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Ambra Zorat
Appunti sul fantastico femminile tra Otto e Novecento
Sommario
I. Osservazioni generali e delimitazione del corpus
Come è noto, nello studio del genere fantastico e della sua diffusione in Italia, è stata data la priorità ad autori novecenteschi fin da quando Calvino, in una storica antologia del 1983, decise, riferendosi all'Ottocento, di escludere gli autori italiani da lui considerati come trascurabili.1 Se gli studiosi contemporanei concordano nell'affermare che in Italia non esiste una tradizione fantastica ottocentesca coerente e originale, diversi critici - tra cui Enrico Ghidetti e Monica Farnetti - hanno mostrato come nell'Ottocento italiano racconti fantastici di un certo rilievo non siano mancati.2 Nelle varie antologie sul fantastico, i nomi di scrittrici del secondo Ottocento e del periodo a cavallo tra i due secoli non sono molto numerosi. A volte alcune pubblicazioni riservano piacevoli sorprese includendo testi di scrittrici raramente menzionate nel repertorio fantastico.3 L'inclusione di voci femminili però non aumenta sistematicamente man mano che si considerano antologie più recenti, né esprime una scelta condivisa di autrici.4
Certo, come per gli scrittori, tra fine Ottocento e inizio Novecento è difficile trovare scrittrici la cui opera possa espletarsi interamente nel genere fantastico. Non mancano tuttavia autrici che episodicamente si sono confrontate con questa modalità letteraria, almeno a giudicare dal corpus di testi fantastici femminili indicati da Monica Farnetti nell'articolo Definire il fantastico femminile.5 Il corpus proposto dalla studiosa include 13 scrittrici6 di cui quasi una decina per il periodo tra i due secoli. Sebbene a Farnetti vada il merito di essere stata tra i primi a porre l'accento sul contributo femminile al genere fantastico, le sue tesi, spesso affascinanti, non sfuggono a tendenze essenzialiste. Alcune pertinenti riserve sono state in proposito formulate da Beatrice Laghezza.7 Ad ambiziosi tentativi di modellizzazione del fantastico femminile è forse opportuno affiancare analisi più prettamente testuali basate su un corpus meno vasto oppure tese a identificare l'originalità di singoli contributi. Per quel che riguarda il periodo a cavallo tra i due secoli, non bisogna dimenticare che la produzione del fantastico femminile è caratterizzata da incursioni tanto numerose quanto limitate a un paio di testi per scrittrice. Tale frammentazione del corpus rende di per sé difficile delineare una visione d'insieme dai contorni ben definiti e validi. Circoscrivere e studiare il fantastico femminile tra Otto e Novecento sembra tuttavia necessario. Il corpus qui considerato comprende alcune delle più importanti scrittrici del periodo generalmente associate in sede critica al realismo, ossia la Marchesa Colombi (pseudonimo di Maria Antonietta Torriani), Matilde Serao e Grazia Deledda.
Oltre alla dominante realista, è utile notare che si tratta di scrittrici attratte dal mondo popolare, dal suo patrimonio di racconti magici e leggende. Le fiabe e i racconti popolari non sono riconducibili a una concezione moderna del fantastico. Il folklore e la fiaba suppongono un mondo magico considerato come reale da una comunità, mentre il fantastico è un'esperienza per lo più individuale.8 È tuttavia indubbio che la tradizione fiabesca e i racconti popolari possano ispirare e alimentare la scrittura fantastica. Non a caso un autore del fantastico novecentesco come Calvino ha curato anche un noto libro di Fiabe italiane.9
Sul piano sociologico non bisogna dimenticare che le autrici citate sono attive in un periodo in cui si sta formando una classe di scrittrici professioniste. Nel secondo Ottocento nasce «una folta schiera di artigiane della penna»10 che devono confrontarsi con i gusti del pubblico e spesso alternano scrittura letteraria e giornalismo. Lo fa la Marchesa Colombi che scrive romanzi e racconti, ma dal 1876 tiene anche una rubrica di moda sul «Corriere della Sera» fondato dal marito Eugenio Torelli Viollier. Versatile è anche Matilde Serao che, oltre alle opere letterarie, pubblica con lo pseudonimo di Gibus vivaci articoli sul «Corriere di Napoli» e poi sul «Mattino» da lei stessa fondato assieme al marito Edoardo Scarfoglio nel 1892. Grazia Deledda, dal canto suo, modifica il proprio modo di scrivere novelle quando, a partire dal 1909, affianca alla collaborazione con la «Nuova Antologia» quella con il «Corriere della Sera».11
Siamo dunque di fronte a tre professioniste della scrittura che comprendono e usano consapevolmente i codici del sistema culturale ed editoriale. Queste tre scrittrici autodidatte sono animate da un atteggiamento di apertura verso la sperimentazione, in particolare nella forma della narrativa breve. Con le loro antenne sensibili accolgono le sollecitazioni del contesto culturale italiano e straniero. Pur partendo da moduli narrativi realisti, frequentano ciascuna a modo proprio il territorio del fantastico come ipotesi di lavoro. Il percorso di analisi spazierà dal fantastico ironico e sociale della Marchesa Colombi, al fantastico logico e umano di Matilde Serao, fino al fantastico di Grazia Deledda incentrato sull'espressione di stati d'animo e rovelli morali.
