Matteo Veronesi
Trasgredire la trasgressione.
Note su alcuni percorsi difformi e allotri dello sperimentalismo poetico nel secondo novecento italiano

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
Ordine e disordine
Emilio Villa e Adriano Spatola
Patrizia Vicinelli e Amelia Rosselli
Giorgio Cesarano ed Eros Alesi


 

§ II. Emilio Villa e Adriano Spatola

I. Ordine e disordine

Per quanto possa apparire paradossale, e in sé contraddittorio, l'Avanguardia - pur di per sé, per la sua stessa natura, volta, secondo l'ancor valida fenomenologia tracciata a suo tempo da Renato Poggioli, al terrorismo culturale, all'iconoclastia, all'infrazione, all'agonismo, infine all'autodistruzione - tende, in pari tempo (inconsapevolmente ai suoi albori primonovecenteschi, programmaticamente e deliberatamente, invece, a partire almeno dal Gruppo 47, nelle sue espressioni più meditate, mature, teoreticamente ed esteticamente più consapevoli, della seconda metà del secolo), a forme di istituzionalizzazione (Marinetti accademico d'Italia, per non addurre che l'esempio più stridente), alla museificazione, all'inquadramento - talora addirittura totalitario - nelle strutture del potere editoriale, economico, istituzionale, e negli ingranaggi dell'industria culturale.
Del resto, come notava Fausto Curi in un testo fondamentale come Ordine e disordine, uscito da Feltrinelli negli anni della più accesa militanza neo-avanguardistica, la poesia d'avanguardia appariva segnata, essenzialmente, dalla dicotomia insita - nei termini di Adorno - in una organica, razionale e calcolata «progettazione del disordine», dalla ricerca di un'irrazionalità voluta, consapevolmente strutturata - si pensi già a Rimbaud, ai suoi sophismes de la folie, al suo raisonné dérèglement de tous les sens - da contrapporre alla «cattiva razionalità» - in apparenza lucida, pacifica, naturale, in realtà perversa ed alienante - dell'oppressione capitalistica.
Del resto, la poesia dell'avanguardia secondonovecentesca traeva ampia linfa dalla teoria dell'informazione (emblematica l'antologia Estetica e teoria dell'informazione, curata da Eco per Bompiani nel 1972). La parola neoavanguardistica era paradossalmente divisa fra entropia e neghentropia, progettazione e caos, forma e frantumazione, informale e progetto; Ordine e Disordine appunto, Liberté e Règle, Ordre-Aventure, secondo le dicotomie, e insieme le fusioni, già primonovecentesche, di Apollinaire; se da un lato la densità, la polisemia, le stratificazioni, le diffrazioni, le molteplicità, le aperture di senso e d'interpretazione possibili (Opera aperta di Eco fu appunto un testo chiave, denso e controverso) sembravano riconducibili ad una forma di entropia, di dispersione, di caos (sebbene si trattasse, comunque, di una jacobsoniana "entropia relativa", bilanciata fra il massimo di entropia possibile e quella, in certo modo limitata, organizzata, arginata, effettivamente ravvisabile in una data opera), dall'altro la volontà di calcolo, di progettazione, di preciso programma culturale si traduceva in prassi compositive (spesso di carattere seriale, combinatorio, quasi matematico e cibernetico) formalizzate, reiterabili, quasi precettistiche (non sono casuali il rinnovato interesse per le Poetriae, le Artes poeticae medievali, cui attinge ampiamente il Sanguineti di Laborintus, né la pubblicazione di una moderna poetria, il Manuale di poesia sperimentale di Guido Guglielmi ed Elio Pagliarani).
