Stefano Calzati
Autori "Resistenti": Phillip Lopate e il Personal Essay. Riflessioni e scritti inediti

 

Scheda bibliografica Torna all'indice completo del numero Salva il frame corrente senza immagini Stampa il frame corrente Apri in formato PDF
Vai alla fine dell'articolo

 

Dalla fine degli anni Sessanta in avanti la letteratura di finzione e non di finzione americana (ma forse il discorso potrebbe essere esteso all'intero Occidente) è stata attraversata da un'ambivalenza solo in parte paradossale. Se da un lato una certa propensione narcisista della società - come ci ricorda Cristopher Lasch -1 ha trovato riflesso nell'inflazione dell'"Io" sulla pagina, così da fare della letteratura una questione quasi personale e personalistica; dall'altro lato tale inflazione è stata controbilanciata dagli effetti - sulla letteratura e sul pensiero filosofico Occidentale più in generale - del decostruzionismo, il quale ha smontato e spesso svelato l'inconsistenza ermeneutica di gran parte della suddetta propensione narcisista arrivando a sancire, forse un po' pubblicitariamente, la morte dell'istanza autoriale.2

In questo cortocircuito letterario si individuano, però, pilastri "resistenti", non tanto perché più solidi di altri, quanto perché, di fatto, per la loro granitica consistenza letteraria, si rifiutano di crollare. Tra questi si annovera lo scrittore americano Phillip Lopate,3 nei cui scritti si riscopre il fascino, la forza espressiva e l'efficacia retorica della scrittura in prima persona. Romanziere, poeta, critico cinematografico, la trentennale produzione letteraria di Lopate abbraccia generi e decadi diverse in quella che risulta, infine, una caleidoscopica attività il cui filo conduttore principale (e forse l'unico) è la soggettività stessa - corporale e testuale - dell'autore.

In particolare, è come saggista che Lopate ha offerto le prove migliori. Leggendo le sue tre raccolte di saggi personali4 (o personal essay), che riecheggiano, per i toni e la miscellanea degli argomenti trattati, gli Essais di Montaigne, ci si rende conto che ognuna di esse ripropone la mise en scene di un'ultima strenua duplice battaglia: la battaglia, da un lato, contro l'omologazione dell'individuo, spogliato, nella società gridata di oggi, della propria soggettività, intesa in senso foucaultiano come "farsi del soggetto"; e dall'altro contro l'annientamento della soggettività autoriale, declinata da Lopate in una reiterata esercitazione del giudizio personale contro il conformismo di facciata del panorama critico-editoriale odierno. Come ricorda Alfonso Berardinelli,5 il saggio è la forma letteraria della coscienza per eccellenza, giacché la sua congenita natura ibrida e sfuggevole consente all'autore di esprimersi al di fuori di quei confini retorici e di genere che altre forme riaffermano in maniera ben più decisa e decisiva al di sopra della libertà autoriale. Di conseguenza, il saggio promuove una scrittura soggettiva che non è solo desiderabile, ma in un certo senso necessaria e, di certo, avvocata dal lettore, il quale, spesso e volentieri, si avvicina al saggio con l'intenzione di conoscere l'opinione del saggista. Da qui, ovvero dalla possibilità che il saggio conferisce all'autore di aprirsi al lettore e menarlo lungo i sentieri dell'umano sentire, è proprio dove l'interesse di Lopate per il saggio personale deriva.

La relazione tra Lopate e il saggio personale potrebbe essere definita, allo stesso tempo, prolifica e dolorosa; meglio: prolifica proprio perché, in prima istanza, dolorosa. Con questo si intende riconoscere il fatto che dietro ogni saggio di Lopate si nasconde un intenso lavoro critico sia sulla società che su se stesso. Ogni raccolta si muove lungo un liminale interstizio che è simultaneamente aperto verso l'esterno - ovvero il mondo dehors - e verso l'interno - il sé autoriale. Talvolta è il primo movimento a scatenare pretestuosamente - o proustianamente - la riflessione, ma molto più spesso è il secondo (il ritratto di un familiare, la confessione di una debolezza, etc.) a rappresentare la scintilla che accende la necessità di un dialogo con il lettore. Movimenti antitetici, eppure, di necessità, speculari.

