Andrea Scardicchio
Grazia Deledda narratrice per l'infanzia

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
L'anomalia critica intorno agli esordi deleddiani
La scelta di campo di Nell'azzurro
L'itinerario della memoria
Una poetica per la letteratura per l'infanzia
La collaborazione con «Il Giornalino della Domenica»


 

§ II. La scelta di campo di Nell'azzurro

I. L'anomalia critica intorno agli esordi deleddiani

Nel corso della sua fervida carriera letteraria, Grazia Deledda si cimentò in generi e tipologie di scrittura differenti, sintomatica rivelazione della sua indomita vena sperimentale. Alla primissima fase contrassegnata dalle fanciullesche e ingenue esercitazioni poetiche (1887-1900), denunciate dalla stessa autrice come una sorta di «delitto»,1 fece seguito l'orientamento verso i più congeniali e promettenti approdi della composizione in prosa, costellati di volta in volta dalla stesura di racconti, novelle e romanzi.2 Com'è noto, proprio l'esperienza romanzesca è quella meglio caratterizzata e qualificata della precoce nuorese. Tralasciando, difatti, gli acerbi frutti dell'esordiale stagione (Memorie di Fernanda, Stella d'Oriente, Fior di Sardegna, 1889-1891), accolti soprattutto dai conterranei con esplicite riserve e talvolta pure autentiche maldicenze,3 l'atto più compiuto della parabola romanzesca della Deledda (Anime oneste, 1895; La via del male, 1896), e di seguito i prodotti più riusciti di quello stesso genere letterario (Elias Portolu, 1903; Canne al vento, 1913; Marianna Sirca, 1915, ecc.), incontrarono l'approvazione incondizionata dei lettori, nonché la benevolenza della critica italiana e straniera: pubblici riscontri che le valsero alla fine, maturata a pieno la sua arte, l'ambito riconoscimento del premio Nobel per l'anno 1926.
La critica ha alimentato nel tempo un florido dibattito interpretativo riguardo al reale valore da attribuire all'opera della letterata isolana, sebbene procedendo «sempre dimidiata e costretta a una singolare mistione di ammirazione e rispetto per l'impegno professionale, e a un tenace senso di fastidio e stanchezza, nel rimprovero costante per la riduzione regionalistica, e la valorizzazione poi, specifica, della novità e dell'apporto misurato proprio nel legame a una cultura locale».4 Già agli albori della fortuna deleddiana un groviglio di giudizi divergenti e contrastanti ha segnato il campo dell'esegesi di quell'universo creativo, sempre preminentemente contrassegnato dall'accordata vocazione per il romanzo, conclamata cifra peculiare dell'attività scrittoria della narratrice sarda. Come non era sfuggito, del resto, allo sguardo di un fine lettore contemporaneo quale fu Renato Serra, tra i primi a riconoscere (nel 1914) la discrasia esistente tra il momento di maggiore impegno e ispirazione artistica (i romanzi) e i restanti esiti meno vitali (le novelle in particolare), liquidati come emblematici esempi di una «mediocrità esasperante»:

Mentre le novelle sono di una mediocrità esasperante, con quella monotonia regionale che non arriva neanche ad avere l'evidenza superficiale e chiacchierina del bozzetto di genere, i romanzi hanno un respiro più largo e profondo che finisce per trasportare uomini e cose e paesi - di cui nessuno ha felicità speciali di osservazione e di fattura - in un'atmosfera propria, quasi di commossa verità.5