Ma lo sperimentalismo, o la sperimentazione, più vivi, vitali, sentiti, tumultuosi, autentici, aurorali, non dimentichi (pur nello straniamento - nell'"artificio" nel senso di Sklovskij - della ricerca stilistica e formale e della deformazione verbale) del valore profondo ed essenziale della Parola, andranno forse cercati in esperienze secondonovecentesche che, pur lambendo, tangendo, sfiorando od incrociando, a vario titolo, i cammini dell'avanguardia istituzionalizzata e codificata, mantennero, rispetto ad essa, una posizione in varia misura defilata, allotria, difforme, refrattaria, centrifuga - percorsi e vicende che non esitarono a vagare e finanche a perdersi, per citare Heidegger, nelle radure dell'Essere - di quell'Essere la cui dimora è il linguaggio.
«Trasgredire la trasgressione», per parafrasare il Bene di Contro il cinema: nella semiosi cinematografica (intorno alla quale si contrapposero, come riferisce La struttura assente, Pasolini ed Eco, il primo fautore della comunicazione audiovisiva come semiosi naturale, come significante textus di oggetti e volti e gesti quasi verginalmente venuti-alla-luce, il secondo di una semiosi audiovisiva di per sé culturalizzata, disponibile ed incline ad una rigorosa formalizzazione metadiscorsiva) l'apparente, e in realtà schematizzata e alienata, "trasgressione" dell'immagine filmica, che mima il fluire del reale pur non essendo che un artificiale succedersi di fissità, doveva essere a sua volta "trasgredita", trascesa, scomposta e decostruita da uno sguardo altro, difforme, distorto, che alterasse e straniasse la sfera del vedere nella stessa misura in cui la dizione poetica, il testo scritto eppure fatto voce, dissolto e ricomposto in Phoné, morto e risorto nell'esecuzione, devastava e "smarginava" i confini della Scena, aprendone i limiti sul buio del nulla, sulle tenebre del vuoto e del non-luogo - allo stesso modo che l'"avanguardia non codificata" va oltre Lacan, oltre Derrida, oltre l'Inconscio come Linguaggio e la Parola e il testo come eco, proliferazione e perpetua riscrittura di se stessi, différance, deviazione - esce dal linguaggio senza uscirne, risale, a ritroso, fino alla matrice dell'eco, alla sorgente della Parola, alla figuralità segnica, prelinguistica, allo spettro che giace e vibra sotto la sua spoglia, come il noumeno dietro la maschera del fenomeno1.
Si può, in sostanza, concordare con Paolo Valesio, quando afferma che l'«alternativa» ai suoi occhi più interessante è quella dell'aliud, e che «la venatura, la filigrana del discorso dell'avanguardia nel suo aspetto più folle e interessante» è «la filigrana dello spirito»; del resto, Patrizia Vicinelli (vicina al Gruppo '63 ma discepola ideale di un grande isolato, poliglotta debordante e mistico della materia, linguistica e pittorica, come Emilio Villa) osservava che la Poesia-Verbo, il Verbo poetico che già Rimbaud sognava «accessible à tous les sens», onnicomprensivo ed onnidimensionale, «più che la parola è il suono, la radice dell'essere», «è una verità assoluta da portare agli uomini che ne valuteranno l'autenticità»2.
Queste esperienze dell'avanguardia non codificata, dello sperimentalismo «folle», questa alternativa dell'aliud (accanto ai nomi di Villa e della Vicinelli si potrebbero avanzare, in certa misura, quelli della Rosselli e di Adriano Spatola) paiono rinviare a certe ricerche, a certe esplorazioni dei rapporti fra linguaggi artistici diversi, come fra livello fonico e livello semantico, condotte ai primi del Novecento dal modernismo russo, al crocevia tra simbolismo e avanguardia: penso a Belyj, a Florenskij, alle loro indagini sul «valore magico della Parola», sul Verbo originario con i suoi suoni aurorali, le sue vibrazioni cosmogoniche e demiurgiche che affiorano dalla profondità stessa della materia e della coscienza e contribuiscono a plasmarle e ad infondervi una forma. «Sono penetrato nella mia bocca a guardare l'universo del discorso; (...) racconterò la verità selvaggia del suono»3.