In tal senso, la pagina, oltre ad essere metaforicamente il campo di battaglia sul quale questi due movimenti si contrappongono, diviene lo specchio nel quale autore e lettore possono ritrarsi, ritrovarsi e, infine, conoscersi, sicché il saggio giunge a rappresentare una forma di speculazione euristica. E in effetti, secondo Lopate, tale forma è da considerarsi al pari di una passeggiata in compagnia del lettore, con il quale è possibile - intercettandone silenziosamente i dubbi, le perplessità, le obiezioni - condividere idee, prospettive, opinioni. Una caratterizzazione chiara è contenuta, a riguardo, nella raccolta Totally, Tenderly, Tragically:6

«Il meccanismo narrativo attivato dal saggista risponde alla domanda: "Cosa penso precisamente riguardo a X?" e non tanto "Quali sono le idee convenzionali riguardo a X che ci si aspetta che io abbia?" Non è raro che i saggisti raffigurino se stessi come uomini/donne dal ruolo superfluo, come intellettuali e letterati marginali. Il saggista ostenta orgogliosamente la confusione che è propria della mente indipendente e che annaspa per raggiungere la verità in totale isolamento. Il saggista spesso inizia confessando una personale patologia, un proprio pregiudizio o limite e poi, nel migliore dei casi, riesce ad assurgere a un livello di saggezza generale che può essere generosamente chiamato filosofia. Tuttavia, a prescindere dalle circonvoluzioni di ragionamento compiute lungo il percorso, nonché la profondità o moralità delle conclusioni raggiunte, un saggio sarà di ben poco interesse se non esibisce anche una qualche brillantezza o espressività stilistica. Non è sufficiente, per il saggista, uccidere il toro; deve farlo con molta più delicatezza del macellaio. Freschezza, onestà, auto-esposizione e autorevolezza devono tutte essere riaffermate a turno. Un saggista che produce argomentazioni magistrali e acutamente organizzate, ma che è incapace di sorprendere se stesso durante la scrittura finirà per annoiarci. Allo stesso tempo, un saggista vulnerabile e sincero, ma incapace di trasmettere autorevolezza ci apparirà, purtroppo, meramente patetico e perderà presto la nostra attenzione. È un difficile equilibrio da trovare». (pp. 281-282)

In questo lungo passaggio Lopate sintetizza la sua visione sul saggio e sul ruolo del saggista. Innanzitutto ritroviamo la concezione del saggio come forma letteraria ibrida, spuria, sfuggente e sfuggevole; una forma che si fa nell'atto stesso del dispiegarsi sulla pagina; un esercizio di cui si conoscono le premesse (le domande), ma quasi mai le conclusioni. A questo si associa la rappresentazione del saggista come un intellettuale borderline, marginale, spesso isolato, o comunque controcorrente, perché questo è proprio ciò che gli viene demandato - vedi: imposto - in primis dall'asistematico metodo investigativo del saggio e dal lettore poi. Ed è a tal proposito che Lopate sottolinea come spesso l'autore sia portato a introdurre il proprio lavoro facendo pubblicamente mea culpa per una serie di pregiudizi personali e defezioni teoriche a cui andrà incontro nel corso del suo operato, rivendicando così non solo la propria responsabile onestà nei confronti del lettore, ma anche - indirettamente - l'intrinseca soggettività del proprio lavoro. Queste idee sono riaffermate anche nell'introduzione di Portrait of my Body:

«Negli scritti in prima persona c'è un labile confine che separa ciò che è fascinoso da ciò che diventa insopportabile. Non voglio "mentire": voglio dare al lettore un'accurata testimonianza di me, senza distorcere la fondamentale natura del mio carattere. Certo, nel momento in cui un autore decide di scrivere in prima persona (e non di finzione), le distorsioni e la soggettività sono inevitabili. Ogni saggio personale, si potrebbe ben dire, è costruito tanto intorno ad un auto-inganno quanto a una verità. Il mio approccio consiste nell'ammettere in anticipo un certo grado di colpa nei confronti della verità, così da poter andare avanti con il lavoro. Siamo tutti ignoranti quando si tratta di conoscere se stessi». (p. 3)

Sebbene - o forse proprio in ragione del fatto che - la valenza gnoseologica del saggio giaccia su una sorta di auto-illusione, per Lopate è molto più importante difendere la propria fragilità di soggetto comune - in altre parole, la propria natura fallibile - piuttosto che perseguire una egocentrica riaffermazione del sé al di là del plausibile, giacché è proprio tale primordiale ammissione di umiltà ad aprire la strada ad un dialogo davvero alla pari con il lettore, ovvero un dialogo nel quale l'Io autoriale del saggista - per quanto in controllo del testo - non infici, in ultimo, i percorsi del possibile, o le indeterminate e indeterminabili conclusioni a cui la riflessione può giungere.

