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Michele Righini
Una lettura cronotopica comparata: I Promessi Sposi e Paolina
Sommario
I. Da Renzo e Lucia a Luigi e Paolina
Dopo il giudizio ambiguo che Igino Ugo Tarchetti esprime sui Promessi Sposi nel suo saggio Idee minime sul romanzo (31 ottobre 1865), lo scrittore piemontese sembra volere fare seguire i fatti alle parole dando alle stampe, a un solo mese di distanza (30 novembre 1865) e sulla stessa Rivista minima che aveva accolto la prova saggistica, la prima puntata del suo primo romanzo, Paolina. Misteri del Coperto dei Figini, la cui pubblicazione si concluderà l'anno successivo, presto seguita dall'uscita in volume. Paolina infatti può essere letto, anche sulla scorta di quelle pagine teoriche, come un «qualcosa di molto simile ad una riscrittura o parodia (seria)» (Fedi 24) del romanzo manzoniano, stante la palese ripresa non solo degli elementi di base della trama - Paolina e Luigi, giovani operai innamorati, sono in procinto di sposarsi, ma l'arrogante marchese di B. si incapriccia della ragazza e manda a monte i loro piani - ma anche di brani che risultano citazioni più o meno criptiche dell'opera maggiore. Si veda, a riprova esplicita e indubitabile, l'"Addio monti" (Tarchetti, Paolina 287) che Anna, la madre di Paolina, recita nel momento dell'abbandono del «ridente paradiso» (281) in cui ha trascorso la giovinezza. I rapporti Tarchetti-Manzoni sono stati d'altra parte già studiati sia da Davide De Camilli che da Roberto Fedi, mentre in un'altra occasione io stesso ho imbastito un confronto fra le due opere relativamente a un aspetto che rientra in parte nel tema che toccherò oggi, cioè la rappresentazione dell'ambiente cittadino - Paolina si svolge quasi per intero a Milano - e una conseguente riflessione sulla presenza e il trattamento del cronotopo idillico (Righini 87-193). Questo nuovo contributo dovrà necessariamente riprendere alcuni episodi e concetti già trattati in quell'occasione, ma vorrebbe essere in parte un approfondimento, in parte un ampliamento "orizzontale" che includa questioni allora non toccate, a partire dall'attenzione agli aspetti temporali che in quel contesto comparivano solo lateralmente. Quello che vorrei infatti esplorare in questo intervento è più in generale l'aspetto cronotopico dei due testi, seguendo l'indicazione bachtiniana che sta alla base di Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo: la rilevazione delle strutture dei rapporti spazio-temporali su cui si fondano i romanzi offre una chiave d'accesso utile a comprenderne i significati più profondi, anche in relazione al contesto socio-culturale che li ha generati. Questo tipo di analisi, cronotopica e comparativa, mi sembra possa essere di qualche utilità soprattutto per meglio comprendere Paolina, in cui si avverte, come spesso accade nelle opere scapigliate e a differenza della straordinaria coerenza del lavoro manzoniano, una discrepanza fra l'intenzione esibita e dichiarata dall'autore - quella di scrivere un romanzo di critica sociale, in particolare per denunciare le condizioni della classe operaia - e l'effettiva realizzazione narrativa della stessa. Basti citare la dedica dell'opera di Tarchetti: «Alla santa memoria / di Celestina Dolci operaia / prostituitasi per fame / e morta / in una soffitta di via S. Cristina / l'11 gennaio 1863» (246), di cui Fedi dice che "niente [ha] direttamente a che fare con ciò che segu[e]" (16); il critico aggiunge che la dedica condensa «la natura, se non la vicenda, del romanzo» (16), ma sarebbe forse meglio dire che condensa l'intenzione, più che la natura, del testo. Il trarre alla luce gli elementi dell'organizzazione dello spazio-tempo in Paolina permette di cogliere queste contraddizioni, ma anche quelle che mi sembrano intuizioni, spesso non sviluppate fino in fondo, nella comprensione e rappresentazione di quel nuovo modo di vivere che nell'immediato post-Unità si va affermando nella più moderna metropoli italiana. Scorci significativi ma nascosti nelle pieghe di un'opera che invece nel suo risultato complessivo risulta ben lontana proprio dagli intenti di critica sociale più volte espressi anche in brani interni al testo stesso, che risultano sempre troppo didascalici, slegati come sono dallo svolgersi della trama, e improbabili quando messi in bocca a questi umili personaggi. Mi sembra non basti rilevare il pessimismo tarchettiano - Paolina, stuprata dal marchese di B., muore, presto seguita da Luigi - e leggere in questo un adeguamento alle nuove condizioni sociali che non permettono più il consolante lieto fine che secondo la visione del giovane scapigliato - e non solo, va detto - chiudeva del tutto ottimisticamente il romanzo manzoniano, mentre per contrasto nelle Idee minime si lodavano lo «scetticismo terribile», la «disperanza della virtù» che per Tarchetti rendono Guerrazzi «certamente superiore al Manzoni» (529). Non aveva colto, Tarchetti, che proprio l'«ottimismo idillico» di Renzo, che «fa il paio con il provvidenzialismo igienico ed ecologico di don Abbondio» (Nigro 153), viene irriso e quasi comicamente sconfessato da Manzoni attraverso le parole con cui Lucia confonde il marito nel momento, su cui ritorneremo, dell'enunciazione del 'sugo della storia'. Più proficuo ci sembra anticipare fin da subito il risultato finale dell'operazione tarchettiana a livello di struttura dell'opera, citando Fedi che parla di «riscrittura semplificante» (23): la complessità del testo manzoniano, la sua ricchezza di personaggi, ambientazioni, registri, ma anche riferimenti e rimandi inter e intratestuali, viene ridotta da Tarchetti - almeno (o solo) in parte volutamente - alla linearità di una trama essenziale e schematica, se non banale, con un'operazione di semplificazione che coinvolge tutti gli aspetti del testo. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma segnaliamo solo - piccola spia di quanto l'operazione sia anche coscientemente voluta - che fra le esplicite citazioni manzoniane presenti in Paolina possiamo annoverare l'ironica dichiarazione del conte di F., alter ego del conte Attilio, che afferma di poter contare su «alcuni bravi in sedicesimo» (295). Ma, di nuovo anticipando una conclusione che poi avremo modo di raggiungere attraverso la via dell'analisi, l'opposizione complessità-semplicità si traduce - sui diversi piani: spaziale, temporale e morale-sociale - in opposizioni più specifiche: quelle fra movimento e stasi, flusso e ciclicità, evoluzione e ristagno. Ma procediamo con ordine.