 

§ III. Patrizia Vicinelli e Amelia Rosselli Torna al sommario dell'articolo

II. Emilio Villa e Adriano Spatola

Questa tensione, questa vena mistiche, quasi esoteriche, rivolte all'esplorazione e all'auscultazione del totaliter Aliud (inteso, peraltro, non tanto o non solo come dimensione trascendente, ma soprattutto come risonanza interiore, o come proiezione assoluta o trascendentale di una soggettività approfondita ed amplificata fino al limite estremo), che riaffioreranno, a tratti, nei percorsi più liberi ed impregiudicati dello sperimentalismo secondonovecentesco, trovano riscontro anche in Artaud, così importante sia per la "letteratura della crudeltà", antidogmatica, antagonistica, lucidamente corrosiva, teorizzata dal Sanguineti di Ideologia e linguaggio, sia - in modo ben diverso - per Carmelo Bene, con la sua idea di un teatro del corpo, del gesto, della distorsione, della vocalità straniante, e per Emilio Villa, che quella vocalità, audizione aerea e insieme corporea, primordiale e prerazionale e insieme culturalmente progettata, cercò di tradurre in segno e scrittura, tentando di coglierne, nei segni e nelle scritture del passato, la risonanza e il riverbero (ed è interessante notare che Villa pubblicò una Letania per Carmelo Bene, intessuta di «Mots troués par ma Voix», di «voix de Matière séduite par scissures»4: Parola perforata, linguaggio lacerato, tessuto di segni strappato, velo di pagine dietro le cui fissure pullulano e trapelano il magma oscuro ed informe del subconscio, il gorgo del possibile non-senso).
«Concepiamo il teatro» - scriveva Artaud - «come una vera operazione di magia». «In questo teatro ogni creazione ... trova la sua traduzione e le sue origini in un impulso psichico segreto che è la Parola prima delle parole». È necessaria una nuova grammatica per un nuovo linguaggio, che «rimetta in luce i rapporti racchiusi e codificati nelle stratificazioni della sillaba umana che, rinserrandosi su di loro, li ha uccisi»5.
Ad Artaud, Villa è accomunato anche dalla volontà di cercare un nesso profondo, quasi subliminale, tra grafema e fonema, tra il segno tracciato, quasi inciso, sulla pagina e il fantasma sonoro, l'impronta musicale (materiale-immateriale, spirituale e corporale) che esso proietta, quasi come un'ombra, nella mente del lettore, nella virtuale esecuzione del testo che su quella immateriale scena prende forma. Cristallizzato nell'ideogramma (sia esso egizio, cinese, mesoamericano), il linguaggio «fa parlare lo spazio»6 (quello segnico della pagina, quello simbolico della scena). Il segno linguistico è, in potenza, figura (nel senso, insieme, musicale, simbolico, scenico-gestuale).
Non dissimile la fascinazione degli ideogrammi cinesi su Pound, o quella dei geroglifici Maya su Charles Olson (la cui teoria del projective verse, teso a dilatare, a trascendere e a varcare i limiti di se stesso, del proprio confine e della propria misura, e insieme a sollecitare ed insidiare i limiti stessi della pagina, della testualità, del linguaggio, proiettandoli verso l'indicibile, al di sopra o al di sotto della soglia coscienziale, ebbe fra l'altro un suo ruolo nel determinare la consapevolezza teorica della neoavanguardia).
«I still beat up against this biz of, getting rid of nomination, so that historical material is free for forms now»7. Infrangere l'arbitrarietà e il convenzionalismo della nominazione ordinaria è la necessaria premessa per poter ridestare e sprigionare, come sopite energie, le potenzialità foniche ed evocative sedimentate, quasi sepolte, nell'immobilità delle immagini-segni.
Lungo questa linea, Villa risale ancor più a ritroso, fino a quell'arte preistorica che - tutt'altro che asemantica, tutt'altro che puramente decorativa o arazionalmente ritualistica - rappresentò forse l'origine prima del pensiero per immagini, della mitopoiesi e, insieme, del nesso tra la sfera del grafismo e quella della narrazione, della memoria e del dire.
«Energia dell'uomo per l'uomo, come asserzione della unità misteriosa che è appunto il fondamento del reale, al di qua della distinzione fra uomo e divinità». «Il nome è tutto, il nome è la voce universale, il murmure incatenato al silenzio, il vento nella sua matrice»8.
In Villa, per l'appunto (la cui vasta, centrifuga, dispersa, originalissima poesia segna, emblematicamente, la continuità, in nome della categoria dell'Informale inteso come ribollente magma, pullulare materico, risonanza indistinta eppure luminosa di suoni e sensi, di significanti e di significati, fra quell'"avanguardia non codificata" che fu, secondo Bigongiari, l'ermetismo - al quale gli esordi di Villa, con Oramai, del '47, sono strettamente legati: «Sono incantate finestre, sul fondale / Del mio cielo dischiuse / Le parole: / Disumanate e mie», fra Mallarmé e Quasimodo - e i percorsi più liberi ed impregiudicati dello sperimentalismo secondonovecentesco), l'Origine confina con il Silenzio, e anzi in esso sconfina, in esso trapassa e si dissolve.