È da questa prospettiva che Lopate si sofferma - nel primo dei due estratti proposti - a discutere il giusto equilibrio tra stile e contenuti: l'autorialità non deve soffocare il piacere della scoperta (del lettore, ma anche dell'autore, il quale deve essere in grado di sorprendere e sorprendersi) e, all'opposto, un'eccessiva letterarietà della scrittura non deve cercare di sopperire alla mancanza di argomentazioni. Ecco, allora, che nel momento stesso in cui l'autore riafferma la propria autorità sul testo, potenzialmente egemonizzandone la condotta, non deve dimenticare di aprirsi all'Altro, poiché è solamente attraverso questa mise en perspective della propria soggettività che il saggio può effettivamente sprigionare il suo formale valore conoscitivo.

Una tale premessa conduce ora a discutere più da vicino le tre raccolte di saggi di Lopate, la prima delle quali, in ordine cronologico, è Bachelorhood: Tales of the Metropolis (1981). Come avverte l'autore nell'introduzione, «il libro affronta quattro tematiche che richiamano quattro diversi aspetti della sensibilità dell'uomo celibe: le donne e l'amore; il celibe come osservatore e voyeur peripatetico della vita urbana; il celibe e i suoi amici, sposati e non; il celibe come artista e pensatore, o procreatore accorto» (p. 2). Si tratta dunque di una collezione che ruota imprescindibilmente intorno alla condizione di celibato dell'autore e alle mille declinazioni nel quotidiano che essa comporta. Nelle pagine introduttive di Bachelorhood, Lopate coglie l'occasione per spiegare al lettore le ragioni dietro la sua decisione di adottare la forma del saggio personale, riscattandola dal sospettoso disuso in cui era piombata nel primo '900.

«Scrivendo questo libro sono stato catturato dalla magia del Personal Essay. È una forma che, ai miei occhi, ha fascino, elasticità e calore. Non so perché abbia perso la sua attrattiva per lunga parte del ventesimo secolo, ma ora sono contento di constatarne una certa rinascita con alcuni distinti esponenti del genere come John Graves e Joan Didion. Volevo unire alle voci di questa coppia sposata una prospettiva celibe». (p. 1)

Probabilmente in ragione del fatto che Bachelorhood rappresenta la prima collezione saggistica di Lopate, e certamente una sfida editoriale di non poco conto giacché si propone come una spuria ed eterogena raccolta di scritti già pubblicati su altre riviste, l'autore nutre una smaccata umiltà nei confronti al lettore, additando una sorta di ineluttabile infatuazione come causa prima della scelta di scrivere saggi personali, senza pretendere di ergersi al di sopra del lettore (non, dunque, Io-demiurgo, ma solo Io-narrante). E tuttavia, tale formale scelta viene anche immediatamente ri-legittimata da una ben precisa consapevolezza letteraria e retorica: dismettendo i panni della timidezza autoriale, Lopate descrive il saggio come una forma che ha «fascino, elasticità e calore». Mentre il primo aggettivo rivela una predilezione del tutto soggettiva, il secondo e il terzo inquadrano in maniera tranciante, eppure esaustiva, la specifica natura del saggio, come una forma ad un tempo duttile - ovvero, disponibile a trattare temi svariati e ricorrendo a svariati stili e registri - e, si potrebbe dire, affettiva. Con quest'ultimo termine mi riferisco proprio a quel calore di cui, sebbene Lopate non sviluppi ulteriormente la connotazione, il saggio si fa carico. In altre parole, il calore che il saggio sa sprigionare è nulla più dell'intimo piacere di intrattenere una conversazione à deux nella quale i partecipanti sono (o diventano) conoscenti. Calore umano, dunque, e soprattutto calore empatico laddove, è ben ricordarlo, il saggio ha la capacità di legare tra loro, per un instante indissolubile, l'autore e il lettore oltre le inevitabili differenze testuali.