II. Dinamismo e complessità spaziale nei «Promessi Sposi»
Che I Promessi Sposi abbiano una struttura spaziale complessa e articolata e con una forte prevalenza di dinamismo e movimento è proposizione così generale e generica da avere ben poco valore informativo e conoscitivo. Presuppone quindi un minimo di indagine che mi sembra utile fare partire dalla separazione dei due fidanzati che si consuma nel capitolo IX, al termine dalla fuga dal paese natio. Con quel distacco iniziano i due viaggi paralleli di Renzo e Lucia. L'impossibilità di congiungersi in matrimonio, di restare sempre uniti, di far confluire metaforicamente i loro cammini di vita in un'unica strada, si concretizza in questa biforcazione dei loro percorsi reali. Pongo l'accento sulla concretizzazione di una metafora perché il fenomeno mi sembra non sia estraneo al procedimento manzoniano di costruzione di una sottile e complessa ragnatela di riferimenti interni al testo, di richiami - a volte nascosti altri più palesi, ma tali da non potere essere considerati casuali -1 che spesso vanno a interessare proprio le rappresentazioni spaziali. Nel caso specifico, colui che per un capriccio aveva fatto sì che i percorsi di vita di Renzo e Lucia non si unissero nel sacro vincolo, don Rodrigo, si ritrova scornato perché i due, fuggendo, hanno compiuto un tratto di strada fianco a fianco: «Fuggiti insieme! - gridò: - insieme» (224; cap. 11). La ripetizione della parola è spia non di gelosia, ma del dispetto per il fatto che la vicinanza e la sottintesa intimità con cui i due giovani hanno intrapreso questa prima parte del viaggio reale sembra sfidare il divieto da lui imposto alla partenza del viaggio metaforico del matrimonio. Del tutto logico quindi che Rodrigo provi poi «una scellerata allegrezza di quella separazione» (225; cap. 11) che abbiamo visto dare inizio a una nuova sezione del romanzo. Jameson rileva che lo sdoppiamento dei percorsi dei protagonisti dà luogo a «due completamente differenti modi di narrare generici che conferisce al libro del Manzoni una apparenza di larghezza di vedute e di varietà che, difficilmente, trova riscontro nel mondo della letteratura» (51). Ne nascono «due sconvolgenti romanzi» (Nigro 150), da una parte quello gotico di Lucia, dall'altra il roman d'aventures di Renzo. Raimondi aggiunge a questa notazione il dato della complessità e completezza della rappresentazione di un mondo sociale che si realizza proprio grazie a questi due itinerari, introducendo il discorso cronotopico che all'appartenenza ai due diversi generi si lega (Il romanzo 175, 337-338; La dissimulazione 33). I Promessi Sposi, grazie a questa compresenza e intreccio di generi, si configurano come una sorta di "manuale del cronotopo", di testo esemplarmente illustrativo del concetto di cronotopo e delle sue più concrete e immediatamente identificabili rappresentazioni fisiche, quelle che compaiono nelle Osservazioni conclusive del saggio di Bachtin (390-405). Oltre ad alcuni cronotopi "vissuti" da entrambi i personaggi - il lazzaretto, il paese - interessa ora individuare quelli che sono "associati" all'uno o all'altra in quanto tipici dei due generi narrativi principali individuati. Per il picaro Renzo i cronotopi strettamente correlati della strada e dell'incontro, per la fanciulla perseguitata Lucia invece quelli che indicano la reclusione e l'impossibilità di movimento: il monastero di Gertrude e il castello dell'innominato, principalmente, ma anche diverse case, con valori spesso oscillanti fra il segno positivo e quello negativo ma sempre caratterizzate da un restringimento dello spazio e da confini che, in apparenza, sono difficilmente permeabili. Fra i cronotopi comuni a Renzo e Lucia, particolare rilievo assume quello della prova da superare con coraggio e forza di volontà, tanto che per entrambi si può parlare di un Bildungsroman pur svolto in forme molto diverse, ma il cui punto iniziale (la fuga dal paese) e quello finale (più che l'incontro nel lazzaretto o il matrimonio, l'elaborazione del "sugo della storia") sono compiuti insieme, a dispetto di tutti i tentativi di don Rodrigo (ma non solo, si pensi a donna Prassede e a don Abbondio) di separare le loro strade. La prima prova necessaria alla crescita morale è proprio l'abbandono del paese. I due viaggi sono dunque una rappresentazione di quella «qualità motoria del conoscere» (Raimondi, La dissimulazione 23) che, attivata dalla curiosità e sostenuta dalla facoltà della vista - il senso della nuova scienza galileiana (Raimondi, Il romanzo 3-56) - porterà i due giovani al dialogo finale, in cui sono loro stessi a distillare gli insegnamenti tratti dalle avventure vissute. Ma, abbiamo detto, a questo approdo conclusivo si arriva per percorsi ugualmente lunghi e tortuosi ma molto diversi, soprattutto per come il narratore sceglie di rappresentarli. Quello di Renzo è un viaggio vissuto tutto all'esterno, in luoghi aperti, in cui domina la dimensione del camminare e gli episodi accadono perché sulla strada si incontrano persone, cose e avvenimenti. Il ragazzo è insofferente degli spazi chiusi e della stasi, tanto che anche nel momento del pericolo, in seguito all'evasione dalle mani dei birri, rifiuta il comodo riparo offerto dal convento di Padre Bonaventura. Le sue fermate sono funzionali al viaggio che sta compiendo, servono per riposarsi e ristorarsi in vista di un nuovo tratto di percorso. Ma dopo gli avvenimenti dell'osteria della luna piena e i discorsi orecchiati all'osteria di Gorgonzola, l'avversione per gli spazi chiusi si acuisce e nel secondo viaggio l'unico vero punto di ristoro sarà la casa dell'amico anonimo in paese. Nel momento in cui Renzo si ferma, l'interesse del narratore per lui decade e per lungo tempo viene "abbandonato" al paese del cugino Bortolo.
