178) la studiosa annuncia che vi saranno ulteriori sviluppi che permetteranno di analizzare la «forte identità professionale e la spiccata disposizione al conflitto, sostenute da una tenace solidarietà» (p. 178, corsivo mio), un aspetto di grande utilità e di cui si attendono i risultati.
In conclusione, possiamo affermare che il tentativo compiuto dai due curatori e dagli otto autori che hanno partecipato alla sezione monografica, confrontandosi e superando difficoltà per così dire fisiologiche, dovute alla difficile complementarietà delle due discipline - si voglia per la scarsa abitudine a coniugarle, si voglia per le irriducibili paratie metodologiche - rappresenta uno dei punti più avanzati, sia in termini di sintesi delle ricerche precedenti, sia nel tentativo di trasformare le teorie in prassi, dell'approccio sociologico e letterario a un tema di ampia rilevanza sociale, quale è il lavoro.

 

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