Nel prosieguo dell'introduzione si manifesta un problema epistemologico che Lopate approfondirà anche in Portrait of My Body, ovvero il distacco sufficiente e necessario all'osservatore - all'uomo-saggista - per guardare lucidamente la realtà. In altri termini: qual è la giusta distanza che garantisce la messa a fuoco del tema in esame, senza per questo soffocarne le insospettabili traiettorie? La risposta che Lopate fornisce in questa circostanza è del tutto immanente alle contingenze del testo: essendo stato sposato e avendo vissuto poi diversi anni da single, «credo [di avere] le credenziali per parlare con cognizione di causa di entrambi gli aspetti» (p. 2). Tuttavia quella esposta è solo una delle soluzioni che Lopate fornirà negli anni. La questione della "giusta distanza", lungi dall'essere esclusivamente un problema di metodo o tematico, rappresenta piuttosto un vero dilemma etico-esistenziale su cui Lopate ritornerà in modo più deciso e approfondito nelle pagine introduttive alla sua ultima raccolta.

Against Joie de Vivre è la seconda collezione di saggi di Lopate. É un'opera che, pur serbandone una forte eco, si allontana dall'antecedente Bachelorhood sotto diversi aspetti e che, se analizzata con lo sguardo cronologizzato della critica, non può che apparire come la naturale anticamera di Portrait of My Body, di cui si possono ritrovare qui diversi spunti di riflessione. Ci si trova di fronte, dunque, a un'opera di "passaggio", ma che non per questo deve essere considerata di secondo piano. Anzi, proprio per il fatto di porsi in posizione transitoria (nel tempo e a livello progettuale) tra la prima e la terza raccolta, Against Joie de Vivre risulta cruciale per comprendere meglio, da un lato la rielaborazione sublimata del reale verso cui Lopate muove i propri passi di saggista, e dall'altro lato il suo approccio alla forma del saggio. Detto in altre parole, Against Joie de Vivre si presenta come un'opera ibrida, meticcia, sia a livello tematico, che a livello retorico; un'opera la cui impossibilità a essere categorizzata entro facili schemi di genere, stilistici o anche solo editoriali, simboleggia il travagliato progetto critico ed epistemologico di cui l'autore si fa carico.

L'aspetto che accomuna in maniera decisiva le tre opere è che, formale o informale che sia, scorretto o equilibrato, Lopate non viene mai meno a un senso di pudica sincerità verso se stesso e verso il lettore. La forma del saggio, ancora e sempre, è lo specchio nel quale proiettarsi e grazie al quale scorgere lucidamente i pregi e i difetti della propria persona e della società circostante. Come scrive Berardinelli a proposito dell'apparizione in Italia de L'arte di aspettare: «L'americano Phillip Lopate ci riconcilia con l'arte del 'personal essay': il ricorrere a fatti individuali per trarne conclusioni generali, a costo di sottrarsi alle mode del momento».7

Più specificamente, ciò che accomuna Against Joie de Vivre a Bachelorhood è che ogni saggio germoglia sempre dal reale/contingente e a esso rimane ancorato dall'inizio alla fine. La realtà è ciò che suscita la riflessione, ma è al tempo stesso l'orizzonte di riferimento oltre il quale l'autore non si spinge mai. Dall'altro lato, rispetto a Bachelorhood - collezione centrifuga organizzata intorno ad un unico tema, quello del celibato - Against Joie de Vivre è una raccolta centripeta che denota una frammentazione delle tematiche e delle prospettive di osservazione. Se in Bachelorhood la realtà è indagata dall'interno, in Against Joie de Vivre manca un solido epicentro attorno al quale la discussione possa arroccarsi e poi dipartire per assecondare le diverse traiettorie umorali dell'autore; all'opposto, la realtà è attaccata, qui, dall'esterno e da diversi punti di vista. Si celebra, dunque, in Against Joie de Vivre un piccolo grande ribaltamento prospettico che garantisce a Lopate una maggiore libertà - per non dire anarchia - di azione/riflessione: sbrigliatosi dell'annosa questione legata alla coerenza della raccolta, l'autore non deve più rispondere ad alcuna sovrastruttura testuale, costituendosi infine come soggetto narrante finalmente libero di offrire al lettore le proprie impressioni su qualsivoglia tematica. Ecco allora che, in ultimo, i testi proposti in Agains Joie de Vivre si (auto)identificano come roccaforti del tutto autosufficienti del pensiero lopateano, più forti del testo stesso, delle pratiche editoriali e finanche del voltar pagina, gesto meccanico di quei lettori che nella raccolta cercano un'unitaria visione d'intenti. E questo, sicuramente, è l'aspetto che accomuna più da vicino Against Joie de Vivre a Portrait of My Body: in altre parole, la piena consapevolezza dell'autore di poter affrontare qualunque argomento senza il timore di dover rendere conto - a se stesso prima che al lettore - di una immotivata eterogeneità del proprio lavoro.

