Laura Sciancalepore
Disposizioni

 

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Lo scarto tra ciò che crediamo di sapere e ciò che realmente sappiamo del defunto può lasciarci indifferenti, sopraffatti come siamo, in quei momenti, da infinite urgenze in bilico tra burocrazia e sentimenti. Eppure, a me non riusciva di separare tutti gli ambiti di quella dolorosa situazione, e gli effetti erano spesso grotteschi.
Avrei dovuto, negli attimi appena successivi alla dipartita, riflettere sul nostro passaggio effimero su questa Terra, lanciare un eterno riposo all'anima del trapassato, come una ciambella di salvataggio nel mare burrascoso dell'ignoto, oppure richiudermi in una freudiana negazione del lutto, in attesa di elaborare il vissuto o, al contrario, lanciarmi sul defunto, urlando e gemendo, misericordiosamente sconnessa da me stessa e dal resto del mondo. Invece no.
Anni e anni a prefigurarmi il momento solenne, l'attimo definitivo, il dolore primordiale, e scoprire che tutto finisce molto in fretta. Passi la vita ad immaginarti lunghi minuti di congedo, come i soldati che cadono nei film di John Wayne e hanno tutto il tempo di: descrivere la loro famiglia 'laggiù, nel Montana', raccomandarsi al testimone di turno di portare un messaggio ai propri cari, avvisare che sentono freddo e dopo, composti come in un dipinto di Jacques-Louis David, esalare l'ultimo respiro e bussare quindi alle porte del paradiso. Se sei fortunato, forse puoi anche scorgere i ventuno grammi di anima che evaporano verso chissà dove, dando un nuovo senso alla tua grama dimensione spirituale.
Nella realtà, nulla fu come l'avevo pensato.
La telefonata improvvisa l'avevo preventivata, come pure il corri corri al capezzale: ma erano sbagliati i tempi, le sequenze... Mi erano stati descritti gli ultimi gesti, le parole che il silenzio eterno aveva inghiottito senza tanti complimenti e che io avevo mancato solo per pochi minuti; le invocazioni più ovvie, alla mamma e alla madonna, non le avevo mai prese in considerazione, eppure furono le prescelte per il congedo. Avrei preferito che non fosse proprio il bagno di servizio l'ultima tappa della via crucis, ma questa è solo l'ennesima dimostrazione della certezza che ogni comprensibile - quanto inutile - forma di controllo della realtà, da parte di noi umani, è destinata irrimediabilmente a naufragare nei flutti più o meno amari della vita terrena.
Quando tutto era ormai finito, dopo aver cercato di rianimarla sul pavimento per interminabili minuti, l'avevano adagiata sul letto: io non c'ero. Si erano liberati della maglietta e della vestaglia da casa arancione con qualche rapido colpo di forbici. 'Un, due , tre…libera!'. No, non c'ero, però ho visto così tanti E.R. Medici in prima linea che potrei descrivere l'accaduto con una certa, buona approssimazione. La maglietta e la vestaglia fresche di bucato gliele avevo messe io il giorno prima, ora mi ritrovavo a raccoglierle insanguinate e a metterle in lavatrice, chiedendomi se era meglio il ciclo a freddo o quello a novanta gradi.
Il giorno prima non l'avevo salutata con un bacio e un abbraccio come al solito: avevo fretta di andare a riprendere il bimbo da scuola. "Ciao, ci vediamo domenica!" avevo buttato lì, già sulle scale. Sapevo che eravamo all'epilogo, ma avevo fatto di tutto per ignorarne l'evidenza, e c'ero riuscita brillantemente.
"Tra quanto arrivano?" avevo chiesto a mio fratello. "Non so, è sabato, forse ci metteranno un paio d'ore" aveva risposto da un'altra dimensione. Forse era meglio toglierle la collanina d'argento o era meglio lasciargliela al collo? E cosa avrei dovuto preparare come sudario?
Molti pianificano con largo anticipo ogni singolo passaggio del momento supremo, dall'abito al trucco: una pratica tipicamente anglosassone, ma ormai anche qui in Italia non si scherza. Noi brancolavamo in una fitta nebbia di ebeti 'non saprei'.