La Parola, leggiamo in E ma dopo, è «luogo senza storie. / Luogo dove tutti. / E dove la coscienza. / E dove il dove». Alla fine, come in Mallarmé, «Rien n'aura eu le lieu que le Lieu». La ricerca dell'Origine riposa, e sfocia, in un'autoreferenzialità librata appena ad un soffio dal silenzio. «Un seul mot seul éclair dans l'O / du silence». La O, primigenio fonosemantema cosmogonico, fusione aurorale di Fine e Principio, Uovo generatore a apocalittico Gouffre, coincide infine con lo «Zéro-Silence mistico»; la «ridiscesa alchemica nel corpo» della lingua si fa «frana mobile della decomposizione»9.
A Villa si rifaceva espressamente anche Adriano Spatola, teorico - in un importante volume del 1969, Verso la poesia totale - di una fusione fra mezzi, codici e linguaggi espressivi - parola suono visione segno grafico - la quale rivisitava, in un clima decisamente secondonovecentesco, fra strutturalismo, semiotica e teoria dell'informazione, il sogno wagneriano e simbolista dell'"opera d'arte totale" così come quello, primonovecentesco, della corrispondenza fra immagine e parola, fra colore suono linea.
E, come in Villa, anche in Spatola la sperimentazione stilistica non lasciava in ombra, e anzi esaltava, la remota e profonda risonanza degli archetipi. Si prenda, ad esempio, L'ebreo negro, raccolta edita nel 1966 da Scheiwiller: «Da un momento all'altro la tomba del padre sarà spezzata / e un'unica ombra sulla terra ripeterà la forza del signore / che primo la rese possibile / che la distruggerà nell'abbraccio»; «e ripetere il mito della creazione / gettare gli uomini dietro le spalle perché si tramutino in pietre / il sacerdote prega il seme divino (energia) / (sole) semen encefalo d'ogni forma di vita». Qui alcuni procedimenti stilistici tipici dell'avanguardia (la versificazione fondata sul senso e sul respiro, più che sull'astrazione del computo sillabico, gli effetti di suono, le ecolalie, i balbettii, gli accostamenti paretimologici) rivisitano e riportano alla luce, anziché rimuoverla, l'originaria forza mitopoietica del Logos-Verbum - del Logos spermatikós, della ratio seminalis, racchiusa nel cuore della realtà e dell'espressione -, la alchemica enérgheia del Sol-Semen che infonde nel dire vitalità e luce; ma, insieme, il conflittuale rapporto con il Padre, con la tradizione uccisa e sepolta eppure sempre risorgente e ritornante con la sua ombra, che può anche sommergere e soffocare.
Eppure, non è, quella di Spatola, poesia del silenzio in senso simbolista, mallarmeano - dire raccolto, rappreso, imploso nell'inattingibilità delle radici e delle matrici, nel silenzio inviolabile di un impossibile, inafferrabile noumeno. È, al contrario, e nonostante tutto (e proprio in ciò risiede la sua umanità, la sua vitalità), una poesia di gesto, azione, poesia di cose e poesia-cosa, res, a suo modo poesia "impegnata". «Non è necessario ricavare scusanti al silenzio / alla bilanciata ingratitudine alla non scremabile oscurità / tacere non è meglio di mentire». L'essenzialità scarnificata dell'antiretorica - che rinuncia alla punteggiatura, alle maiuscole, ai nessi - dovrebbe sfociare, nondimeno, in «niente di meno accettabile dell'ingiuria del punto fermo», tradursi nella perentorietà acuminata e crudele del segno che, inciso, è capace altresì di incidere, indirettamente, sul reale10.
Nel quadro di questo sperimentalismo molteplice, ibrido, multidimensionale e polisemo, ramificato - benché tutto ruotante, in vario modo, intorno alla galassia della Neoavanguardia -, particolare rilievo assumono certi percorsi delle cosiddette «scritture femminili»; difficili, queste ultime, da definire, sfuggenti, liquide, inafferrabili, ma certo - come varie pensatrici, da Julia Kristeva a Hélène Cixous a Luce Irigaray, hanno evidenziato - antitetiche, antagonistiche, con la loro specularità convessa, la loro profondità scoscesa, cava, meandrica, da meandertale joyciano, da mallarmeano Abyme - una dimensione, insomma, ben diversa, altra, straniante, a fronte della riflessività piana, tagliente, logocentrica dell'immaginario predominante nella cultura occidentale, così come, nella fattispecie, dell'avanguardismo più premeditato, programmatico, normativo, quasi precettistico.
«Forse al di là della superficie speculare che sostiene il discorso, si annuncia non il vuoto del nulla, ma l'intenso bagliore d'una speleologia dalle mille sfaccettature. (...) Nel luogo in cui ci si aspetta di trovare la matrice opaca e silenziosa di un logos immutabile nella certezza delle sue luci, cominciano invece a brillare fuochi e cristalli, che intaccano l'evidenza della ragione»11. «... Reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries», per citare Mallarmé.