In cosa, invece, Against Joie de Vivre si differenza da Portrait of My Body? Nel diverso rapporto, probabilmente, che le due raccolte intrattengono con la realtà. Come detto, Against Joie de Vivre è una raccolta che non prescinde mai dall'esperienza del quotidiano e a essa rimane sempre legata in modo indissolubile, sicché, pure in un saggio impegnato come Suicide of a Schoolteacher (Suicidio di un insegnante), che più facilmente di altri potrebbe suscitare riflessioni di ordine maggiore, l'intero svolgimento è condotto senza distaccarsi mai troppo dall'episodio di partenza. Al contrario, in Portrait of My Body la realtà è spesso solo un pretesto, il colpo di frusta a mettere in moto il flusso dei pensieri, lasciati poi liberi di raggiungere le mete più lontane e inimmaginabili a priori, ragion per cui nell'ultima raccolta il saggio tende a connotarsi come riflessione filosofica stricto sensu.

Dal momento che Against Joie de Vivre non presenta alcuna introduzione, per fornirne un'idea più concreta si analizzeranno i passaggi più interessanti del saggio Against Joie de Vivre8 che dà il titolo alla raccolta. Si è di fronte, qui, a una disincantata (e a tratti persino irritante) disamina dell'angoscia edonistica che pervade la nostra società, da cui deriva appunto il titolo dello scritto. Le critiche scagliate contro la «joie de vivre» (espressione che viene mantenuta al francese poiché, secondo Lopate, «i francesi sono i maggiori responsabili per la diffusione di un'estetica tanto allegramente compiaciuta e vanitosa», p.43), sono come dardi avvelenati che cercano di stimolare la coscienza del lettore, di metterne in discussione le apparenti certezze, ma tutto questo senza avere mai la pretesa di "insegnare" qualcosa; il problema, infatti, è semmai un altro, ovvero come arrivare ad avere un giudizio davvero critico sul mondo che ci circonda così da esserne in controllo e non più dipendenti. Lopate scrive:

«La verità è che la saggezza ha un retrogusto amaro. L'obiettivo della persona saggia non dev'essere fingere in modo ipocrita che ogni momento sia nuovo e senza precedenti, ma portare il peso dell'amarezza che l'esperienza ci instilla con la composta dignità che ci permettono le nostre forze. Per il resto tutto quello che possiamo chiedere a noi stessi è che l'amarezza non ci tolga la capacità di sorprenderci». (p. 59)

Sarebbe errato ridurre la visione delineata da Lopate in queste righe a mero pessimismo. L'intento dell'autore è piuttosto quello di decostruire alcuni capisaldi del pensiero moderno (o meglio, la rivisitazione moderna che viene fornita di riflessioni altrimenti millenarie), i quali spesso sono assimilati in modo dogmatico e acritico. È dunque il tentativo di dipanare un'etica nuova - altra, rispetto a quella corrente - attraverso la problematizzazione di quegli stili di vita che troppo spesso sono considerati aprioristicamente "giusti" o "saggi". Lopate non si scaglia tanto contro chi si gode la vita, quanto contro coloro che vogliono essere felici ad ogni costo e in ogni circostanza e fanno di questa ricerca ossessiva un vessillo della loro quotidianità: «Il malato di joie de vivre» scrive Lopate «è un incorreggibile missionario per il quale tutti vogliono esprimere sentimenti di amore per la vita nello stesso modo stereotipato» (p. 44). Ed è da questa considerazione che, in maniera quasi ineludibile, trainato da un percorso d'indagine ad un tempo sociale e personale, Lopate giunge infine ad affrontare l'ambiguo rapporto che sembra instaurarsi tra uno stile di vita forzatamente e ostentatamente edonistico e l'ombra della depressione (che pure l'autore ha attraversato nell'adolescenza come ricorda in alcuni suoi saggi):