Il viaggio di Lucia ha lo stesso valore di crescita, di formazione e di conoscenza - è lei che enuncia il "sugo della storia", addirittura correggendo il marito - e da un punto di vista del movimento è anche più articolato di quello di Renzo, meno lineare. Ma, in maniera a lui complementare, non viene praticamente mai rappresentata dal narratore in spazi esterni e in viaggio. Complementarità e perfetta simmetria: la ragazza ha per la strada lo stesso terrore che il suo fidanzato dimostra per gli spazi chiusi: «dopo quell'incontro, le strade mi facevan tanta paura... » (48; cap. 3) dice Lucia, liquidando così due cronotopi in un colpo solo. Da quel momento non solo la giovane farà di tutto per non dovere uscire all'aria aperta, ma anche quando si trova - almeno apparentemente - al sicuro in luoghi chiusi, cercherà di segregarsi ulteriormente scomparendo alla vista delle persone. Il riferimento è sia al soggiorno al convento di Monza, sia al breve periodo trascorso in casa del sarto dopo la liberazione dall'innominato. Un esempio di come la struttura dei riferimenti interni al testo sia molto articolata e complessa, visto che i due episodi non solo si richiamano l'uno con l'altro, ma anticipano anche, per contrasto, quello che succederà nell'ultimo capitolo, nel paese in cui i due neosposi si sono trasferiti: Lucia, non più rinchiusa ma esposta agli sguardi di tutti, verrà giudicata inferiore alle attese dai nuovi compaesani. Questo sarà causa del malcontento di Renzo e del nuovo "trasloco" che chiude il romanzo. Vedremo altri di questi rimandi fra un punto e l'altro del testo giocati su strutture spaziali, per ora torniamo al terrore della giovane per lo spazio aperto, giustificato non solo dall'incontro con don Rodrigo che mette in moto la storia ma anche, a posteriori, da altre brutte esperienze vissute sulla strada, a partire dall'imboscata tesagli dal Nibbio e compagni. Episodio che ci consente di notare che anche nei pochi casi in cui Lucia viene mostrata in movimento, è sempre ben chiusa in un mezzo di trasporto e la sua visione dell'esterno è molto limitata se non impedita: la carrozza con cui viene trasportata al castello dell'innominato è una sorta di prigione in movimento, ma anche nella lettiga con cui ridiscende a valle, la buona donna ha «subito tirate le tendine» (450; cap. 24) - perché nessuno veda Lucia certamente, ma forse ancora più perché lei non veda quel paesaggio selvatico. Afferma Michelle Perrot: «Ci sono innanzitutto le 'nicchie' private negli spazi pubblici: boschetti o panchine nei parchi, salette dei ristoranti, angoli appartati dei caffè, palchi dei teatri, carrozze [...] : luoghi riservati o nascosti destinati ai segreti di gruppo o di coppia. Ma non è sempre facile sottrarsi allo sguardo altrui» (496). Non mi sfugge che le attività a cui i personaggi del romanzo ottocentesco si dedicano in queste nicchie sono decisamente poco attinenti col personaggio di Lucia... Ma mi interessa qui rilevare che i mezzi di trasporto rientrano nell'insieme di quegli "spazi" (oggetti che creano uno spazio, potremmo dire) che mantengono sempre questa sorta di statuto misto fra privato e pubblico, fra messa in mostra di sé - la passeggiata nobiliare in carrozza - e desiderio di sfuggire lo sguardo degli altri pur trovandosi in contesti di condivisione sociale come la strada. Un altro elemento accomuna i viaggi di andata e ritorno dal castello dell'Innominato: a un certo punto Lucia "sospende" le proprie facoltà sensoriali, perdendo i sensi o assopendosi, e si lascia andare sul fondo del mezzo di trasporto. Non vuole vivere il momento del viaggio, non vuole vedere quello che succede, distoglie lo sguardo come fa il narratore: «Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle [le angosce di Lucia durante il viaggio coi bravi] più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr'ore [...] Trasportiamoci al castello dove l'infelice era aspettata» (389; cap. 20). Un atteggiamento che il lettore ha già riscontrato - ma questa volta solo da parte del personaggio, non del narratore che invece aveva assunto su di sé il compito di esplicitare i pensieri dell'«infelice» - nel più significativo (e quasi unico) tratto di percorso che Lucia compie veramente allo scoperto, cioè il passaggio dell'Adda che dà origine all'"Addio monti" nel capitolo VIII. Infatti, dopo che in un primo momento ha osservato lo spazio circostante, nella seconda parte dell'episodio Lucia sceglie di non guardare più ciò che le sta intorno. Nasconde il viso nel braccio e dà libero sfogo alle lacrime e ai pensieri, tutti indirizzati all'angoscia per l'abbandono del paese.2 I viaggi di Renzo invece sono per grandissima parte osservati attraverso i suoi stessi occhi. Un'«avventura ottica e acustica» è quella del giovane, attraverso la quale «scopre anche se stesso» (Raimondi, La dissimulazione 29) e in cui il senso della vista - vi abbiamo già accennato - è quello che più di tutti serve alla comprensione di una realtà oggettiva, dei fatti reali, coerentemente con l'atteggiamento sperimentale che fra Cinque e Seicento si sta affermando nelle scienze naturali. Entrambi i fidanzati mettono in atto lo stesso atteggiamento di osservazione e conoscenza ma solo all'interno degli ambienti a loro più congeniali, delle strutture spaziali nelle quali si trovano a proprio agio: la strada per lui, gli spazi chiusi per lei. Raimondi infatti cita l'episodio di Lucia prigioniera dell'innominato come primo (se non in senso strettamente cronologico, da un punto di vista dell'esemplarità) esempio di trasposizione nella letteratura italiana di questo «sentimento dinamico del reale» (Il romanzo 54) nato all'interno del campo scientifico e che grazie alla facoltà visiva, e più in generale al diffondersi della luce sugli oggetti, permette di trasformare un evento reale e fisico in un sentimento morale. Durante la notte che Lucia trascorre al castellaccio, dopo un primo momento di oscillazione fra il pensiero razionale e il delirio di incubi popolati da fantasmi, la giovane prova «il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché» (Manzoni 403; cap. 21). Tende l'orecchio ma coglie solo il russare della vecchia. Poi finalmente spalanca gli occhi fino a quando il debole e oscillante lumino della lucerna le permette di riconoscere il luogo, di ricapitolare quanto era successo, di superare il primo desiderio di morte e infine di recuperare l'unica ancora di salvezza per non cedere al terrore e all'irrazionalità, la preghiera. Da questa al voto di castità il passo è breve e conduce finalmente a un sonno sereno. Per concludere: non solo il narratore "va a prendere" i due personaggi nei luoghi a loro più congeniali, ma gli stessi personaggi "scelgono" questi stessi luoghi per portare a compimento i propri momenti di crescita.
Non sorprende quindi che al momento di trarre le conclusioni di quanto hanno imparato durante le loro peripezie, Renzo e Lucia propongano una riflessione di tipo spaziale ripresentando la dicotomia fra movimento e stasi, aperto e chiuso. Il primo sembra volere rinnegare quella curiosità che sempre lo ha spinto ad andare, a "cacciarsi" nei tumulti; ma la moglie gli fa notare che il suo continuo rinchiudersi non la ha preservata dalle disgrazie: «Io non sono andata a cercare i guai: sono loro che son venuti a cercar me» (745; cap. 38). A dire che la conoscenza, la crescita può avvenire soltanto da un'esperienza totale, senza pregiudizi e idee preconcette, da un viaggio che metta insieme l'andare e il fermarsi, il dentro e il fuori. Un'esperienza che deve toccare tutti gli ambienti e quindi non può essere ostacolata da confini insormontabili.
III. Confini, barriere, soglie
Proprio la costante presenza di confini che anche quando si presentano rigidi, escludenti e limitanti, sono in realtà soglie, linee di passaggio, varchi che vengono oltrepassati - volontariamente o meno, coscientemente o meno - mi sembra un altro dato che caratterizza il romanzo manzoniano e lo distingue da quello che invece scriverà Tarchetti.
In altra occasione ho io stesso mostrato la facilità con cui Renzo entra ed esce da Milano (122-124) e la moltitudine di "case violate" presenti nel romanzo offre un ulteriore campionario della labilità di porte, catenacci, paletti, imposte, sottoposti a costante forzatura e pressione. Il percorso di Lucia conferma la permeabilità dei confini, di barriere che sembrano insormontabili ma vengono costantemente superate: o perché l'inganno e l'autorità la costringono a interrompere la clausura o perché è lei stessa che costringe il proprio carceriere a liberarla. Lo stesso lazzaretto, luogo di reclusione per statuto, presenta interessanti aspetti nella relazione fra dentro e fuori, sia per i personaggi principali che più in generale per le persone lì accolte (Righini 126-129).