II. Il fantastico ironico e sociale della Marchesa Colombi (1840-1920)
L'opera letteraria della Marchesa Colombi è caratterizzata dal disincanto e da una componente umoristica. Se il reale è il luogo in cui l'ideale s'infrange, è anche il luogo dove può nascere il buffo. La Marchesa Colombi è nota soprattutto per la vena psicologica e sociale dei romanzi In risaia (1878) e Un matrimonio di provincia (1885), ma la scrittrice opera brevi incursioni anche nel mondo del meraviglioso e del fantastico. Lo stesso In risaia è ripubblicato nel 1890 presso l'editore Galli di Milano con l'aggiunta del capitolo Il Folletto sei anni dopo.12 Il capitolo contiene la storia del carrettiere Gaudenzio alle prese con un invisibile folletto responsabile delle cattive condizioni di salute della sua mula. Il materiale popolare viene sfruttato in direzione comica. Sebbene sia stato proprio Gaudenzio con il suo rovistare freneticamente nella coda dell'animale ad aver causato il nervosismo della mula e il conseguente incendio della stalla, i vicini attribuiscono l'incidente a un semplice errore di comunicazione con il capriccioso folletto. La scrittrice novarese resta qui ancora sulle sponde del meraviglioso invitando però il lettore a conoscere meglio la realtà contadina e il mondo magico popolare.
"Spunti scapigliati"13 e motivi fantastici emergono invece in altri due racconti: Il "curare" e I morti parlano. Nel racconto di Natale Il "curare" inserito nel volume Cara speranza (1888),14 il fantastico emerge sotto forma di "fantastico strano", ovvero - secondo la definizione di Todorov - come un'esitazione tra reale e irreale introdotta ma poi smascherata grazie a una spiegazione razionale.15 Tale racconto appartiene al filone scientifico del fantastico ovvero quello in cui la narrazione rinvia all'ambiente medico e universitario. Riferimenti a scienziati sono per esempio presenti nei racconti Un osso di morto (1869) di Igino Ugo Tarchetti16 e Il pugno chiuso (1870) di Arrigo Boito17. Ne Il "curare" la Marchesa Colombi riprende inoltre alcuni motivi dell'opera di Edgar Allan Poe e in particolare lo stilema del sepolto vivo presente nel racconto La sepoltura prematura (1844).18 Tali elementi non sono solo ripresi dalla scrittrice, ma vengono manipolati e abilmente variati.
Il protagonista è uno stimato professore. Durante un pranzo di Natale, dopo aver reso omaggio al nonno che in tale solenne ricorrenza non aveva osato cacciare di casa un nemico, il professor Navaro si trova ironicamente a vivere una situazione simile poiché riceve la visita inaspettata di un vecchio compagno di studi che aveva cercato di ucciderlo. Ai tempi dell'università, durante un esperimento scientifico, il rivale in amore gli aveva somministrato del curare - oggi noto come curaro -, un veleno proveniente dall'Amazzonia che causa paralisi dei muscoli e infine asfissia. Il professore racconta di essersi trovato per diversi minuti lucido e cosciente dentro un corpo paralizzato e privo di facoltà vitali. Tutta la novella è giocata sul contrasto tra il giovane studente moribondo che sente tutto e i compagni che descrivono la progressione della paralisi, propongono un'amputazione e infine lo piangono disperatamente credendolo morto. Tanto gli invitati del pranzo quanto i lettori reali del racconto avvertono inoltre l'opposizione tra il ricordo di Navaro della propria morte e l'inspiegabile sua sopravvivenza all'avvelenamento. A più riprese la tensione è spezzata e rilanciata tramite un abile e ironico uso dei codici del fantastico. Gli invitati cercano di anticipare così lo scioglimento della contraddizione di chi parla da vivo di un'esperienza di morte:
«A momenti ci guardavamo l'un l'altro sbalorditi e dubbiosi, sospettando che portata al sommo grado la nostra curiosità, il narratore dovesse cavarsela collo scioglimento comune a molte novelle fantastiche:
- A questo punto mi svegliai: avevo sognato.