 

§ IV. Giorgio Cesarano ed Eros Alesi Torna al sommario dell'articolo

III. Patrizia Vicinelli e Amelia Rosselli

Emblematico il percorso di Patrizia Vicinelli12: il cui cammino poetico parrebbe, quasi, e paradossalmente, essersi via via essenzializzato , rastremato, essere divenuto più raccolto, meditativo, necessario, man mano che la vicenda esistenziale - mai come in questo caso inscindibile dall'opera - veniva segnata da una cieca volontà di autodistruzione, quasi di autoimposto, gratuito ma fatale, martirio. «Note tutte in basso / Abissali deteriorate / L'aria è rovente / Quando ti brucia / L'amaro sole in nero / (...) Come fiori infilati / nella loro ascesa l'altezza / Del distendersi / Del dispiegarsi». Note abissali, sole nero - emblema di quella virtù discenditiva, di quell'«amore di degradazione», di quella concentrica, spiraliforme e ritmata catabasi al fondo sostanziale e insieme nientificante del pensiero e del nulla, che animeranno Hilarotragoedia di Manganelli, altro autore vicino, pur se in modo tangente, decentrato, irriducibile, al Gruppo 63.
«Bisognerà riscattarti, o nome dei nomi», si legge in Albero di Giuda. «Che m'importa del nome, se ad altri nomi / sei legato e ci imprigionano proprio come / ai vecchi tempi». Il tradimento personificato - tradimento del pensiero a se stesso, e del linguaggio al pensiero, e dell'uno e dell'altro, forse, al «mondo della vita» con le sue angosce e le sue speranze -, e insieme il personificato autoannientamento del suicidio - l'uno e l'altro incarnati da Giuda -, sono forse emblemi della condizione, del negato ruolo - a loro volta evasivi, traditori e traditi - della parola poetica nei suoi vettori e nei suoi approdi, nella sua sostanzialità e nel suo nulla consapevoli di sé.
Di marginalità, in senso assoluto, non si potrà certo parlare per Amelia Rosselli, riconosciuta concordemente come autrice essenziale del canone novecentesco: "marginalità", però, rispetto alla Neoavanguardia nelle sue forme istituzionalizzate, nelle sue poetiche ufficiali e normative. «L'avanguardia è ancora a cavalcioni su / delle mie spalle e ride e sputa come una vecchia / fattucchiera», si legge in Serie ospedaliera.
La teoria degli "spazi metrici" rappresenta, se non il compimento, il culmine teorico, almeno un assai significativo sviluppo dei nessi fra i diversi linguaggi artistici - dall'audition colorée e dall'orchestration verbale dei simbolisti allo zaum futurista, dai nessi fra dodecafonia e "accordo mistico" nella musica ed astrattismo pittorico, alla poesia atonale, seriale, combinatoria della Neoavanguardia - che tramano il sistema della modernità letteraria.
Entro la peculiare, ritorta spazialità di un testo che ha la fluidità avvolgente, la pervasività cromatica dell'informale e insieme il rigore ostinato e scolpito del cubismo o dell'astrattismo più geometrizzante, «compressa fra ineffabilità e deriva del significato, la lingua esplode e si fa grido, acuto fino a superare la soglia del suono e trasformarsi in afasia»13.