Nei Promessi Sposi lo sconfinamento è sempre decisivo perché determina un cambiamento, ma è anche reversibile, perché il confine può sempre essere - e di solito è - oltrepassato di nuovo in senso contrario, senza tuttavia che questo significhi un ritorno alla condizione originaria. Si veda l'esempio dell'abbandono del paese, o più genericamente del territorio familiare. Il romanzo mostra più volte i personaggi mentre lasciano i propri luoghi di nascita. Nelle prime due occasioni in cui questo accade - l'"Addio monti" e il passaggio dell'Adda da parte di Renzo in fuga - il turbamento rende i pensieri tumultuosi e confusi, tanto che in entrambi i casi è il narratore che si incarica di esprimerli per conto dei personaggi. Sono episodi in cui, direbbe Bachtin, si ritrova un «alto grado di intensità valutativo-emozionale» (Le forme del tempo 390), come d'altra parte ci si aspetta che succeda nella vicinanza di un cronotopo - la soglia, il confine da superare - che determina sempre una «svolta nella vita», una «crisi», una «decisione che muta il corso di un'esistenza« (396). Cosa che effettivamente accade ai personaggi. Nel corso del romanzo però Renzo e Lucia si trovano a dare l'addio al loro paese almeno altre tre volte. La prima quando la ragazza si reca presso la casa di donna Prassede. L'addio con la madre non è certo senza emozione, ma sull'angoscia dell'ignoto prevale ormai la rassegnazione a partire, quasi un'abitudine che sta diventando necessità, in cui si mescolano la nostalgia e la rabbia verso il paese. Renzo poi si trova non solo a ripassare l'Adda più volte in entrambi i sensi - e proprio il fiume ribadisce la «doppia funzione» del confine, in quanto «ripartisce il territorio e nello stesso tempo funge da collegamento» (Marsciani 80) - ma anche a lasciare il paese, forse definitivamente, dopo avere trascorso la notte ospite dell'amico anonimo. In questo caso il pensiero del giovane è tutto rivolto allo scopo del suo viaggio, al ritrovare Lucia, senza la quale quel luogo ha perso ogni interesse. Infine l'ultima partenza, quella che segue il matrimonio. Vale la pena leggere un po' diffusamente:
«Chi domandasse se non ci fu anche del dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne; ce ne fu sicuro: ché del dolore, ce n'è, sto per dire, un po' per tutto. Bisogna però che non fosse molto forte, giacché avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand'inciampi, don Rodrigo e il bando, eran levati. Ma, già da qualche tempo, erano avvezzi tutt'e tre a riguardar come loro il paese dove andavano». (742; cap. 38)
Ormai la scelta di partire è pienamente consapevole e volontaria. Lo sconfinamento, a causa della reiterazione di situazioni simili, perde intensità emozionale - per i personaggi ma anche per il lettore - diventando un fatto serenamente accettabile e accettato.
Il confine, la linea di demarcazione fra due spazi, la separazione fra dentro e fuori, è quindi nei Promessi Sposi un cronotopo fondamentale, molto frequente e portatore di senso e significato, ma allo stesso è presentato e riletto in modalità variabili e non schematiche, e più che barriera insuperabile è soglia permeabile per chi abbia desiderio di vedere cosa si trova dall'altra parte. Una concretizzazione di un atteggiamento, di un mondo morale che è mosso dalla curiosità e stabilisce proprio quella «larghezza di vedute e di varietà» (51) che è per Jameson il tratto più caratterizzante del romanzo manzoniano. E dal momento che il discorso del critico americano è legato alla struttura dell'opera, ci piace accennare a come questa stessa permeabilità dei confini la si possa ritrovare anche nella composizione che Manzoni ha voluto dare al testo.
Bachtin sottolinea che l'analisi cronotopica delle opere deve prendere in considerazione «sia i cronotopi del mondo raffigurato, sia quelli dei lettori e dei creatori delle opere» (Le forme del tempo 402), la vita dei quali si svolge nel mondo reale. Il cronotopo del romanziere e dei suoi lettori prevede specifiche e prevedibili condizioni di fruizione del testo e in funzione di queste il testo stesso viene organizzato anche in previsione delle relazioni spazio-temporali che si realizzeranno durante l'attività della lettura. Da qui l'attenzione posta dall'autore a momenti particolarmente significativi del testo, l'inizio e la fine naturalmente, ma anche - e forse ancora di più - i confini interni come i passaggi fra un capitolo e l'altro o altre forme di scansione del testo.3 Come si sa, il confine fra i capitoli VIII e IX segna l'inizio di una seconda sezione dell'opera, quella del primo viaggio di Renzo e dei numerosi spostamenti di Lucia, da Monza a casa di Donna Prassede, fino a quel capitolo XXVII che si chiude con la più ampia ellissi del romanzo e che conduce la vicenda «all'autunno del seguente anno 1629» (Manzoni 525). Dei primi otto capitoli, da un punto di vista spazio-temporale, non si può non notare l'estrema concentrazione: nel giro di pochi giorni e in un territorio molto limitato, sia in senso assoluto sia in relazione a quello che si incontrerà procedendo nella lettura, si verificano una serie di episodi così ravvicinati e concitati da creare un forte contrasto fra il paesaggio paesano - fatto di vita misera e abitudini secolari, di limitatezza di vedute e movimenti - e una vicenda che invece fin da subito si caratterizza per una gran quantità di «andate e venute» (Manzoni 64; cap. 3). I primi capitoli dunque non contrastano con quelli successivi sul filo dell'opposizione fra stasi e movimento, anzi proprio in questa "sezione paesana" vengono anticipate da Manzoni alcune relazioni dinamiche che diventeranno fondamentali nel prosieguo dell'opera. Il confine fra capitolo VIII e IX mantiene quindi valore di scansione interna all'opera, ma senza che questo segni una cesura non ricomponibile fra le diverse parti; anzi una fitta rete di rimandi - a noi interessano ora quelli spazio-temporali, ma gli esempi potrebbero estendersi ad altri campi di esplorazione - cuce insieme le varie parti, formando una rete la cui trama crea un "ponte sull'Adda" anche dal punto di vista strutturale-stilistico. Mancando il tempo di vedere più di una di queste relazioni, vediamo solo quella che più ha il pregio di essere esemplare e rapida.
Il punto di riferimento "paesano" (siamo nel capitolo VII) è la raccomandazione che Agnese fa al giovane Menico quando lo manda al convento di Pescarenico per attendere notizie da padre Cristoforo.
«- Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con de' compagni, al lago, a veder pescare, né a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, né a far quell'altro tuo giochetto solito...
[…]
- Poh! zia; non son poi un ragazzo.
- Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta... guarda; queste due belle parpagliole nuove son per te». (123-124; cap. 7)
Menico dimostra di essere responsabile e giudizioso, visto che il suo intervento salva Lucia dalle grinfie dei bravi e la indirizza sulla via della fuga insieme al fidanzato e alla madre. Quello stesso «giudizio» non lo dimostrerà invece Renzo quando si troverà in una situazione che riproduce esattamente quella qui descritta da Agnese, cioè all'arrivo al convento di padre Bonaventura a Milano nel capitolo IX. Si veda il perfetto parallelismo: il personaggio arriva a un convento, chiede di un frate, gli viene detto che questo non c'è e quindi deve aspettare. Ma Renzo è più «ragazzo» di Menico, non sa resistere alla curiosità e decide di «dar prima un'altra occhiata al tumulto» (236; cap. 11). Quindi, letteralmente, si svia, come aveva detto Agnese a Menico, sceglie un percorso diverso da quello che il saggio padre Cristoforo aveva disegnato per lui. Questo è l'inizio dell'avventura urbana di Renzo, il momento in cui rinuncia al quadro a lui familiare - un convento e una chiesa -4 per gettarsi nel vortice di un'esperienza dolorosa ma formativa. Le parole di Agnese nel capitolo VII dunque possono essere lette come una vera e propria profezia di quello che accadrà più avanti. Casi simili costellano i primi otto capitoli, formando così quella complessa rete di rimandi che ci permette di cogliere, anche dal punto di vista della struttura testuale, non tanto un indebolimento dei confini quanto una loro rilettura in un senso meno rigido e schematico.
Proprio la rigidità dei confini, il loro diventare muri, barriere, limiti invalicabili, è invece una caratteristica rilevante in Paolina. Il romanzo di Tarchetti presenta per la gran parte ambientazioni chiuse: le case dei due giovani innamorati, il laboratorio dove lavora Paolina, i due palazzi del marchese di B., il Teatro alla Scala, fino all'estremo claustrofobico del carcere in cui viene rinchiuso Luigi. Gli episodi che si svolgono all'aria aperta sono pochi e in un caso, quello del flash-back in cui Anna, madre di Paolina, racconta la propria infanzia, si parla di un ambiente naturale la cui caratteristica topografica principale è di avere confini rigidamente delimitati.
La narrazione prende il via proprio dall'appartamento in cui vive Paolina, o meglio dalla sua distruzione. Nella prima scena del romanzo infatti il narratore si trova ad assistere all'abbattimento del Coperto dei Figini, un "casone" rinascimentale milanese che viene demolito per creare una scenografia dominata dal Duomo.5 Questa visione suscita nel narratore il ricordo della storia dell'amore infelice dei due giovani, che gli era stata raccontata dalla sorella di Luigi, Marianna. Siamo nel «giugno 1864», gli eventi si sono svolti «quattro anni prima» e sono stati raccontati al narratore l'anno precedente, nell'«autunno del 1863» (Tarchetti, Paolina 249, 253, 375). Nonostante l'oggetto di attenzione - un palazzo la cui demolizione fu da molti osteggiata proprio perché la si vedeva come una cancellazione dell'identità storica di Milano - il recupero memoriale si concentra su tempi stretti, coerenti con il rifiuto della Storia - e quindi del romanzo storico - teorizzato dall'autore nelle Idee minime sul romanzo. Primo saggio di un "restringimento" che si collega al movimento di semplificazione dell'ipotesto manzoniano a cui abbiamo accennato all'inizio e che coinvolge anche l'oggetto di "studio": non più i grandi eventi della Storia ma i piccoli episodi delle vite comuni. Anche l'attenzione riflessiva del narratore in queste prime pagine abbandona presto la polemica urbanistica e le questioni di interesse pubblico, facendosi attrarre invece dalla dimensione intima del casone, dalle povere reliquie delle misere vite degli ultimi abitanti del Coperto. Un mondo privato «convertito improvvisamente in palcoscenico» (Roda 69) a causa dello sventramento causato dalla demolizione che ha cancellato la «quarta parete».
IV. Tempo storico e tempo ciclico
Quindi, per quanto riguarda Paolina: prevalenza di spazi chiusi e intimi e contrazione temporale.
Se sul primo aspetto il confronto con I Promessi Sposi è implicito in quanto detto finora, dal punto di vista temporale vale la pena tornare brevemente sui nostri passi. Quello di Manzoni è un romanzo storico, dato meno banale di quanto sembri6 ma da cui possiamo ragionevolmente partire per mettere in campo le due questioni che qui ci interessano in quanto riguardano la struttura temporale del romanzo. La prima, per dirla con Manzoni, è l'intrecciarsi della storia «de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi» con quella delle «gente meccaniche, e di piccol affare» (I Promessi Sposi 5-6),7 tema che solo in parte si sovrappone alla commistione «di storia e d'invenzione» che per l'autore di Del romanzo storico è la caratteristica primaria - e il punto critico - dei generi storico-narrativi. La seconda questione è invece il rapporto fra l'epoca rappresentata e quella in cui lo scrittore vive.8 Manzoni - e questo non vale per tutti i romanzi storici, ma diventerà un modello spesso seguito da chi adotterà il genere in Italia - costantemente ripropone il confronto tra presente e passato, sottolineandone continuità, somiglianze, differenze più o meno marcate. Fra i temi su cui maggiormente si appunta questa attenzione diacronica, sta proprio il cambiamento subito dai luoghi nei secoli trascorsi fra il tempo della storia e quello della scrittura. Sarebbe anzi meglio dire ri-scrittura ottocentesca, tenendo conto del supposto manoscritto seicentesco che raccontava la storia a breve distanza cronologica dal suo svolgimento e che per questo non necessitava di queste informazioni aggiuntive, che quindi - se si accetta fino in fondo il "gioco" manzoniano di rifrazione su diversi piani temporali dell'atto della scrittura - sono da considerare interpolazioni completamente sue al testo dell'Anonimo. In questi brani si vede dunque messa in pratica la dicotomia teorizzata in Del romanzo storico fra «esperienza» della realtà narrata - quella che potevano avere gli ipotetici lettori del manoscritto seicentesco, e ancora più gli ascoltatori del racconto più volte ripetuto da Renzo, contemporanei o quasi delle vicende - e «informazione» (1209-1210) sulla realtà narrata che invece il narratore ottocentesco deve continuamente fornire ai suoi venticinque lettori per permettere loro la piena comprensione del testo, e che spesso diventa commento non solo sulle due epoche storiche - il Seicento della vicenda e della prima stesura e l'Ottocento della ri-scrittura - ma anche sull'atto stesso della ri-scrittura. Queste notazioni d'autore, con la ricordata attenzione allo spazio in cui le vicende si svolgono, assumono quindi spesso anche valore cronotopico e con la loro varietà fatta di mutazioni radicali, trasformazioni più o meno consistenti, sopravvivenze a distanza di secoli, non segnalano un distacco fra i due piani temporali e allo stesso tempo non indicano ciclicità, ritorno del già visto. Inseriscono invece luoghi, cose e persone all'interno dell'ininterrotto fluire del tempo storico che non trova, di nuovo, dighe e argini.