Ma poi uno scoppio di voce appasionata, un sospiro affannoso, un brivido di raccapriccio del professore, ci attestavano la verità del fatto, ed accrescevano il nostro interessamento».19
Un invitato impaziente incalza il professor Navaro riferendosi a un celebre scrittore fantastico:
«- Ma caro Navaro, esclamò un professore di filosofia: io non capisco nulla. È uno scherzo, un racconto alla fantasia di Poe che ci ha fatto? Come mai! Avvelenato, morto a mezzodì, e sano la sera?».20
Se nella Sepoltura prematura di Poe, l'esperienza del sepolto vivo è in realtà un'allucinazione avuta nella cuccetta di una barca, ne Il "curare" il giovane imprigionato nel proprio corpo viene salvato da un respiratore artificiale che in extremis riavvia la circolazione sanguigna. Non è solo il genere fantastico a ricevere una punzecchiatura ironica, ma anche l'intento morale e il culto del Natale, visto che la generosa elemosina verso un nemico viene definita seppur bonariamente come un pregiudizio:
«Ho fatto come i miei vecchi; non ho respinto nemmeno il mio assassino il giorno di Natale. […] Dacché ho ereditato il loro patrimonio, ed i loro nervi eccitabili, dovevo pure accettare anche i loro pregiudizi. È la parte passiva dell'eredità».21
La scrittrice inserisce abilmente nella trama di un racconto edificante di ambiente borghese una serie di divertite messe in discussione tanto dei codici fantastici quanto di quelli del racconto di Natale.22
La Marchesa Colombi dialoga con il genere fantastico anche nel racconto I morti parlano, pubblicato nel 1879 sul «Fanfulla» e poi incluso nel volume La cartella n. 4 (1880).23 Il testo è composto da due lettere che le sarebbero state spedite nel gennaio del 1878 e nell'aprile del 1879 da un'amica emigrata in America. Si tratta di una variazione sul topos del manoscritto ritrovato che molta fortuna ha avuto nell'Ottocento, anche nella letteratura fantastica, per esempio nel racconto Le leggende del castello nero di Tarchetti.24 La Marchesa Colombi riporta l'artifizio del manoscritto a un piano decisamente modesto e quotidiano. Con efficace autoironia spiega come la mancanza di ispirazione l'abbia costretta a mandare in stampa, invece di un romanzo, un fatto reale simile a un romanzo, per di più scritto da una casalinga che in un pomeriggio uggioso voleva distrarsi.
Il tema del racconto è lo spiritismo, ma anche qui l'elemento fantastico è ironicamente smascherato. Nella prima lettera si narra la buffa vita di Tobie Reed, nella seconda si descrive il processo subito dalla moglie Bess e dal cugino Seth. Tobie è un operaio che lavora in un teatro di Filadelfia ed è ossessionato dall'idea di diventare attore tanto che durante una rappresentazione dell'Amleto, alla replica «To be or not to be», pensando che si parlasse di lui, era balzato sul palcoscenico gridando «Oh yes Sir! Tobie! Tobie!» fra risate e applausi del pubblico. Quest'uomo semplice ma toccante è incapace di distinguere tra realtà e rappresentazione. Il racconto prende una piega imprevista quando uno scienziato, il signor Edison, affitta il teatro per presentare le proprie invenzioni. Da allora Tobie sviluppa una mania per il fonografo, che come l'attore ripete delle repliche.