«Per me non esiste lavoro più sfiancante che sforzarmi di andare in un luogo ameno, dove sarò costretto a restare chissà quanto e a "spassarmela". Prendersela comoda, vedere i confini della mia personalità che si allentano e dissolvono, mi suscita una spiacevole sensazione di vertigine. Non mi piacciono nemmeno i letti ad acqua. Paura di quello che Freud chiamava "sentimento oceanico", credo: diffido di qualsiasi cosa che mi faccia esitare abbastanza a lungo da toccare con mano la mia fragilità». (p. 54)

In questo passaggio si ritrova un topos ricorrente nei saggi dell'autore newyorchese, ovvero la tendenza a leggere le proprie esperienze in chiave psicoanalitica: una chiave di lettura che spesso rimane al di sotto della significazione superficiale del testo, ma che talvolta emerge per dare forza alla posizione che egli si propone di difendere. È in queste circostanze che si comprende in modo più chiaro come le interpretazioni - destabilizzanti - fornite da Lopate su determinati episodi o tendenze della società moderna non siano solamente il frutto di capricci da «intellettuale eternamente insoddisfatto», ma celino piuttosto un lungo percorso di rielaborazione individuale, prima ancora che collettiva, di cui egli è (stato) artefice. Leggere i saggi di Lopate è un po' come ricostruirne la biografia e il mosaico della personalità, un mosaico fatto di rimandi inter-testuali e intra-testuali in un crescendo di complicità tra chi legge e chi scrive, al punto che la scrittura e il testo, contornandosi di un'aura di familiarità, acquisiscono una funzione marcatamente gnoseologica del sé e del mondo. La scrittura, dunque, intesa come prassi catartica (per l'autore) ed emancipante (per il lettore). L'equilibrio, sembra suggerire Lopate, ci viene solo dalla conoscenza, nonostante sia proprio tale conoscenza, di volta in volta, a spostare i pesi esistenziali in gioco in un eterno soppesarsi e rincorrersi: «È possibile vivere sempre nell'iper-eccitazione dei sensi?», si chiede in chiusura di saggio l'autore; è possibile vivere di eterne epifanie che estendano ad libitum l'estasi? La risposta dell'autore è evidentemente (e inevitabilmente) negativa. L'estasi è l'altra faccia dell'insoddisfazione e di conseguenza questi due aspetti si presuppongono e si escludono a vicenda: volendo usare un'immagine schopenhaueriana non si può fare altro che oscillare come pendoli, godendo dei «risvegli vivificanti dell'essere», senza però perdere la fame per tutto quello che non è stato ancora raggiunto.

Portrai of My Body è l'ultima raccolta di saggi di Lopate (almeno fino ad oggi) ed è quella che chiude formalmente la trilogia iniziata con Bachelorhood. Il periodo intercorso tra l'esordio e questa pubblicazione è di quindici anni: un periodo durante il quale la confidenza di Lopate con l'arte del saggio personale è andata via via maturando, portandosi appresso una consapevolezza autoriale che si riverbera, qui, sia nelle tematiche affrontate, che nel modo - certamente più maturo - in cui la riflessione è condotta. In Portrait of My Body quasi tutti i saggi ruotano, direttamente o indirettamente, intorno a riflessioni engagé che sembrano essersi lasciate alle spalle il timore di lambire quesiti etico-esistenziali di ordine maggiore (sebbene non sempre l'autore fornisca risposte definitive). Se in Bachelorhood e Against Joie de Vivre Lopate sembrava quasi rinunciare a innalzare il livello della conversazione, rimanendo nel reame del reale, al terzo tentativo egli ha rimosso ogni remora personale, lasciando libere le proprie idee e le proprie ambizioni (di intellettuale, prima ancora che di saggista), di rincorrersi e incontrarsi.