Questo stesso "sentimento del tempo" lo si avverte se ci si concentra sull'intrecciarsi fra la linea cronologica dei grandi eventi e quella della vita privata. È possibile individuare i due momenti del romanzo in cui queste dimensioni temporali si incontrano e poi si allontanano; fra questi due punti sta il segmento temporal-testuale in cui gli eventi storico-sociali collettivi influenzano direttamente la dimensione privata della vita di questi poveri contadini. Il momento in cui questo "abbraccio" si scioglie - partiamo da questo perché più facilmente identificabile - si ha quando Renzo esce dal lazzaretto: la vicenda personale dei due giovani può avviarsi verso l'agognato matrimonio e allo stesso tempo la pioggia purificatrice si porta via la peste con sollievo collettivo. Da questo momento i casi dei due tornano ad essere privati, e anche l'ultimo colpo di scopa della peste - la morte di don Rodrigo - è solo l'estremo lasciapassare per la conclusione della vicenda matrimoniale.
La storia di Renzo si era invece intrecciata con la Storia collettiva durante il suo primo viaggio a Milano ed è interessante notare come Manzoni descriva questo momento nei termini di un incontro fra il giovane e la folla, cioè attraverso un cronotopo la cui caratteristica principale è per Bachtin quella perfetta coincidenza spazio-temporale che lo stesso racconto manzoniano evidenzia in maniera esemplare. Dice Bachtin nel saggio sul cronotopo: «In ogni incontro […] la determinazione temporale ("in uno stesso tempo") è inseparabile dalla determinazione spaziale ("in uno stesso luogo")» (244). Ed ecco cosa accade a Renzo, che è già entrato in città e ha già superato il convento di padre Bonaventura, sconfinamento su cui si chiude il capitolo XI. Quello successivo abbandona il giovane per riassumere le vicende della carestia. Un riassunto che prima prende in considerazione gli aspetti più generali che hanno portato negli ultimi due anni alla situazione di crisi, poi - avvicinandosi al punto temporale in cui è stato "lasciato" Renzo - inizia a rallentare e a focalizzarsi sui movimenti della folla. Tempo e spazio si fanno gradualmente più precisi, più dettagliati e in maniera quasi naturale e inevitabile i due percorsi spazio-temporali - quello del giovane e quello della carestia "incarnata" nei rivoltosi in tumulto - si incontrano e si fondono insieme:
«A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s'avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi». (247; cap. 12)
Da una parte Renzo, dall'altra la folla di cui il giovane inizia a cogliere i discorsi lungo la strada, fino a quando non arriva «finalmente davanti a quel forno» (248; cap. 12). A questo punto il tempo personale e quello collettivo, la dimensione privata e quella pubblica, si sono fusi e continueranno a viaggiare intrecciandosi fino all'uscita dal lazzaretto.
Ma se nel segmento ora delineato l'intreccio è palese e ha forte influenza sui destini personali dei due giovani, ciò non significa che prima e dopo il loro tempo privato sia separato dal flusso del divenire storico e sociale. Si vedano per esempio i riferimenti all'emigrazione che costellano tutto il romanzo, configurandosi da subito come un aspetto economico collettivo che soprattutto nel finale mostra che i due giovani si inseriscono in una storia più ampia di loro. Proprio la vicenda matrimoniale infatti, l'aspetto più privato del racconto, rientra in un generale "risveglio" sociale che segue quei due anni di disgrazie ininterrotte e che si manifesta, guarda caso, con una crescita esponenziale dei matrimoni. Dal matrimonio ai figli, la storia si chiude con un «rimando al futuro» (Raimondi, La dissimulazione 79) che si esplica in quella «ricerca incompiuta» (Raimondi, Il romanzo 173-189)9 messa in moto dalle riflessioni finali dei due sposi ormai maturi. Il testo quindi ci sembra esemplifichi le caratteristiche temporali che Bachtin dice essere proprie del romanzo moderno e che lo distinguono dall'epos, fra cui questa capacità di essere «in contatto con l'elemento dell'incompiuto presente» e quindi di evitare il rischio di «cristallizzarsi» (Epos e romanzo 468).
Lo sguardo che Tarchetti getta sul futuro è invece altrettanto limitato del recupero temporale compiuto alla vista della demolizione del Coperto. Paolina muore alla fine del racconto e i suoi due giovani compagni non gli sopravvivranno a lungo. L'orizzonte temporale della storia è limitato, non permette nessuno sguardo in avanti. I confini temporali, come quelli spaziali, sono fissati e invalicabili. Ci sono momenti di rimembranza, in particolare quando Luigi e Marianna ricordano la vita da vagabondi che conducevano nelle campagne prima di trasferirsi in città, ma il passato è sempre un tempo idealizzato e irrecuperabile, in cui si viveva in uno stato di perfetta comunione con la natura. Il contatto con la modernità cittadina, la rottura dei confini di quei paradisi naturali dell'infanzia, ha spezzato l'idillio in maniera irreversibile. Qui il confine è una barriera che separa rigidamente due mondi e una volta che lo si è valicato non è più possibile effettuare il percorso a ritroso, né per tornare alla situazione precedente né per rientrare in quello spazio cambiati. E il tempo non è il fluire della storia, passato e presente non si toccano, una frattura li ha divisi irreparabilmente. Il breve frammento di tempo narrato nel romanzo però non è un segmento irrelato come potrebbe fare pensare la rigida scansione che abbiamo messo in luce, ma l'ultima parte di un ciclo temporale che si ripete sempre uguale. La storia della madre di Paolina, Anna, ci dà un'indicazione decisiva. Nella lettera che lascia alla figlia poco prima di morire, la donna esprime il desiderio che quelle pagine possano insegnarle «a conoscere il cuore degli uomini, e a difenderti dai raggiri della società» (289). E poche righe dopo aggiunge: «Oh mia figlia! Tu sei bella: [...] la tua virtù avrà molto a lottare contro la seduzione, ma non ti gioverà a nulla il mio esempio?» (289). No, l'insegnamento e l'esempio non avranno alcun effetto, perché Paolina non solo cadrà vittima dell'inganno di un seduttore, ma questo seduttore è il suo stesso padre, cioè colui che aveva portato alla morte Anna. Ma c'è di più. Quando il racconto si avvia alla fine il narratore - uscendo dal cimitero del Gentilino in cui ha visitato la tomba di Paolina - vede e sente il marchese di B. e il conte di F. discutere di un nuovo intrigo amoroso e di una scommessa ad esso legata. Il ciclo è già ricominciato, tutto si ripete in maniera inesorabile, non vi è possibilità di sviluppo o di mutazione. Più volte vengono riprese nel romanzo due opposte "catene logiche": mattino - primavera - infanzia - rinascita/gioia si contrappone a sera - inverno - vecchiaia - morte/lutto. I riferimenti temporali di scala diversa ma di uguale struttura ciclica (il giorno, l'anno solare, la vita umana) conducono ai sentimenti corrispondenti ai momenti estremi del ciclo stesso. Il segmento raccontato nel romanzo è quello finale, che si conclude, inevitabilmente, con la morte. La ciclicità nell'analisi bachtiniana è propria del cronotopo idillico ed è l'unica caratteristica negativa del tempo folclorico:
«Tutte queste peculiarità del tempo folclorico possono essere qualificate come provviste di valore positivo. Ma l'ultima sua peculiarità, il carattere ciclico, è una peculiarità negativa che ne limita la forza e la produttività ideologica. L'impronta della ciclicità e della ripetibilità ciclica è su tutti gli eventi di questo tipo. Perciò la crescita non diventa qui autentico divenire». (Le forme del tempo 357)10
Solo questo rimane in Paolina della vagheggiata comunione con la natura: il ristagno di una condizione senza via d'uscita. Va però aggiunto che questa negatività è espressa da Bachtin solo in queste poche righe, mentre nelle pagine precedenti la ciclicità - pur non direttamente chiamata in causa - era stata letta in chiave positiva: la morte nel tempo folclorico era «percepita come semina» e il corso del tempo segnava «la crescita non solo quantitativa, ma anche qualitativa» (355).11 La morte quindi era solo un momento di passaggio necessario: «si muore per nascere in seguito meglio e di più» (Bachtin, L'opera di Rabelais 26). In Paolina invece il ciclo temporale ricomincia sempre dallo stesso punto di partenza di quello precedente, non c'è avanzamento, crescita, formazione. La morte quindi è la fine di tutto, non getta un seme di cui raccogliere i frutti.