La dissonanza, il "ragionato disordine" dei segni e dei sensi, spinti fino al limite estremo, sfociano nel "rumore bianco" - un lieve fruscio, appena sopra la superficie del silenzio - che fonde tutti i suoni, come il bianco - il bianco di Mallarmé e di Malevich - è fusione, e annullamento e azzeramento, di tutti i colori.
«L'esperienza sonora logica e associativa è certamente quella di tutti i popoli, e riflettibile in tutte le lingue», si legge in Spazi metrici14. Il plurilinguismo della Rosselli - fra italiano, inglese e francese, fra arcaismi, neologismi, lapsus sospesi, come notò Pasolini, fra inconsapevolezza e autocoscienza, inadeguatezza del pensiero al mezzo espressivo e del mezzo espressivo al pensiero - sorge, ramificandosi e disperdendosi per proliferazione e straniamento, da un fondo originario, prelinguistico e preconscio - da un nucleo semantico, o presemantico o asemantico, che resta, direbbe Mallarmé, avvolto dalle coltri del silenzio precedente alla creazione, «tu aux blancs», taciuto fra gli interstizi e gli iati delle parole e dei versi.
La versificazione della Rosselli riposa su una fonosemantica primordiale, un fonosimbolismo archetipico, quasi un'unità prebabelica. Un solo esempio, dalle Variazioni belliche. «Moriremo nell'aria varia, ma non è vacua. / (...) Non posso dimenticare il tempo. L'aria è vana». Il vibrio della rotante, evocativo della ripetizione, dell'iterazione, dell'eterno ritorno dell'uguale - e l'horrror vacui della vocale aperta, del vuoto dischiuso e spalancato. «Vicino e lontano come il turbine / delle stelle d'estate. / Il vento di notte partiva e / sognava cose grandiose: io rimavo entro il mio potere / e partecipavo al vuoto» - lampeggio dell'antica divinità astrale e matriarcale, Stella/Aster/Isthar, levità sussurrata del vento - e infine il cerchio chiuso del Soggetto e del Linguaggio che tornano a se stessi, presi nel loro giro, nella loro danza fatali e necessitati.
Se la combinatoria di Laborintus di Sanguineti tende ad un automatismo, ad una meccanicità quasi, alienanti e alienati come il mondo che ritraggono, la Palus Putredinis che attraversano, l'intarsio intertestuale di Libellula è, invece, insistita variazione esistenziale.
«Inserire l'ideogramma cinese tra la frase e la parola, e tradurre il rullo cinese in delirante pensiero occidentale. (...) Un rullo, ma davvero non cinese, anzi cristianissimo, ispirato al tema della giustizia ebraica»15. L'istantaneità, la simultaneità dell'ideogramma, il mythos raccolto, costretto e agglutinato nella compressione, nel punctum temporis del logogramma, dell'emblema, della cifra (nel senso di Jaspers), si disviluppano e si dispiegano nel volumen vergato dal profeta, che si distende per le strade del tempo.
Quand'anche, di là da ogni calcolo, da ogni categorizzazione d'ordine o disordine, l'approdo fosse, infine, un'epifania del nulla, l'accecamento gnoseologico del totaliter Aliud, come qui, a partire dalla Chimera di Campana, dalla sua femminea teofania, nebulosa e tremula, segnata dalla negazione: «Non so la lunga linea dell'avvenire, / non v'è nessuna luce e la preghiera, non so se / la preghiera muore».

