Beatrice Manetti
Fantasmi del potere e ritorno del sacro nella trilogia fantastica di Anna Maria Ortese

 

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Sommario
I.
II.
III.
Un fantastico "antagonistico"
Il potere e il sacro
Contro l'immaginazione


 

§ II. Il potere e il sacro

I. Un fantastico "antagonistico"

Il crescente interesse per l'opera di Anna Maria Ortese, in particolare per la sua produzione fantastica, è stato accompagnato negli ultimi anni da una sorta di dissociazione ermeneutica. Su un primo versante, l'indagine sui nuclei fondamentali del pensiero dell'autrice ha privilegiato le interpretazioni "ideologico-filosofiche", concentrandosi quasi esclusivamente sulla valenza allegorica del suo fantastico.1 Questa tendenza a leggere l'opera ortesiana come quella di una filosofa o di una teologa e sempre meno come quella di una narratrice, per quanto legittima e tutt'altro che priva di esiti interessanti, è un paradossale destino per un'autrice che ha saputo sempre «esercitare in parallelo e insieme così a fondo la competenza speculativa e quella fantastica»;2 senza contare che l'enfasi sulle sue «persuasion[i] preliminar[i]», in particolare sul «messaggio di universale rispetto per la vita in ogni sua forma», rischia di far passare in secondo piano una sacrosanta ovvietà: e cioè che «il compito del critico […] non consiste nel descrivere il pensiero di un romanziere, quanto piuttosto nell'analizzare i rapporti che intercorrono tra quel pensiero e la narrazione».3
Sull'altro versante degli studi, che non disgiunge il pensiero dalle forme narrative alle quali è affidato, la predilezione di Ortese per il modo fantastico è stata assunta per prima da Monica Farnetti come caso esemplare e al tempo stesso come modello costruttivo di una teoria del fantastico femminile otto-novecentesco incentrata sulla convinzione che il rapporto della donna con il perturbante non produca una risposta emotiva di angoscia o di fuga, ma di accoglienza e di empatia nei confronti dell'alterità.4 È una proposta di lettura senz'altro più fruttuosa, e però altrettanto univoca nel suo costeggiare pericolosamente una forma di essenzialismo in base alla quale il fantastico femminile sarebbe diverso da quello maschile solo perché praticato dalle donne.5
Queste due tendenze, che muovono da premesse metodologiche opposte per approdare a risultati sostanzialmente analoghi, sono solidali anche nell'azzerare la cronologia interna della produzione ortesiana, schiacciandone la profondità prospettica sulle opere più tarde. Ma se è vero, come osserva Seno Reed sulla scorta di Rosemary Jackson, che un testo fantastico non è mai separabile dal contesto storico-culturale in cui nasce, e quindi dalle diverse fasi del percorso intellettuale e creativo di un autore o di un'autrice,6 allora anche la lunga fedeltà ortesiana al modo fantastico dovrà essere esaminata nella sua diacronia per metterne a fuoco fratture e invarianti. Sebbene in questa sede mi sia impossibile perseguire un obiettivo così ambizioso, cercherò tuttavia di individuare il punto in cui essa è costretta a riformarsi (e a riformularsi) per poter rappresentare nei suoi meccanismi profondi una realtà irreversibilmente mutata, e di indagare su quali elementi si incardini il nesso tra questa nuova realtà e le soluzioni narrative di volta in volta adottate.