V. L'individuo e l'intérieur
Il romanzo sociale di Tarchetti dunque, al di là dei confusi proclami rivoluzionari in difesa degli operai di Marianna - e del narratore - e di una trama che sconfessa le intenzioni dichiarate, recupera una struttura temporale tipica di un mondo naturale precedente alla nascita delle classi sociali post-industriali, che però, completamente negativizzata, diviene una dimensione di cristallizzazione e immutabilità che sancisce di fatto proprio l'impossibilità di andare ad agire sulle storture del mondo moderno. La vicenda alla fine risulta infatti completamente slegata da questioni sociali e mette in scena piuttosto una tradizionale sventura della virtù, un poco realistico contrasto fra il Bene perfetto e il Male assoluto in cui l'appartenenza di classe poco conta. Il marchese di B. è nobile, non appartiene alla classe borghese e industriale e quindi non è uno degli sfruttatori del lavoro altrui contro i quali Marianna lancia i propri strali. Paolina è quindi figlia di nobile, ma questo poco conta. Conta di più il fatto che la situazione economica sua e di Luigi è piuttosto agiata, dal momento che la ragazza può permettersi anche di rinunciare al lavoro quando il laboratorio di madama Gioconda si fa pericoloso per la sua virtù. Inoltre aspetta un'eredità che permetterà a Luigi di avviare una propria officina, quindi di diventare un piccolo borghese, un artigiano padrone sì del proprio lavoro, ma potenzialmente a sua volta sfruttatore di meno fortunati operai. Si ripropone in queste contraddizioni la difficoltà scapigliata non solo nell'offrire soluzioni positive alle questioni sociali programmaticamente, e a volte confusamente, individuate e denunciate, ma anche a tradurle in efficaci meccanismi narrativi.12 Quello che si prospetta nel romanzo è dunque solo un banale e generico rimpianto di una perduta Età dell'Oro che, ancora per dirla con Bachtin ma a conferma di quanto accennato in precedenza, tramite il meccanismo dell'«inversione storica» (Le forme del tempo 294)13 svaluta il futuro, identificando il fine da raggiungere in un momento che fa parte di un passato che però non è storia ma mito.
Un'ulteriore riflessione sulla ciclicità temporale mi sembra però che possa mettere in luce anche una certa capacità dell'autore di cogliere aspetti tipici di un mondo moderno allora appena in nuce. Perché la morte è qui la fine del tutto invece che un momento di passaggio, come nel cronotopo folclorico che pure ha la stessa struttura ciclica?
Si rende necessario un supplemento di indagine che prenda le mosse dal riscontrare che la circolarità evidenziata a livello temporale la si rileva anche a livello spaziale in una delle poche scene in movimento e all'aria aperta del romanzo, la passeggiata di Luigi, Paolina e Marianna. Si tratta di una "gita fuori porta", momento di evasione dall'angustia della città e dal lavoro quotidiano. Insomma, una scampagnata domenicale, un'abitudine tipicamente cittadina e moderna, che alla rimpianta comunione e organicità con la natura sostituisce quel «rapporto 'da week-end' con lo spazio della campagna che emergerà nel secondo Ottocento» (Moretti 56).
«La cosa più notevole in questa concezione borghese della natura è probabilmente il fatto che la passeggiata non è più considerata come un atto antisociale in quanto legata all'ozio: quest'ultimo, lungi dall'essere condannato come retaggio di una classe che vive agiatamente a spese delle altre, è rivendicato come un diritto. Il riposo dopo il lavoro appare come legittimo e come una rivincita sull'ozio aristocratico». (Montandon 131-132)
La natura stessa della passeggiata è in contrapposizione al viaggio che abbiamo visto essere invece la dimensione di movimento dominante nei Promessi Sposi. Basti pensare, ma qui possiamo solo accennarvi, alla passeggiata più famosa del romanzo manzoniano, quella iniziale di don Abbondio: da subito il pavido curato è caratterizzato in negativo da una dimensione di staticità paurosa e limitatezza abitudinaria che per tutto il testo farà da contraltare ai coraggiosi, pur se obbligati, viaggi di Renzo e Lucia. La passeggiata, dice Montandon, a differenza del viaggio non deve avere un percorso faticoso e pericoloso. Non ha neanche una meta, un luogo da raggiungere, un fine: anzi scopo della passeggiata è la passeggiata stessa. Inoltre è limitata, non solo nel senso che si svolge nei dintorni, ma anche perché prevede sempre un ritorno. Il percorso della passeggiata è quindi sempre un circolo chiuso. Questo non significa che una passeggiata non possa portare a un cambiamento, a una crescita; ma nel caso della scampagnata dei protagonisti di Paolina il ritorno al punto di partenza in senso fisico corrisponde a un uguale ritorno alla propria situazione psicologica, morale e sociale precedente. L'aspetto formativo e educativo della passeggiata si è perso in questa versione "democratica" della "gita fuori porta", uno spazio di libertà effimero e vano. Il diritto borghese al riposo di cui parla Montandon si estende a questi proletari, ma se la classe media si appropria di questo rito aristocratico mutandone significativamente i contenuti (non più ozio ma riposo che segue il lavoro, banalizzando), gli operai di Paolina non fanno altro che adattarsi a questa nuova "ideologia della passeggiata", non più «atto antisociale» ma, al contrario, segnale di accettazione della dominante visione borghese del mondo, che subordina tutto alla questione economica. L'alternanza lavoro-riposo diventa base di organizzazione di ogni aspetto della vita quotidiana e la gita fuori porta è sì riposo, ma gentilmente concesso da chi questa alternanza la controlla a proprio favore. Una concessione che serve a placare le istanze rivoluzionarie, come mostra prima il sorriso ironico con cui Luigi durante la passeggiata sollecita il fervore proto-socialista di Marianna, poi la battuta che il giovane pronuncia poco dopo per troncare la tirata della sorella - «Basta, basta [...] accettiamo la vita come ci vien data; vorreste voi mutar quest'ordine di cose?» (303) - che dal canto suo era già passata a una visione religiosa in cui la felicità sarebbe stata raggiunta solo nell'aldilà: nient'altro che la versione spaziale, e non più temporale, del ritorno all'Età dell'Oro.14