 

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IV. Giorgio Cesarano ed Eros Alesi

Mi pare emblematico concludere con due autori (Giorgio Cesarano ed Eros Alesi) per i quali l'agonismo, la tensione distruttiva ed autodistruttiva dell'avanguardia furono anche destino esistenziale, scelta estrema e tragica, ma a suo modo coerente e sapienziale, del suicidio. Scelta che fu anche di Amelia Rosselli - mentre Spatola e la Vicinelli si diedero la morte poco a poco, immergendosi nel paradiso artificiale degli stupefacenti, quasi traducendo in atto il senecano cotidie morirmur, il tempo-clessidra che, con inesorabile stillicidio, ogni goccia poco a poco svuota, e l'ultima soltanto termina definitivamente.
Due, le immagini emblematiche di Patrizia Vicinelli: quella del film Amore tossico, atroce, quasi pornografica nell'esibizione nuda ed impassibile della degradazione - pura, invece, elegiaca, velata dal ricordo, nel capolavoro postumo, composito di intimità ed esibizione, affetti e creazione, del compagno Alberto Grifi, In viaggio con Patrizia; da un capo all'altro, nella poesia, la devastazione e la ricerca del profondo, la dispersione efflagrante e la disperata ricerca di senso, quasi di ritorno all'aurora del mito.
Bisogna guardarsi, certo, da una neoromantica identificazione fra la vita e l'opera, il dato biografico e quello testuale - sebbene Peter Bürger, ad esempio, abbia indicato proprio nel passaggio dall'autonomia all'eteronomia, dall'assolutezza e dalla solitudine dell'estetico al confronto irto e scaglioso con l'evidenza e le sporgenze del Lebenswelt - e insomma in un farsi incontro senza più infingimenti né schermi all'accadere dell'esistenza e del tempo - la transizione dal dominio del simbolismo e dell'estetismo a quello dell'avanguardia16.
È illuminante Orizzonte della poesia, uno scritto di Luciano Anceschi apparso sul «Verri» nel 1962: vi si parla di "poesia vivente", di poesia come «accrescimento della vitalità» ed impulsion of life; ma, sulla scorta di Valéry e di Benn, vi si precisa che poesia e vita devono fondersi in un'arte intrisa e carica di consapevolezza critica, nella figura di un poeta che racchiude in sé un saggista. L'autonomia, la purezza e l'incondizionatezza della poesia come vita e della vita come poesia non devono tradursi in algido rifiuto - come quello di Erodiade che, in Mallarmé, «ne veut rien d'humain». «La poesia - la vita della poesia come continuo experiri della poesia stessa - può perdersi ancora per troppo amore di sé».
Lo "sperimentalismo" è anche poesia come esperienza, come Erlebnis (quasi ancora nel senso post-positivistico, trascendentale di Dilthey: poesia come immagine che è riflesso e trasposizione di percezione, vissuto, pensiero). La poesia può tradire la vita tanto chiudendosi in una eburnea purezza lirica, quanto ripiegandosi, ossessivamente, sulla manipolazione e il logorio formali e stilistici - sistematicamente e freddamente operanti - dell'avanguardia istituzionalizzata e ideologicamente organica. Fra ripiegamento del soggetto lirico ed impulsion of life si dibattono e fluiscono la vitalità e la condizione della poesia.