È ancora Seno Reed a rilevare come la chiave di volta del percorso di Ortese sia il passaggio dal realismo magico degli inizi al «naturale punto di arrivo» del modo fantastico.7 Si può obiettare sulla naturalità di quell'approdo, così come sulla pacifica inclusione della scrittrice nell'orbita bontempelliana, ma è indubbio che il «flusso incontrollabile di visioni» di Angelici dolori (1937), capace di «produrre trasparenti favolette» ma «nessuno spaesamento gnoseologico, nessun "dolore" davvero perturbante», poco abbia a che fare con il fantastico ortesiano maturo.8 Solo a partire da un momento preciso, infatti, comincia a essere davvero percepibile la giovanile lezione di Poe,9 che cancella sia l'estenuato onirismo del libro d'esordio e di alcune prose dell'Infanta sepolta (1950) sia il fiabesco puro del Monaciello di Napoli (1940) per dar vita, in sintonia con altre autrici coeve e in controtendenza rispetto alle direttrici del fantastico novecentesco tout court, a una pratica "antagonistica" del genere: i grandi modelli della tradizione sono ora riattivati senza ironie difensive né complessi epigonici, ma proprio in quanto permettono di non neutralizzare il conflitto e di non rimuovere il negativo, orientando il fantastico, come ha notato Lise Pelletier, sui modi del tragico.10
Il fantastico ottocentesco, pur nella varietà dei suoi esiti, deve gran parte del suo effetto perturbante alla messa in crisi del potere dell'uomo (inteso come genere umano, ma anche come soggetto maschile) di conoscere, spiegare e quindi padroneggiare la realtà che lo circonda, affermando in tal modo sia la propria sovranità sia la propria identità: è nella ferita improvvisamente inflitta alla padronanza di sé e della realtà che si affacciano i fantasmi del rimosso. In quella che si configura come una precisa linea di tendenza della scrittura femminile del fantastico novecentesco, e di quella ortesiana in modo particolare, il perturbante scaturisce invece da una strategia di segno opposto: il rimosso che ritorna non è la paura della perdita di un potere, ma il potere in sé, sottratto all'inconsapevolezza del suo esercizio "naturale". Se nel Novecento il fantastico femminile promuove "l'amicizia col mostro",11 cosa che del resto non lo differenzia da quello maschile, dice anche che quell'amicizia ha un prezzo: la perdita del potere, appunto, inteso come dominio di sé stessi e del mondo. E se esita a sciogliere l'oscillazione tra sogno e realtà, lo fa con un'idea originale di ciò che è sogno e di ciò che è realtà e soprattutto sapendo che anche questo ha un prezzo: la perdita della realtà stessa. In questa strategia, che, lungi dal proporre una (ri)conciliazione tra categorie antinomiche, ne ribadisce semmai la conflittualità, svolge un ruolo importante anche l'ambito del sacro: nella forma istituzionalizzata delle religioni, infatti, il sacro ricalca gli stessi meccanismi del potere secolarizzato;12 nel suo aspetto numinoso, commisto di fascinans e tremendum, ne rappresenta invece l'inquietante antagonista, che nella moderna società industrializzata sopravvive alla propria eclissi convertendosi nell'esperienza individuale dell'assolutamente altro.13
I modi e gli esiti di questo ritorno del sacro variano da autrice ad autrice;14 nel caso di Ortese, esso risulta intimamente connesso da un lato al sacrificio della vittima innocente, che secondo Girard svela in maniera inequivocabile la radice omicida della fondazione dell'ordine sociale,15 dall'altro al processo di «discreazione» cui induce l'individuo, per introdurlo in quella peculiare forma del sacro che secondo Simone Weil è l'«impersonale»;16 e che conduce sì alla «responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani»,17 e in definitiva alla grazia, ma anche all'annientamento dell'identità individuale, esattamente come accade, nell'opera ortesiana, ai protagonisti della trilogia fantastica: il conte Aleardo nell'Iguana (1965), Elmina nel Cardillo addolorato (1993), Jimmy Op in Alonso e i visionari (1996).18