Tocca decidere, in quei momenti, cosa il morto deve indossare, cosa gli piacerebbe avere con sé, se è meglio allestire una camera mortuaria o tagliare corto, con quali fiori ornare bara e altare, che urna scegliere e ogni altra possibile azione cui non avresti mai dedicato un minuto di riflessione, durante il normale svolgimento della solita vita quotidiana. Insomma, non è poi così scontato arrivare anche ad una certa età e lasciare una lista dettagliata di tutto ciò che c'è da fare dopo il trapasso, vista la quantità di obblighi cui si deve ottemperare 'prima'.
La conoscevo abbastanza bene da poter decidere? La risposta mi si era rivelata subito, in tutta la sua evidenza, ed era stata un no secco, senza appello. Non che di solito non riuscissi a prevederne frasi e gesti: credo anzi di essere stata la persona che più di ogni altra ne abbia intuito pensieri ed emozioni. Eppure, sentivo che molte cose di lei mi sfuggivano e che invece sarebbero state preziose nel far fronte alle incombenze che ora mi venivano richieste dall'agenzia delle pompe funebri in partecipazione comunale, ultima depositaria delle sue spoglie.
Alla fine, optai per un lenzuolo di lino bianco col bordo ricamato a giorno, ultimo pezzo sopravvissuto del suo corredo. Un reggiseno bianco nuovissimo che le avevo comprato qualche settimana prima, mai indossato. Mutande bianche, intonse anche quelle. Fine.
L'unica altra cosa che malauguratamente mi venne in mente di fare fu mettere il suo amato metro da sarta nella bara. Non che fosse stata davvero una sarta, ma a sedici anni aveva seguito un corso di taglio, quel poco necessario per realizzare semplici abitini da casa, grembiuli e camiciole. Fino a poco tempo prima le era piaciuto confezionare tali pezzi ad uso interno, per così dire. Io ero la sua modella e alla fine toccava a me indossare le sue creazioni: ne ho ancora un cassettone pieno.
Ripensandoci, avrebbe aborrito la sola idea di avere con sé, nella bara, il nastro millimetrato di plastica gialla e azzurra che stavo arrotolando, ma in quel momento mi sembrava un gesto necessario e irrinunciabile. Sulla camera mortuaria, almeno, non avevo dubbi: non aveva amici o parenti in vita, tranne noi, e avrebbe odiato quell'esposizione postuma.
La scelta della foto fu sofferta. In mancanza di ritratti recenti, vista la sua acerrima avversione per scatti e riprese, ci buttammo sul passato. Remoto. 1974, il mio quinto compleanno: lei affetta sorridente la torta, guardando l'obiettivo. Sono sicura che non avrebbe mai immaginato, nei pochi secondi di posa, che quell'attimo sarebbe finito sulle sue foto funebri, quasi quarant'anni dopo. Di sicuro non lo pensavo io, che a cinque anni ero ancora vittima dell'infantile quanto incrollabile certezza della sua eternità.
Solo ora capisco quanti equivoci si nascondono dietro a questo ruolo, le infinite aspettative che ricadono sulle spalle di chi procrea, per convenzione o convinzione. Se dimentichi il bimbo in auto sotto al sole, per dire, l'inconscio sta cercando di comunicarti qualcosa sulla tua fallibilità, no? Quel che ai nostri avi sembrava normale, e in definitiva fuori discussione, per i genitori di oggi è inaccettabile. Probabilmente è una questione di identità sociale: una volta si attraversavano le diverse età della vita, infilandosi più o meno docilmente nei ruoli che il 'presepe meccanico' prevedeva. Ti sta bene? Ottimo. Ti sta stretto? Pazienza. Non ti sta affatto? Opzione non prevista dal sistema, almeno fino alla rivoluzione del '68.
Nel '68 mia madre aveva già un figlio e mezzo, per così dire: sarei nata poco più di un mese dopo lo sbarco sulla Luna. Giovane era giovane, anzi per i parametri attuali, quasi una bimbaminkia. Mentalità e retaggio culturale però erano quelli dell'Italia Meridionale ancora ferma più o meno a Eboli, mentre altrove i Beatles erano impegnati a fumarsi mezzo mondo e Jagger a farsene l'altra metà.