Gli aspetti fantastici sono contenuti nella seconda lettera che narra la macabra profanazione di una tomba e il processo dei presunti colpevoli. Bess racconta ai giurati di come, rimasta vedova, abbia ritrovato una cassa da cui usciva la voce del marito. Il defunto chiedeva che gli venisse tagliata la testa e che questa fosse usata a teatro per il teschio dell'Amleto. La donna, terrificata, intendeva solo soddisfare l'ultima volontà del marito. Il ritrovamento della cassa parlante permette di svelare il mistero. Un fossato sociale si apre. Mentre il giudice e le persone abbienti capiscono subito che non è stato un morto a parlare ma il fonografo inventato da Edison nel 1877, dal pubblico si alzano grida di paura:
«Un grido, terribile come un urlo, non interruppe la frase, ma sorse a coprirne le ultime parole. Quel grido pauroso era partito dal fondo della sala. Un uomo era stato colto dal terrore, e si dibatteva in un accesso di convulsioni. Fu portato fuori; il silenzio si ristabilì lentamente; tutti avevano qualcosa da dire. La parte colta del pubblico aveva riconosciuto la voce di un fonografo. Il giudice, i giurati sorridevano ironicamente. Tutto si spiegava».25
Il riferimento al fonografo in relazione alla sfera sovrannaturale è piuttosto originale e verrà usato da Jules Verne una decina di anni dopo.26 Ciò che più importa alla scrittrice novarese però è l'amara costatazione di come il mondo si trasformi con ritmi diversi a seconda delle classi sociali. Gli stilemi del fantastico rivisitati in senso ironico dalla Colombi sono associati a una riflessione di stampo sociale. Se ne Il "curare" il fantastico e i racconti di Poe sono abbinati a un divertimento di tipo borghese, ne I morti parlano l'associazione tra progresso tecnico e spiritismo permette di mostrare fraintendimenti e distanze tra mondi diversi.27
III. Il fantastico logico e umano di Matilde Serao (1856-1927)
La personalità estroversa di Matilde Serao si manifesta in campo letterario con l'iperproduzione e la sperimentazione di generi diversi tra loro che vanno dalla letteratura verista alla letteratura di consumo, dalla pubblicazione di bozzetti e novelle alla redazione di romanzi anche molto lunghi. Ciò che però più colpisce di Serao è la sua consapevolezza riguardo le caratteristiche del genere fantastico. Le prime giovanili osservazioni teoriche sono a dire il vero poco originali. Nelle Leggende napoletane (1881) sottolinea la specificità dell'immaginario italiano - e in particolare napoletano - rispetto a quello dei paesi nordici. Serao riprende una tradizione consolidata in epoca romantica che opponeva il mondo nordico ossianico e quello meridionale omerico. Secondo la scrittrice, il paesaggio influenza l'immaginazione, per questo l'immaginario mediterraneo sarebbe caratterizzato da atmosfere meno nebbiose e malinconiche, da una fantasia più limpida e da leggende dal «carattere profondamente umano».28
Negli anni successivi la riflessione si fa più matura. In una conferenza intitolata Carlo Gozzi e la fiaba tenuta nel 1895, la scrittrice opera un'interessante distinzione tra "meraviglioso" e "fantastico". Secondo Serao, sarebbe scorretto utilizzare il termine "fantastico" per parlare delle opere teatrali di Carlo Gozzi (1720-1806) per le quali sarebbe più adatta la categoria di "meraviglioso". Al "meraviglioso" inteso come ciò che è mirabolante e disorganizzato, Serao contrappone un fantastico "logico":
«Chi si sorprende, inarca le ciglia e ha l'aria di uno sciocco: costui è lo spettatore delle cose meravigliose perché strampalate, meravigliose perché senza nesso o con un nesso così lieve che un nulla lo spezza, meravigliose perché assolutamente contrarie a tutto ciò che è ordinario. Tutt'altro, tutt'altro il fantastico! Esso, credete, corrisponde alla vita e certe volte vi corrisponde con misura matematica: esso ha delle regole intime, profonde, per cui può apparire quel che è, fantastico, sì, ma logico: esso è dominato da una ragione segreta che lo nutrisce e gli dà sostanzia e colore: esso può essere alto, grande e puro come la verità. Il fantastico non è il contrario della vita, ma è l'esaltazione della vita [...]».29
Serao sembra capovolgere l'idea che Manzoni esponeva nella lettera al Conte Cesare d'Azeglio. Lo scrittore lombardo definiva la vena fantastica del romaticismo europeo come «non so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca stravagante, una abiura in termini di senso comune».30 Per Serao il disordine e il guazzabuglio sono tipici del meraviglioso, non del fantastico. Se il meraviglioso di Gozzi comprende mondi folli e impossibili, il fantastico è invece un sistema che ha una logica interna e indica ciò che sta dietro e dentro il reale, perché la verità - suggerisce Serao - è complessa, è composta di linee in fuori, di aloni e di lati nascosti. Il fantastico «non capovolge le leggi dell'esistenza, ma le intravvede moltiplicate»31 permettendo al lettore di capire meglio la vita e le passioni umane.