 

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II. Il potere e il sacro

Il potere e il sacro compaiono come costanti tematiche in gran parte della produzione di Ortese, tanto che la scrittrice, in una lettera a Natalia Ginzburg del 30 maggio 1980, può riconoscervi il «doppio filo della mia curiosa immagine del mondo […]: mistero del cielo e dolore dell'economia, del "sociale"».19 Ma diventano elementi fondativi, motori strutturali della sua narrativa fantastica solo a partire da un momento preciso, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta. Come per molti altri scrittori e scrittrici italiani, quello è per Ortese "il" momento della presa di coscienza di una frattura irreversibile, che investe l'ambito politico-sociale (con la «caduta delle attese rivoluzionarie» e l'affiorare del «tema simmetrico degli sconvolgimenti naturali»),20 il piano economico (nelle vesti del nascente e già aggressivo neocapitalismo), quello culturale (dove insieme alla stagione neorealista si esaurisce la fiducia in una possibile e fattiva convergenza tra impegno letterario e rinnovamento etico-civile) e nel suo caso anche la sfera privata, segnata dalla fine della relazione con Marcello Venturi e dalla precarietà di un'esistenza vissuta all'insegna della necessità economica e dell'invisibilità sociale.
L'Iguana, il libro che segna una svolta decisiva non solo nella carriera di Ortese ma anche e soprattutto nella sua concezione del fantastico, nasce in questo torno di anni; e la sua stesura si interseca cronologicamente con la sofferta rielaborazione di un testo autobiografico scritto tra il dicembre 1960 e il gennaio 1961, da cui origineranno nel 1967 Poveri e semplici e nel 1979 Il cappello piumato. Tra il 1962 e il 1963, mentre ne sta portando a termine la prima revisione, Ortese abbandona, almeno apparentemente, la «scrittura "dell'io" a favore della scrittura dell'altro da sé».21 Dico apparentemente perché se è vero che L'Iguana esibisce tutte le possibili configurazioni del modo fantastico, è altrettanto vero che il romanzo si può leggere anche come un ennesimo sondaggio nei territori dell'autorappresentazione. A confermarlo, non bastassero gli indizi disseminati dall'autrice negli anni successivi («ero un'iguana anch'io, nel 1962», scrive a Franz Haas il 12 giugno 1990),22 sta la nuda lettera della vicenda narrata, riconducibile anch'essa, sotto gli strati della più sofisticata finzionalità, alla storia di un tradimento amoroso e di una parallela emarginazione sociale, resi entrambi irredimibili dalla durezza della logica economica, che fa dell'Iguana non solo una creatura disamata ma anche una schiava, e spinge Ilario a rinnegarla per convolare a più pragmatiche nozze con una ricca ereditiera americana. In questo momento di crisi generalizzata, dove si colloca abitualmente quella biforcazione dell'opera ortesiana destinata a dar vita da un lato alla trilogia autobiografica e dall'altro alla trilogia fantastica, a me sembra invece che l'esperienza autobiografica, intesa non solo come fallimento amoroso, ma anche come tramonto di un progetto culturale e nel senso più ampio politico, si travasi nella pratica del fantastico, imprimendole una torsione decisiva.
Ma perché trasformare in un racconto fantastico una stratificazione così complessa di vissuto, affidata inizialmente al genere mimetico per eccellenza, ossia alla narrazione autobiografica? Io credo che abbia agito in Ortese la consapevolezza che il potere economico (poi, più generalmente ma anche più genericamente, in un climax universalizzante che culmina in Alonso e i visionari, il potere tout court) non si limita a dividere il mondo in servi e padroni, oppressi e oppressori, ma vi introduce un nuovo paradigma di realtà che lo altera irrimediabilmente per entrambi. E che tra i modi e gli effetti di questa alterazione e i modi e gli effetti del fantastico c'è una relazione di isomorfismo così stretta da fare dei secondi lo strumento ideale per raccontare i primi. Di un'analoga consapevolezza reca tracce vistose, ad esempio, Nascita e morte della massaia, il romanzo di Paola Masino uscito nel 1945: che è anch'esso, a suo modo, la storia di un rapporto con la realtà irreversibilmente deformato, e reso "fantastico", dall'esercizio del potere. E per quanto in questo caso si tratti soltanto del potere connesso alle prerogative e ai compiti di un'amministratrice della casa, quando Masino identifica la sua protagonista con lo shakespeariano Riccardo III23 sta appunto rivelando come il meccanismo del fantastico, all'interno del romanzo, sia innescato da (e agisca in maniera solidale a) una tragedia del potere.
L'Iguana, dicevo, esibisce tutte le possibili configurazioni del fantastico: è una storia di spettri, di metamorfosi, di un'allucinazione fatale. Una storia di metamorfosi, soprattutto: che coinvolge tutti i personaggi, ma soprattutto l'eroina eponima, la cui identità sfuggente è ulteriormente complicata dalla proliferazione onomastica che ne fa di volta in volta una bestia, una ragazza, una ragazza-bestia, un mostro, una servetta, una signora, una sgualdrina, un demonio. Nelle letture gendered del romanzo, l'Iguana è definita soprattutto dallo sguardo altrui; e in quanto donna-serpente, donna-demonio, intersezione tra natura e cultura che minaccia la stabilità maschile, deve essere espulsa dal consorzio sociale.24 Più spesso è assimilata alle presenze animali dei due romanzi successivi della trilogia e letta, alla luce di queste e degli autocommenti ortesiani degli anni Ottanta e Novanta, come un'allegoria della Natura, ovvero dell'«animo puro e profondo dell'Universo».25 Se c'è un tratto, però, che rimane immutato nelle molteplici metamorfosi dell'Iguana, è la sua condizione servile, destinata a prolungarsi anche dopo l'ultima e definitiva trasformazione: «Non era una Iguana e nemmeno una regina. Era una servetta come ce ne sono tante nelle isole, con due occhi fissi e grandi, in un volto non più grande di un chicco di riso, [...] i capelli neri aggiustati come una torricella intorno al volto severo e timido».26 In modo analogo, nel Cardillo addolorato, il solo attributo stabile, nell'incertezza tra la natura bestiale e l'origine soprannaturale di Geronte-Käppchen-Lillot, è la sua funzione di «servitorello» e Portapacchi; mentre in Alonso e i visionari l'identità onomastica del puma Alonso e del Torres, il cameriere spagnolo adorato da Decio, produce continue interferenze tra l'area semantica della servitù e quella dell'animalità, fino a confondere le due figure in una sola:

«Sono entrato [...] nella stanza del Torres e sono rimasto sorpreso nel vedere che la stanza, al pianoterra, una delle più ariose della villa, con varie comodità, appariva tristemente mutata. Più piccola e oscura. E affacciava su un luogo triste, che non ho mai veduto vicino a casa nostra: una petraia. O un mondezzaio. Un uomo minuto, ossuto, con un camiciotto di tela gialla, era intento a rifare il letto (una cuccia!) e a deporvi sopra qualche cosa, non capivo. Non si è voltato. Ho guardato meglio e ho visto che si trattava di una povera pelle… minuscola, mal conciata... tu sai di che cosa parlo, e quindi non mi diffonderò».27

La figura della bestia-serva compare anche in precedenza nella narrativa ortesiana, che è affollata di domestici, sguatteri, governanti e ragazzi di fatica, sempre raffigurati a metà tra l'umano e l'animale: creature rese "fantastiche", talvolta mostruose, dalla propria condizione di oppressione e subalternità, a conferma di quanto afferma Ortese in un autocommento ad Alonso e i visionari, e cioè che «i legami - tra i fenomeni universali, e quelli sociali - sono indistricabili»28 (e probabilmente anche reversibili): basti pensare a Uomo nell'isola, il racconto del 1949 raccolto nell'Infanta sepolta e considerato uno dei "cartoni" preparatori dell'Iguana. La novità introdotta da quest'ultimo sta nel fatto che, mentre nel racconto non c'è ambiguità (la governante dello zio Alessandro è una scimmia), nel romanzo assistiamo a continue oscillazioni dello statuto di realtà. E che a innescarle sia il potere del denaro è l'autrice stessa a insinuarlo, in un passo del prologo che non rappresenta soltanto il nucleo ideologico del romanzo, ma anche la chiave del suo specifico modo fantastico:

«dove non ci sono denari (stante le antiche convenzioni del mondo), o dove il denaro può comprare tutto, dove c'è penuria e ignoranza grande, là neppure i sentimenti, o la voglia di esprimerli, esistono; e, insomma, i Lombardi avevano per certo che un mondo oppresso abbia qualcosa da dire, mentre, se l'oppressione è antica e autentica, l'oppresso non esiste neppure, o non ha più coscienza di esserlo, ma solo esiste, sebbene senza una vera coscienza, l'oppressore, che a volte, per vezzo, simula i modi che sarebbero legittimi della vittima, se ancora esistesse».29

La presenza o l'assenza del denaro sono i cardini strutturali dell'intero romanzo: decidono la fisionomia cangiante dei protagonisti, orientano le relazioni tra di essi, intervengono nelle svolte della narrazione. La ricchezza e l'estrazione sociale di Aleardo gli impediscono di vedere la realtà dell'isola (comprese le pietre che la bestia-serva accumula sapendo perfettamente che si tratta di pietre, mentre il conte è convinto del loro valore di scambio), il miraggio del benessere induce Ilario a ripudiare l'Iguana, e tutti coloro che sbarcano sull'isola sono mossi dall'intenzione di comprarla, oppure di comprare i suoi abitanti. Basta rileggere con un po' di attenzione Il cardillo addolorato per accorgersi che lo schema narrativo è analogo, a conferma del fatto che L'Iguana inaugura davvero una stagione nuova, offrendosi come matrice narrativa dei due romanzi successivi. Il cardillo addolorato è ambientato a Napoli, la «capitale di un regno senza fondamento di bontà o ragione, e perduto nello sfrenato Immaginario», negli anni in cui la Rivoluzione sta compiendo «i primi passi in fatto di culto dell'economia»;30 ed è essenzialmente una storia d'amore che segue la traiettoria di una rovina economica e di una caduta sociale; un garbuglio di doti matrimoniali, eredità e ipoteche, di patrimoni accumulati, perduti o dilapidati; una storia di fantasmi, anche, in cui ad apparire e sparire seminando smarrimento e angoscia sono il denaro, il buon nome e i titoli di legittimità, e dove la sorte di tutti i personaggi è condizionata dal mistero di un'altra bestia-serva. E in mezzo a tutto questo si muove il principe Neville, che, come Aleardo nell'Iguana, finché obbedisce alle ragioni della sua «illimitata potenza finanziaria» e della sua «ambizione di potere sulle cose umane», finché pecca di «disattenzione»,31 è destinato a non capire nulla dell'identità di coloro che ha intorno e della natura di quello che accade.
In una lettera a Calvino del 29 ottobre 1964, dopo aver ringraziato il suo interlocutore della «perfetta, straordinaria critica» all'Iguana, Ortese ne offre anche un prezioso autocommento:

«Case e vicoli di Napoli sono tuttora pieni di creature deformi, senza età, altamente nevrotiche; buonissime e anche cupe, destinate ai lavori più umili. Non sono animali, ma quasi [...]. Immaginai [...] quale avrebbe potuto essere la sorpresa, incontrandone una, di un buonissimo conte lombardo [...]. Nessuna sorpresa. Cioè, una meraviglia subito accettata. Il favoloso preso con una risata, e l'interesse subito diretto a una scoperta minore (la malattia di Ilario), mentre sembra chiaro che il malato, di astrazione, o irrealtà, sia proprio colui che accetta l'idea della bestia-diavolo-bambina, e ci intesse tanti ragionamenti [...]. La realtà gli sfugge. Egli la vede e la perde continuamente, fino al colloquio con Salvato, in cui comincia ad afferrare che c'è un'altra verità della cosiddetta bestia, per cui la bestia è perdutamente bestia. Questa verità, è l'esserci o non esserci del denaro. Ma egli non lo saprà che a momenti, a tratti, quando sarà spezzato nella sua persona, giacente nel segreto del pozzo».32