Parallelamente, l'approccio al saggio non poteva che registrare un'impennata retorica. Il linguaggio si sublima, si raffina, si cristallizza in una forma che, pur provenendo dal dato reale, ne porta impressa solo la matrice e la trascende ben presto per avanzare nella problematizzazione di tutto ciò che riguarda l'esistenza. Lo stile, a cui si chiede lo sforzo di sostenere un impianto teorico-critico più complesso, si addensa rallentando la lettura e suscitando la sensazione di una maggiore impenetrabilità degli scritti. E non è un caso che la lunghezza dei saggi sia ben superiore in quest'ultima raccolta rispetto al passato: è il flusso di pensieri e della riflessione a imporsi sulla bi-dimensionalità pagina e non, all'opposto, la contingenza del reale a essere fotografata con impressionistica naïveté. Così come non è caso che nell'introduzione l'autore si chieda: «Cosa mi dà il diritto di pensare che la mia vita sia un esempio da prendere così seriamente? È arroganza? Egocentrismo? Sì, ma non del tutto... Bisogna ricordare che molti scrittori hanno solo la loro storia da poter raccontare (e non importa in che forma lo facciano)» (p. 1). Una lecita contro-domanda a questo dubbio potrebbe essere la seguente: è il Lopate-uomo, qui, che parla e s'interroga sul senso profondo di ciò che lo spinge a scrivere o è, invece, il Lopate-scrittore, l'ego-centrico saggista, il cui simulacro si lancia a occupare la pagina? Probabilmente - e schizofrenicamente - entrambi. Non è, infatti, (solo) uno smaccato individualismo a spingere l'autore ad arrogarsi il diritto di parlare di sé, ma piuttosto la convinzione - mai così conclamata - che nel proprio regard si fondi la possibilità di una rinnovata condivisione di valori tra sé e gli altri. Come in passato quindi ritorna la dicotomia Io-mondo, questa volta, però, rinvigorita da un'accesa consapevolezza autoriale e di responsabilità: Lopate non pretende, infatti, di parlare a nome di qualcuno o di "avere ragione", ma è disposto ad offrire le proprie - oneste - chiavi di interpretazione della realtà a chiunque sia disposto a riceverle, sostenuto in questo dalla speranza/credenza che le sue interpretazioni possano aprire una via nuova, accendere un inaspettato lumicino sulla via dell'auto-conoscenza. Ecco allora che, come una spirale, la riflessione si riavvolge su se stessa e ci ri-conduce all'eterno dilemma della "giusta distanza": «Può esistere una cosa come un caldo distacco? Quanta distanza è giusto mantenere verso se stessi? Il titolo del libro, Portrait of My Body, si riferisce proprio a questa consapevole scissione» (p. 5). In altre parole - a suggerircelo è Lopate stesso - Portrait of My Body presuppose un atto di specularità simile al gesto rituale mattutino dello stagliarci di fronte allo specchio. È importante sottolineare, tuttavia, che l'opera nasce da (e si alimenta di) una necessità non solo estetica, ma anche etica: ritrarsi, infatti, significa indagarsi, scoprirsi, e infine, ottimisticamente, conoscersi meglio, sospinti in avanti dalla volontà di una prospettiva nuova che permetta di scorgere dettagli fino a quel momento inosservati. Sicché, nonostante il ritratto sia, senza dubbio, quello dell'autore, il proposito metodologico è lanciato, come un appiglio di salvataggio nel marasma contemporaneo, soprattutto a chi legge. L'intenzione insita nel libro, volendo usare le parole di Lopate, è di uscire da quel «carapace di sé» dentro al quale inevitabilmente si ricade ogni volta che, schiavi della cieca indulgenza con la quale tendiamo ad auto-assolverci (in tal senso, l'elemento dello sguardo, come dato percettivo e prospettico da cui partire, è ricorrente n tutta la raccolta), decidiamo di accettare i nostri comportamenti senza metterli in dubbio.

Il proposito, dopotutto, deve rimanere quello di resistere per cercare, con indefessa ostinazione, di insinuarsi tra i silenzi e le pause del reale. E autore e lettore, lungi dall'essere nemici contrapposti, non possono che definirsi per mutua necessità in questa irrisolvibile contrapposizione: finché vi sarà un autore in grado di far riecheggiare la propria voce critica tra i diaframmi di una società sempre più auto-referenziale vi saranno anche lettori capaci di abbassare il livello del loro narcisistico rumore per ascoltare e prendere parte alla conversazione.

 

Precedente Successivo Scheda bibliografica Torna all'inizio dell'articolo Torna all'indice completo del numero


Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2018

<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2018-i/Calzati.html>

Giugno-dicembre 2018, n. 1-2