Certo la logica tipica del fantastico, di cui Serao cita come modelli Hoffmann e Poe, è esaltata dalla forma narrativa breve. I racconti, letti tutti d'un fiato dal lettore, non procedono per lente accumulazioni ma concentrano fatti ed emozioni in una specie di forma chiusa32 che garantisce effetti di maggiore coesione e pregnanza semantica. Non a caso nel 1907, accennando brevemente alla propria produzione fantastica, Matilde Serao si riferisce a delle novelle. Nella sua prefazione al Ritratto del morto dell'avvocato e giornalista napoletano Daniele Oberto Marrama (1874-1912), Serao dichiara di avere scritto «forse due novelle fantastiche, o, forse, una».33 Difficile dire esattamente a quali novelle pensasse. Di fatto la critica ha rilevato il carattere fantastico di diversi suoi racconti.34
Il volume Leggende napoletane, studiato con acume da Rosaria Taglialatela, raggruppa testi incentrati su elementi favolistici o mitici e scritti più tipicamente fantastici.35 Certo si tratta di un'opera giovanile ma nei testi più riusciti come la Barchetta fantasma e Lu munaciello, Serao trasforma la leggenda folklorica in racconto fantastico tramite un accorto uso di alcuni procedimenti narrativi.
Nella Barchetta fantasma Tecla, sposa fredda ma virtuosa dell'appassionato Bruno, finisce per innamorarsi di Aldo scatenando il furore del marito che, travestitosi da barcaiolo, porta al largo gli amanti uccidendoli. La barchetta si capovolge per tre volte fissando con forza l'immagine dell'ultimo estatico bacio degli amanti e quella della faccia contratta dall'ira dello sposo tradito. Lo slittamento da una storia basata su un immaginario magico accettato collettivamente a una dimensione inquieta e fantastica più moderna è favorito dall'uso del dialogo in apertura e chiusura del racconto. Il testo si apre con la domanda «Li conosci tu?».36 Il narratore sembra rivolgersi al lettore cui promette di raccontare una storia d'amore per distrarlo dalla noia dei giorni invernali. Ben presto però l'interlocutore si rivela essere un fantasma che vive nell'anima del narratore: «A te, fantasma fuggevole ed inafferabile, essere divinamente malvagio, umanamente buono, infinitamente caro, bello come una realtà, orribile come un'illusione, sempre lontano, sempre presente, che vivi nelle regioni sconosciute, che sei in me».37 Il narratore si riferisce alla chimera dell'amore che scandisce tutta la sua vita. La domanda che apre la seconda parte del racconto «L'hai tu mai vista la barchetta fantasma? L'hai tu vista, amor mio?»38 è ripresa anche alla fine del testo, quando la voce narrante, dopo aver ricordato come a una certa ora della notte la barchetta fantasma riappaia e scompaia tre volte davanti agli occhi di chi ama intensamente, ripete con ansia: «L'hai vista tu? L'hai vista tu la barchetta fantasma? O sciagurata me, se fui sola a vederla!».39 Il narratore si presenta come un personaggio sottraendo almeno in parte il materiale narrativo al territorio fiabesco e colorandolo di tinte fantastiche. Se l'evento sovrannaturale - ovvero l'apparizione della barchetta fantasma - è raccontato come un fatto normale e reale, l'angoscia viene dal dubbio del narratore che la visione di cui è stato testimone non sia stata condivisa con l'interlocure identificabile contemporaneamente con l'amato e il lettore. In entrambi i casi sarebbe condannato alla solitudine dovendo rendersi conto che il suo amore non è corrisposto o che la scrittura è un delirio solitario.
Anche nella leggenda Lu Munaciello la tecnica letteraria riscatta il materiale folklorico. Lo scritto prende avvio dalla nascita nel 1445 di un bambino difforme, simile a un nano vestito da monaco, debole e inerme ma anche sacro e degno di rispetto. Tramite un denso sistema di ripetizioni, Serao rende bene la forza dell'accanimento della gente verso il piccolo monaco. L'espressione «Era lui» seguita dall'ossessiva ripetizione del pronome indica come il popolo lo ritenga responsabile di qualunque difficoltà quotidiana. Il narratore passa poi dal piano della cronaca a quello della leggenda e dell'odierna esistenza del folletto. Con nuovi e insistenti procedimenti iterativi viene fatto riapparire il folletto davanti agli occhi del lettore. Il munaciello contemporaneo, come quello del Quattrocento, è una «strana mescolanza di bene e di male»40 e incarna il bisogno d'amore ma anche il desiderio di provocare tormento da parte di chi ha subito torti e violenze. Alla fine del testo il narratore si rivolge «al buon lettore»41 come per immettere nella sua vita quotidiana gli aspetti fantastici e inquietanti della leggenda.