La struttura spaziale della passeggiata - chiusa, limitata, senza sbocchi - riproduce all'esterno lo spazio dominante del romanzo: la casa, l'intimità domestica. L'investimento emozionale dei personaggi nei confronti di questi luoghi è totale, la loro positività ideale è tale che perfino la povera soffitta in cui vivono Luigi e Marianna - versione ulteriormente misera e degradata dell'appartamentino occupato da Paolina - entra in correlazione con elementi positivi come l'infanzia, la madre e la libertà (sottinteso: della vita naturale) in uno dei tanti moti di rimpianto per la felicità perduta: «- Oh la nostra infanzia! Nostra madre, la nostra libertà, la nostra vecchia soffitta! Vi ricordate, Marianna, della nostra soffitta?... io temo che non ripareremo più a quel nido» (334). La casa è sempre rifugio sicuro, protettivo, e in questo Tarchetti coglie un aspetto tipico del mondo moderno urbano, industriale e borghese che è sul punto di affermarsi in Italia in quel 1865. I protagonisti non sono borghesi, ma aspirano a diventarlo e il loro atteggiamento mima quello della classe superiore, nella cura e nell'amore per il proprio spazio domestico. «Nel caso più estremo l'abitazione diventa guscio. Il XIX secolo è stato, come nessun'altra epoca, morbosamente legato alla casa», dice Benjamin (234), ponendo in campo l'elemento negativo dell'eccessivo amore per l'intérieur, il rischio cioè che lo spazio domestico diventi luogo di reclusione volontaria da cui non è possibile fuggire in cerca di un'alternativa. La cella in cui rinchiudono Luigi viene descritta dal prigioniero in un momento di rabbia e sconforto proprio in opposizione al comfort che invece offre una casa. Nel primo momento della prigionia il giovane non rimpiange gli spazi aperti, la possibilità di muoversi libero, ma le comodità che anche la più miserabile casetta può offrire. Insomma, come Lucia prigioniera chiede a più riprese alla vecchia servitrice dell'innominato di sprangare la porta della sua cella, i personaggi tarchettiani decidono di chiudersi in uno spazio ristretto per difendersi da ciò che sta fuori, non più i feroci bravi che abitano il castellaccio ma le strade della metropoli nascente e la variegata folla che le percorre. Manzoni su questo tema era stato invece ambivalente, contrapponendo alla santità della casetta di Lucia e al suo giusto e obbligato desiderio di "clausura", il meschino e pavido atteggiamento di don Abbondio, la cui casa-rifugio è un ben misero paradiso in cui isolarsi per scansare non tanto i guai quanto i doveri che lo spaventano. Il tema della casa nei Promessi Sposi è, come usuale, molto più complesso che in Paolina, ma mi sembra che si possa riassumere, per quanto ci interessa qui, nei due poli opposti indicati, in questa doppia valenza di positività e negatività che a volte si associa ad un unico spazio domestico. In ogni caso, ed è questo il motivo per cui abbiamo posto fin da subito il romanzo sotto il segno dominante del movimento e del dinamismo, nel romanzo manzoniano "uscire di casa" è necessario per conoscere il mondo esterno e formare e educare il proprio mondo morale interno.15
La semplificazione che del tema fa Tarchetti coglie per una volta aspetti tipici della modernità nascente, l'affermarsi dell'uomo totalmente privato, completamente chiuso in se stesso, che rifugge quella «autentica esperienza pubblica» (Raimondi, Il romanzo 175) che è invece l'avventura sulla strada di Renzo. In termini moderni, la nascita della privacy, che ha nella casa il suo santuario. Fedi nota che lo svolgersi del romanzo va «dall'iniziale pretesa di denuncia sociale [...] a una dimensione individuale» e giustamente segnala che si tratta di una «evoluzione interessante» (27). Dopo questi rilievi si può forse spiegare il comportamento - che De Camilli giudica «irreale» (149) - che tiene Luigi quando si reca furioso al palazzo del marchese per chiedere vendetta.16 La sua collera, già fiaccata dalla magnificenza dell'edificio, si placa immediatamente di fronte alla banale e palesemente falsa motivazione con cui il servitore lo blocca sulle scale. Non è il contenuto delle parole del servitore che respinge il giovane, ma la situazione stessa, il trovarsi sul punto di compiere un'invasione nella vita privata altrui, nei suoi spazi domestici. Una sorta di buona educazione decisamente fuori luogo, ma che Luigi non rinnega neanche nel momento in cui scoppia a piangere e per non farsi vedere si toglie dalla strada e si nasconde in un portone. Quanta differenza rispetto all'uomo tutto esteriore del cronotopo folclorico di cui parla Bachtin.
Possiamo ora rispondere alla domanda che ci siamo posti prima: perché la morte non è più rigenerazione e maturazione ma è la fine di tutto? Perché se il tempo folclorico era un tempo collettivo in cui la degenerazione di un elemento - il seme - era nutrimento per la crescita di un altro - la pianta - nel mondo moderno solo l'individualità ha diritto di cittadinanza e la fine dell'individuo non porta alcun frutto: «Solo su un piano puramente individuale può manifestarsi il loro [della decomposizione e della morte] aspetto negativo, il loro carattere puramente distruttore e finale» (Bachtin, Le forme del tempo 355). Quando alla fine del romanzo il feretro di Paolina passa nelle vie invase dai festeggiamenti per il Carnevale, la folla si ritrae, tace e guarda con orrore quell'immagine. Nella Milano del 1860 il Carnevale non è più la ribellione alla gerarchia ufficiale che sta alla base del cronotopo rabelaisiano e che prevedeva proprio il vicinato fra la morte e il riso, il lutto e la festa. Non c'è ora il tempo di approfondire, sulla scorta delle parole di Bachtin, una correlazione fra questo momento finale di Paolina e quell'esempio mirabile di «carnevale funebre» (Raimondi, Il romanzo 257) che è la fuga di Renzo sul carro dei monatti. Basti rilevare che nel romanzo tarchettiano, come già accaduto alla gita fuori porta, anche il Carnevale diventa spazio effimero di libertà, circolo senza uscita al cui termine si profila il ritorno nei «ritiri forzati della città» (Tarchetti, Paolina 300).
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