Lo svelamento e insieme la rottura di questo meccanismo coincidono infatti con la discesa di Aleardo nel pozzo. Per la sua stessa configurazione, il pozzo crea un corto circuito tra il "sopra" del potere, dove l'Iguana è un'iguana, e il "sotto" del sacro, dove l'Iguana è non solo una sposa-regina, «tutta vestita di merletto bianco, con una fascia rosa alla cintura, e due scarpini anche rosa», ma anche la «semplice farfalla bianca»33 che nel processo per l'uccisione di Dio, al culmine del delirio del conte, incarna il corpo della vittima. Nei capitoli dedicati all'udienza si fronteggiano da un lato l'inflessibilità cieca della logica economica, in base alla quale Aleardo viene condannato non tanto, come sembrerebbe, per la colpa paradossale di esserne sprovvisto ma per quella, più grave, di non esserne consapevole,34 dall'altro la sovversione che il sacro vi introduce, aprendo lo spazio in cui fa la sua comparsa l'assolutamente altro. Riconoscendo se stesso nell'imputato - come accadrà a Elmina, che ha "ucciso" il Cardillo, e a Jimmy Op, che sa di essere stato complice della morte del puma -, Aleardo redime sì l'Iguana, ma soprattutto incontra il proprio doppio sacro, nel senso di venerabile (in quanto salvatore) e di nefando (in quanto colpevole); e perde, in questo incontro altamente perturbante, tutte le prerogative che fanno di lui una persona: la ricchezza, l'appartenenza di classe, il privilegio sociale, la coscienza di sé, infine la vita.

 

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III. Contro l'immaginazione

Nella trilogia, insomma, il meccanismo del fantastico sembra riprodurre i meccanismi del potere, che rendono spettrale la realtà, per smascherarli facendoli confliggere con la realtà "altra" del sacro. Ci troveremmo di fronte, in tal caso, a un tipo di fantastico che contesta l'immaginazione, nell'accezione weiliana di ciò «che colma i vuoti»;35 può sembrare un paradosso, ma non è del tutto implausibile, se si pensa all'enantiosemia dei termini "realtà" e "irrealtà" che accomuna, forse non a caso, Ortese, Masino e Morante. Ma quale realtà disvela il sacro, se quella naturale è inghiottita dall'immaginario del potere? La realtà del nulla: che per Masino, ad esempio, è il rifiuto di nascere della massaia bambina autoreclusa nel baule, per Ortese il passaggio nell'impersonale, dove non alberga soltanto una generica e rassicurante compassione per gli sventurati, ma anche la dis-umanità dell'alienazione di sé, dell'accettazione del vuoto, del consenso alla necessità del proprio annientamento.36
Come si vede, le interferenze testuali tra la trilogia fantastica e l'opera di Simone Weil coinvolgono concetti precisi, quasi idiomatici nel sistema discorsivo di entrambe e soprattutto funzionali, per Ortese, non solo all'esplicitazione del proprio pensiero ma anche all'adozione di precise strategie narrative. Quello che mi interessa, infatti, non è tanto rintracciare in Ortese i cardini teorici di una filosofia, quanto piuttosto capire come e in quale misura i cambiamenti del suo orizzonte culturale intervengano nella sua concezione e nella sua pratica del fantastico. Sotto questo aspetto, la conseguenza più vistosa dell'incontro con Simone Weil, che indurrebbe tra l'altro a posticiparlo rispetto al 1965, sembra essere il fatto che solo negli ultimi due romanzi della trilogia Ortese incrementa la componente allegorico-speculativa, e soprattutto sposta l'attenzione dall'oppresso a colui che lo riscatta: dall'Iguana a Elmina e da Elmina a Op. E solo negli ultimi due romanzi, con un'intuizione che è stavolta squisitamente letteraria, introduce le figure chiave dei testimoni di quel processo di "discreazione": il principe Neville nel Cardillo, Stella Winter in Alonso - i soli personaggi nei quali il lettore può immedesimarsi, perché sono loro a doversi fare strada tra i fantasmi dell'immaginario per aprire in se stessi il vuoto necessario alla pura attenzione,37 in un'avventura esistenziale e conoscitiva altrettanto perturbante.

 

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Giugno-dicembre 2018, n. 1-2