Alcuni accenni al racconto La donna dall'abito nero e dal ramo di corallo rosso pubblicato nel 1883 ne «La Domenica Letteraria» e poi in Fior di passione (1888) permettono di avere un'idea di come si evolva nel tempo la scrittura di Serao in campo fantastico. Con il titolo Il mio segreto tale racconto è riproposto nella raccolta Donna Paola (1897) e poi nelle Novelle sentimentali (1902). La frequente ripubblicazione del testo è spia di un certo attaccamento della scrittrice al racconto. Il titolo inoltre subisce importanti modifiche: dal riferimento alla figura femminile alla terza persona - la cui identità divisa è ribadita dal contrasto tra il rosso vitale del corallo e il nero luttuoso del vestito - si passa a una visione più intima, segreta e lacerante del tema del doppio collegato alla prima persona singolare. Al tema del doppio è inoltre associato quello della follia.42 La donna rinchiusa in un manicomio racconta in che modo, imitando il proprio sosia e fantasma, abbia alla fine rinunciato alla vita. Come ha rilevato Ilaria Puggioni, l'alienazione dell'io messa in scena nella novella può essere interpretata come una «risposta all'insofferenza del mondo femminile rispetto al ruolo che la società gli ha ritagliato».43 Questa feconda compenetrazione tra motivo del doppio e riflessione sull'identità femminile conferma l'interesse di Serao per il fantastico in quanto bruciante strumento di esplorazione della vita.
IV. Il fantastico di Grazia Deledda (1871-1936): tra stati d'animo e assilli morali
La produzione novellistica deleddiana comprende centinaia di racconti raccolti in sei volumi da Giovanna Cerina.44 Gli esordi di Grazia Deledda sono ricollegabili all'interesse per il folklore sardo. Un suo saggio intitolato Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna esce infatti tra il 1894 e il 1895 sulla «Rivista di tradizioni popolari italiane» diretta da Angelo De Gubernatis. Secondo Giuseppe Lo Castro le Leggende sarde della Deledda sono prive della «problematicità del nuovo genere letterario».45 Certo i prodigi delle Leggende sarde rinviano più all'atmosfera fiabesca che a quella fantastica. Sarebbe un peccato però fermarsi a questi scritti, usciti a fine Ottocento sulla rivista «Natura ed arte» e pubblicati in volume solo nel 1995 da Dolores Turchi.46 Altre sono le pubblicazioni in cui la scrittrice compie un recupero della tradizione popolare in prospettiva fantastica.
Le modalità fantastiche usate da Deledda sono piuttosto varie. A volte si tratta di semplici espedienti per mantener viva la tensione narrativa. La raccolta Racconti sardi (1894) si apre ad esempio con un riferimento a oggetti che nel buio assumono le sembianze di un vampiro spaventando una bambina rimasta sola durante un temporale nella novella Di notte.47 La rapida allusione al mondo sovrannaturale crea un'atmosfera di paura che prepara la descrizione di un orribile ma reale processo rusticano. Più articolati e pregnanti sono gli aspetti fantastici che caratterizzano alcuni racconti di Chiaroscuro (1912) e Il fanciullo nascosto (1916). Nel frattempo la scrittrice ha letto le opere di Gorkij, Dostoevskij e Tolstoj. Tali letture accompagnano l'ispessirsi delle riflessioni morali. Chiaroscuro contiene racconti pubblicati in vari periodici: il pubblico è più ampio di quello regionale e circoscritto dei Racconti sardi e il ritmo narrativo piuttosto serrato. Il titolo dell'opera rinvia a un contrasto di luci e ombre. Di grande efficacia espressiva è il racconto Un grido nella notte48 che riprende dalla tradizione popolare49 il motivo dei vecchi che narrano una storia ai ragazzini. A parlare è ziu Taneddu che racconta una vicenda che riguarda la prima moglie, Franzisca Portolu. Una notte, mentre era sola in casa, la giovane sposa aveva sentito «un grido così disperato e forte che i muri parvero tremare di spavento»50 ma pensando a un ubriaco non era uscita a vedere di cosa si trattasse. Dopo aver saputo che Anghelu Pinna era morto di notte accanto a casa sua e che, se soccorso, sarebbe sopravvissuto, Franzisca è tormentata dai sensi di colpa. Un giorno in chiesa le appaiono dei fantasmi:
«Continuai a pregare, ma all'improvviso sentii un sussurro come di vento e un fruscio di passi. Mi volsi, e nella penombra, in mezzo alla chiesa, vidi un cerchio di persone che ballavano tenendosi per mano, senza canti, senza rumore; erano quasi tutti vestiti in costume, uomini e donne, ma non avevano testa. Erano i morti, maritino mio, i morti che ballavano! Mi alzai per fuggire, ma fui presa in mezzo: due mani magre e fredde strinsero le mie... ed io dovetti ballare, maritino mio, ballare con loro».51
Pochi mesi dopo, la donna muore consumata dalla febbre e dal delirio. La sua tunica trattenuta dal fantasma viene stranamente ritrovata dopo la morte della donna davanti alla chiesa in cui era avvenuta l'apparizione degli spettri. Il racconto deleddiano però non si conclude con l'effetto perturbante generato dal ritrovamento del tessuto di lana scardassata. Il lettore scopre che il grido notturno non era stato emesso dal giovane ucciso bensì dal marito che in quella malaugurata notte aveva voluto fare uno scherzo alla moglie. Lo ziu Taneddu, benché abbia involontariamente causato i tormenti della donna, sembra essere immune da distruttivi sconvolgimenti interiori. I travagli morali si avventano misteriosamente su alcuni individui lasciandone altri indenni. I fantasmi che ballando appaiono a Franzisca sottraendola alla vita vengono da profondità imperscrutabili dell'anima.
Alcuni racconti de Il fanciullo nascosto (1916) presentano elementi fantastici che finiscono coll'essere spiegati razionalmente. Tali eventi permettono al lettore di aprire uno spiraglio nell'anima dei protagonisti. Ne La potenza malefica52 il narratore è una ragazzina che prova soggezione per un vecchio ciabattino dagli oscuri poteri. L'uomo viene descritto come allampanato e misterioso tanto che «a volte si drizzava e pareva allungarsi per volontà propria».53 La serva della ragazzina dopo aver deriso il vecchio calzolaio si ammala di una grave bronchite. A causa di uno sguardo minaccioso rivolto alla serva, il vecchio è ritenuto responsabile dell'accaduto:
«D'un tratto gli desiderai la morte. Sì, che egli morisse, quella notte, e così la donna si salvasse. Fu come un'allucinazione. Mi pareva che egli avesse gettato il suo laccio malefico sulla nostra casa: l'avevo colto io, però, e tiravo, com'egli aveva detto di fare per vincere il nemico. Potenza contro potenza: finché l'altra serva, entrata nella camera, non chiuse gli scuri spingendomi per farmi tornare a letto. E subito, come dopo una grande fatica, mi addormentai.
La notte stessa la malata migliorò e il vecchio fu trovato morto nella sua stamberga».54
La ragazzina, persuasa di avere il malefico potere di uccidere, si compiace senza troppi scrupoli della vendetta e della morte del ciabattino. Ma il racconto finisce con il lapidario annuncio da parte del medico che il vecchio era in realtà morto diversi giorni prima, smentendo così le convinzioni della bambina. Certo la protagonista è un individuo ancora immaturo, e questo determina effetti più comici che inquietanti, ma l'idea che il mondo interiore possa misteriosamente scindersi dal reale aleggia anche sul mondo degli adulti nelle altre novelle. È ciò che suggerisce il racconto La casa maledetta.55 Anna Salis vuole liberarsi dalla maledizione gettata sulla sua casa dai vecchi proprietari. In seguito a strani sogni e avvenimenti, crede che la malìa operi nel seminterrato. Mentre impaurita si fa il segno della croce, il manovale Antonio Bicchiri scava sotto una scala:
«La donna tremava tutta, con una mano protendendo il lume, con l'altra appoggiandosi al muro: anche il gattino, di cui il sottoscala era il regno, venne a guardare curioso e cauto […] d'improvviso miagolò, balzò, addentò un ossicino bianco ch'era venuto fuori con la terra smossa e scappò via. Annedda diede un grido. Altri ossicini venivano fuori».56
Se la donna è fin dall'inizio molto scossa, anche l'uomo è turbato dalla macabra scoperta poiché «quando tornarono fuori, alla luce del giorno, Annedda con le ossa nel grembiale, egli sbattendosi le mani, ebbero quasi terrore a guardarsi e a dire quello che pensavano».57 Gli ossi, prova della fattura, sembrano essere quelli di un neonato senza testa. Il perturbante si dilegua quando la perizia scientifica dimostra che si tratta dei resti di un maialino. Che i fatti siano stranezze spiegabili razionalmente, insolite coincidenze o casi di superstizione, ciò che interessa a Deledda è registrare sulla carta gli stati d'animo dei protagosti, rendendo con empatia il loro vissuto, le loro paure e i loro turbamenti.