Beh, la conoscevo abbastanza da non riuscire ad immaginarla urlante ad un concerto dei Fab Four, mentre entusiasta per un live di Peppino di Capri mi sembrava più credibile. Sapevo, dai racconti delle mie zie, ormai anche loro passate a miglior vita, che pur essendo lei di natura fondamentalmente introversa e schiva, non disdegnava in gioventù degli innocenti fuori programma, per così dire, ed erano proprio questi che mi lasciavano presagire una mia impossibilità di fondo di accederne alla reale essenza.
Se mi guardavo allo specchio in un qualsiasi giorno dell'anno, eccettuate forse le feste comandate, potevo osservare una donna vestita per caso, pettinata in qualche modo, senza leziosità. Solo il giorno della mia laurea, tardiva oltre ogni limite accademico, avevo osato uno smalto rosso Ferrari: da allora, mio figlio di quattro anni, a cadenza mensile, mi ricorda con un tono di lieve rimprovero che dovrei rimetterlo ogni tanto.
Lei, invece, ha sempre tenuto al suo aspetto fisico, almeno fino alla mia età attuale. Parrucchiere tutte le settimane, manicure e pedicure fatte in casa ma impeccabili, acquisto di abiti e accessori coordinati per le buone occasioni: insomma, la ricordo sempre in ordine.
A quanto pare, da giovane non si limitava solo ad essere femminile e presentabile ma osava laddove a me non è venuto mai in mente: dalla striscia di capelli bionda, fatta con l'acqua ossigenata, ai momenti conviviali in famiglia con i guanti da passeggio. "Tuo nonno era molto severo" mi raccontò una volta una delle sue sorelle maggiori "e non sopportava che le figlie si mettessero lo smalto o si agghindassero come sciantose. Lei aveva trovato quell'espediente per coprire lo smalto. Sostenne che i guanti andavano di moda anche a tavola e che l'aveva letto su Amica!".
Misi assieme questi ricordi mentre continuavo a scartabellare tra le sue foto in bianco e nero, anche se avevamo già trovato quella candidata a rappresentarne il commiato terreno, e seppi che se avesse potuto tornare dall'oltretomba mi avrebbe abbrancato senza pietà per la scelta di quella specie di Sindone che avevo appoggiato sul tavolo, in attesa dei necrofori. Ma quali alternative avevo? Negli ultimi anni aveva indossato solo vestaglie da casa e ogni altro tentativo di proporle altro era naufragato di fronte all'impossibilità di portarla in un negozio. Non le sarebbe piaciuto nulla, e se anche qualcosa fosse stato di suo gusto probabilmente la taglia non sarebbe stata adeguata. Preferiva provare a farsi gli abiti da sola, ma le venivano sempre stretti e quindi passavano a me. E lei restava in vestaglia da casa.
Ogni tanto gettavo lo sguardo su quel letto, sul suo viso: impercettibilmente qualcosa cominciava a cambiare nei lineamenti. Ancora non mi ero abituata all'assenza del respiro, e nemmeno alla vacuità degli occhi che non avevo il coraggio di chiudere. Non mi sarei abituata a nulla, temo, e per questo decidemmo di salutarla lì, senza vederla composta nella bara qualche giorno dopo.
Lei e la morte erano due concetti che generavano un'aporia logica, nella mia mente, escludendosi reciprocamente e lasciandomi immersa in una serie di domande tra il serio e faceto cui non sapevo più dare risposte sensate. Dove si troverà adesso? Non avrei neppure saputo dire se fosse stata credente o meno, ed era un'altra di quelle tessere che mancavano al mio personalissimo puzzle dell'ultim'ora. Ma avrà bisogno di una come Jennifer Love Hewitt per passare oltre o vorrà fare tutto da sola, come al solito?