In Cesarano e in Alesi, vita e poesia convergono nel segno dell'annientamento, nell'abisso di un Aleph nero e vacuo che tutto travolge. Come nel Manganelli di Hilarotragoedia: «Una volta morto (...), mi scioglierò nelle mie infinite animule: ed io sarò ognuna di esse, come vuole l'infinità dei miei destini». «Coronamento dell'angoscia estatica è l'autocoscienza dell'universo come Ade», un universo che si offre in sacrificio e in pasto «alla propria implacata brama di morire»17. Infinità e autocoscienza hanno ad oggetto il Nulla, in cui l'Essere si converte. L'autoannientamento, allora, è necessità e compimento di un destino e di una vicenda esistenziali. La letteratura si avvolge nella spira terribilis della sua vanità e della sua menzogna, fino ad implodere e a dissolversi.
In Cesarano, lo sperimentalismo tragico si lega alla filosofia situazionista, la quale smaschera la vacuità e l'effimero - forse del resto essenziali, ed essi stessi rivelatori - della società dello spettacolo, dell'esteriorità, dell'immagine reificata e mistificata (mistificante). La coscienza critico-dialettica - di cui la poesia stessa è espressione - svela proprio il deserto nulla, il vuoto desolato celati dietro la superficie dell'immagine.
Non a caso, Romanzi naturali (edito da Guanda nel 1980) è anche la storia di un film impossibile, di un progetto cinematografico irrealizzato, di un potenziale fluire di gesti e di visioni rimasto per sempre prigioniero del buio originario. Tenebrio, con la sua pregnanza evocativa, il suo valore fonico e insieme visivo (o, meglio, di negazione del vedere), è parola ricorrente, quasi spia semantica o mot-clef, insieme alla tramatura fonica che da essa si irradia. «Immane specchio, alterità che ti tiene. / Immane fallo, corporeità che ti scorpora. / Immane gabbia, verbo che t'ammutolisce. / Simbolo, Monumento: Niente in cui svanisci».
Specchio, Verbo, Nulla, Silenzio: emblemi eterni della nientificazione. «Disgraziato ragazzo, debole e ignorante», come scriveva spietato, recensendo l'Almanacco dello specchio del '74, Pasolini, che in lui vedeva fondersi la droga, «surrogato della cultura», e il vuoto delle correnti contestatarie, figlie esse stesse della logica omologante neo-capitalista, Alesi (stroncato prematuramente dall'overdose, tormentato dai conflitti con la figura paterna) è forse, o sarebbe potuto essere, se la morte non avesse troncato a vent'anni la sua vicenda e la sua voce, il solo vero poeta beat italiano, vicino per spirito e forme ad un Kenneth Patchen, corrosivo e nichilista. Lo sperimentalismo è misura e vettore dell'annientamento, esistenziale e semantico. «Che parola misteriosa, secreta inaccessibile per le verità logiche e ragionate. Inaccessibile a tutte le verità. (...) Che dimensione limbo. Che dimensione inesistente. Che quindi il mio parlare inesistente»18.

 

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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2