Capita però che gli eventi sovrannaturali non siano associati a emozioni negative. Ne Lo spirito della madre58 pubblicato molti anni dopo in Sole d'estate (1933), si racconta di una seduta spiritica. Sebbene la madre di Lula sia morta per una malattia al cuore di cui soffriva da anni, la giovane è convinta di averla uccisa fuggendo di casa assieme al figlio del padrone. Lula non crede all'occulto eppure è fortemente impressionata dall'evocazione dello spirito della madre:
«Questa volta il brivido era profondo; le saliva dalle viscere, le percorreva ogni vena, la chiudeva in una rete incandescente. E d'un tratto ella sentì di nuovo la voce della madre, ma dentro di sé, e le parve che lo spirito evocato fosse venuto a raggiungerla, per non lasciarla mai più».59
Evento prodigioso o risultato dell'autosuggestione, certo questa volta l'effetto è positivo e coincide con una guarigione rapida e luminosa. La ragazza riappacificata con la madre defunta ritorna alla vita e alle sue quotidiane dolcezze. Nell'opera novellistica deleddiana, gli elementi fantastici funzionano come un microscopio: permettono di far affiorare profondità e leggerezze di una natura umana in fondo fragile e inesplicabile.
V. Conclusioni
All'inizio del Novecento, su giornali e riviste letterarie scoppiano accesi dibattiti sulla scrittura femminile e sul cosiddetto «pericolo roseo».60 Nel 1907, nella «Nuova antologia», Luigi Capuana invita i contemporanei a non preoccuparsi della concorrenza femminile, perché le scrittrici, pur introducendo nell'arte «un elemento tutto proprio, la femminilità», tuttavia «non creeranno nulla di nuovo».61 In alcuni articoli del 1910 e del 1911, Giuseppe Antonio Borgese afferma che le scrittrici hanno una cultura di rimbalzo e percepiscono le correnti letterarie in ritardo.62 Paragona le donne che scrivono a delle contadine che arrivano per spigolare quando il grano è già stato falciato e i mietitori stanchi se ne sono andati.63
All'erta e attente ai nuovi orientamenti culturali, la Marchesa Colombi, Matilde Serao e Grazia Deledda smentiscono questi luoghi comuni mostrando abilità nel percorrere - seppur in modo episodico - il territorio del fantastico. Lontane da semplici imitazioni o da riprese di maniera si misurano con moduli fantastici senza rinunciare alla loro poetica. Lo slittamento dal realismo verso il fantastico origina forme testuali talvolta ibride ma sempre coerenti con la loro visione del mondo segnata da un'ironica vena sociale nel caso della Marchesa Colombi, da un interesse per la lucida rappresentazione delle passioni umane nel caso di Matilde Serao, da una riflessione insieme psicologica e morale nel caso di Grazia Deledda. Dai loro testi emerge inoltre una certa consapevolezza metaletteraria, basti pensare ai riferimenti ironici al genere fantastico fatti dalla Marchesa Colombi. Le considerazioni di Serao sul fantastico logico sfatano inoltre il mito o fantasma maschile, vivo a cavallo tra i due secoli, della resistenza delle donne a slanci astratti e a contributi teorici. Sebbene in questa mia prima ricognizione sulla produzione fantastica femminile non siano emerse costanti forti ricollegabili ad approcci di genere, gli appunti e le osservazioni formulate indicano come lo studio dell'opera delle scrittrici possa contribuire a rendere più articolato e ricco il quadro dell'evoluzione del fantastico italiano tra Otto e Novecento. Queste tre autrici - con sensibilità e intenti diversi - non si lasciano sfuggire l'occasione di confrontarsi con un modo letterario spesso incaricato di mostrare i misteri della condizione umana e le contraddizioni del vivere comune.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2018
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Giugno-dicembre 2018, n. 1-2
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