Più trascorrevano i minuti e più mi ritrovavo a sperimentare una sensazione opposta alla maggior parte della persone che si ritrovano ad affrontare la morte di una persona amata: cominciavo a credere, cioè, che dopo la morte non ci fosse nulla. Né paradiso, né inferno. Un eterno, beato, maledettissimo... niente. Lo ammetto, il purgatorio già mi sembrava meno assurdo come ipotesi di lavoro, eppure dovevo scartarlo per una serie di ragioni, non ultima la constatazione che venne confezionato più o meno ad hoc durante il concilio di Lione nel XIII secolo.
Non vi erano alla base di questa mia progressiva quanto subitanea metamorfosi verso l'ateismo motivazioni legate a banali aspettative deluse in merito a miracoli mancati. Non mi sono mai chiesta, e quanto avrei potuto farlo nel corso della mia vita, perché qualcosa di spiacevole fosse toccato proprio a me. Sempre ammesso e non concesso che, nello specifico, la spiacevolezza riguardasse me in massimo grado: le sue spoglie ancora sul letto in attesa di sistemazione, nel caldo sempre più afoso di inizio estate, mi suggerivano timidamente di no... La mia risposta ad ogni evento sfortunato occorsomi era sempre stato un semplice ed inoppugnabile "Perché non dovrebbe?". Ne discende la perfetta inutilità di ogni escatologia di tipo consolatorio: non ha senso, in questa prospettiva una giustizia ultraterrena, e neppure la speranza di un qualche risarcimento, sebbene incorporeo. Perde significato il miracolo come evento straordinario da attribuire alla misericordia divina, derubricato a semplice eccezione che conferma la regola.
Il risultato, nel mio caso, è un cristianesimo senza Cristo, fondato su due dogmi centrali: a chi tocca, tocca e vogliamoci bene, perché tanto finiremo prima o poi tutti sotto terra.
La decisione fu presa: nessun rosario ad ornare le mani, nessun brano della Bibbia da abbinare alla foto ricordo. Elaborai due frasi spontanee e semplici, in completa controtendenza con i barocchismi spesso presenti negli annunci funebri di persone della sua età, e tanti saluti alle Confessioni di Sant'Agostino, a quanto pare le più utilizzate.
Mi sembrava di essermela cavata abbastanza dignitosamente nella gestione dell'emergenza materiale del momento: su quella emotiva non potevo ancora garantire nulla, e perciò congelai eventuali a tu per tu con la mia psiche a momenti meno carichi di significato inconscio.
Ormai i necrofori erano arrivati, rapidi, efficienti. La chiusero in un sacco azzurro e la portarono via. La casa sembrò subito vuota, i ripiani dei mobili improvvisamente pieni di cose da imputare in qualche modo a lei.
Restava un'ultima decisione da prendere, sul luogo in cui avremmo collocato l'urna.
"Qui a casa, no?" aveva sentenziato mio fratello. "Eh?". Sto ancora chiedendomi cosa ne avrebbe pensato lei, soprattutto del lumino led acceso a imperituro ricordo davanti all'urna color betulla, piazzata inesorabilmente in salotto. Ogni tanto immagino che possa tornare dal nulla, avvolta nel suo lenzuolo di lino col bordo ricamato a giorno e il metro da sarta al collo, fumante di rabbia, con l'unico scopo di buttare all'aria tutto, il lumino in primis. Magari potrebbe avere più o meno diciotto anni, i guanti da passeggio e la striscia bionda fatta con l'acqua ossigenata, forse avrebbe anche voglia di raccontarmi, dopo aver placato la sua furia con la capillare distruzione del proprio altarino, com'era veramente. Sempre che anche lei lo sapesse. Sarà vero, infatti, che è una mera illusione poter interpretare correttamente il pensiero altrui, ma anche conoscere se stessi, alla faccia dell'oracolo di Delfi, non è affare per tutti.


Disposizioni per la mia dipartita:

Spendete il meno possibile. Vestitemi con il lenzuolo di lino del mio corredo. La camera mortuaria non la voglio. Se riuscite, comprate una piccola cappella al cimitero, così tornerà buona anche per voi. Fate dire una messa per me ogni tanto.
P.S. E ricordate, niente lumini! La mamma

 

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Giugno-dicembre 2014, n. 1-2