Giudizi netti e perentori, insomma, s'imposero e fecero scuola nel panorama della critica deleddiana, fino a costituire un punto fermo dell'intero processo valutativo. Lo comprova il fatto che anche a guardare la bibliografia più recente, a fronte d'interessi molteplici ed eterogenei concentrati sull'opus della scrittrice, ancora preponderante risulta il peso attribuito all'esperienza romanzesca nell'accertamento degli esatti codici e confini artistici del suo statuto espressivo. E ciò va inevitabilmente a discapito della produzione meno organica e sistematica del corpus, rappresentata dalla vasta mole di racconti e di novelle, e dalle rispettive raccolte via via allestite dalla narratrice, inspiegabilmente vittime ancora oggi di un vero e proprio oblio valutativo. Un oblio circoscritto in particolare alle novelle, che sebbene si dipanino ininterrottamente per tutta la carriera della Deledda (dal 1890 al 1933), costituendo dunque un binario di scrittura parallelo alla sua migliore produzione in prosa e quindi un valido terreno di verifica e di confronto con quella, sfuggono ancora e inesorabilmente ad un'opportuna rendicontazione critica. Non è improbabile che pesino tuttora su tale ricca e articolata produzione breve deleddiana (specie quella dell'apprendistato sardo) sedimentati giudizi limitativi, rilanciati anche da chi ha ritenuto che quei testi, se valutati a fini artistici, «possono essere trascurati senza danno» (Sapegno),6 oppure da chi ha intravisto in essi un approdo «particolarmente infelice» (Dolfi).7 Catalogate come esempi di minore pregnanza letteraria, relegate al ruolo cadetto di puro corredo di una ben più operosa e celebrata stagione, tali tipologie testuali sono state oggetto soltanto di attenzioni sporadiche e perlopiù estemporanee, che ne hanno decretato una fortuna provvisoria e caduca, pure in ragione dello stesso statuto letterario di appartenenza. Senza considerare invece, come già ebbe modo di arguire Giuseppe Petronio, che l'evoluzione artistica della scrittrice, ancorché nei romanzi «ancora meglio si potrebbe studiare nelle novelle, che la Deledda andò componendo con frequenza sempre maggiore e in molte delle quali raggiunse una rara felicità».8
A completare poi il quadro di tale singolare anomalia investigativa, va aggiunto che nemmeno i recenti studi riescono a colmare la vistosa lacuna, facendo pertanto apparire ancora più evidente e indifferibile l'esigenza di un critico riesame orientato sulla fitta produzione minore che informò per oltre quarant'anni la prosa di Grazia Deledda. Mancano tuttora contributi specifici, e laddove la materia risulti approcciata si è pressoché fermi ad uno stadio ermeneutico primordiale. Sebbene, tuttavia, si assista negli ultimi anni a un'incipiente fase di polarizzazione d'interessi nei confronti di tali zone incognite dell'iper-perlustrata mappa del continente narrativo della nuorese; un fatto che lascia ovviamente ben sperare nella direzione di un progressivo cambio di rotta per il prossimo avvenire. Già qualche anno fa, la reviviscenza di quel genere breve era passata dalle riedizioni delle Novelle curate da Giovanna Cerina per la Bibliotheca sarda,9 accompagnate da dense e puntuali prefazioni non soltanto illustrative di fondamentali dati narratologici rinvenibili da ciascuna raccolta riproposta, ma anche ben tarate sull'accertamento delle implicazioni di poetica, inquadrate nei diversi tempi della scrittura deleddiana (il noviziato sardo, la maturità romana, l'ultima fase di elaborazione con le versioni postume, ecc.). E proprio nella direzione di un sintomatico risveglio di attenzioni per la negletta materia, si pone oggi il lavoro di Sharon Wood,10 specificatamente dedicato ai racconti di Grazia Deledda, finalizzato ad offrire un primo indicativo bilancio della vasta produzione degli anni 1890-1915, licenziata dalla nuorese in varie sedi editoriali e poi confluita in specifiche sillogi. Muovendo dall'assunto che quei testi risultino perfettamente in grado di delineare «un mondo, uno stile e una varietà notevolmente più ampi e di una leggerezza significativamente più marcata di quanto la critica tradizionale deleddiana, con la sua enfasi sulla tragedia sociale e sul dissidio psicologico abbia voluto far credere»,11 la studiosa britannica si è proposta di documentare come l'approfondimento localizzato su simili esperimenti narrativi favorisca l'affiorare di una «voce assolutamente personale», ma anche e soprattutto «notevolmente più ricca e ironica di quanto non sia stato sin qui riconosciuto».12 Sulla stessa scia, in tempi ancor più prossimi, Dubravka Dubravec Labaš, autrice di un documentato resoconto sul proficuo soggiorno romano della Deledda,13 non ha lesinato specifiche attenzioni (seppur condensate in Appendice14) alla complessiva produzione 'minore' di quella narratrice che «negli ultimi anni della sua vita ha scritto più novelle che romanzi»,15 segnalando la generale vivacità espressiva di quel fecondo genere, valutata in stretta sincronia con le coeve esperienze romanzesche. Un chiaro impulso anche questo, dunque, offerto alle indagini indirizzate sul tema, uniformato al saldo obiettivo di «richiamare l'attenzione su questa parte trascurata dell'opus di Grazia Deledda, che benché non abbia, in generale, la forza e la profondità dei suoi migliori romanzi, non dovrebbe essere completamente evitata e tralasciata, dato che anch'essa fa parte del suo patrimonio letterario».16
Non è questa la sede per addentrarsi nell'impervio sentiero di una proposta critica d'insieme, problematica ed esauriente, che abbia come proprio oggetto di riferimento un ambito narrativo così fluido e multifario, e perciò sfuggente per sua natura a ogni ipotesi di considerazione unitaria. Un ambito che necessita di un'attenta e minuziosa disamina, tesa a rinvenire precise indicazioni stilistiche e contenutistiche, a saggiare altresì i reali motivi ispiratori, i punti di forza e di debolezza, i segnali di convergenza o divergenza rispetto alla restante produzione "alta" della scrittrice e così via. Una simile proposta, infatti, richiederebbe ben altro spazio e ben più velleitari propositi, che esulano dalle finalità specifiche di questo contributo. Pur tuttavia, un approccio metodologicamente fondato alla questione credo che non escluda la possibilità di vagliare singolarmente i novellieri deleddiani, nel tentativo di segnalare elementi e caratteri peculiari che distinguono una determinata raccolta nel confronto con i consimili casi. Un'analisi concentrata su una specifica silloge di testi, infatti, potrebbe rivelarsi preziosa al fine di illuminare una determinata esperienza compositiva, alla luce di taluni interessi coltivati e al contempo di taluni obiettivi programmaticamente perseguiti in una precisa epoca creativa. Ciò consentirebbe anche di rifuggire da certi appesantimenti compilativi riguardanti l'intero campionario della narrativa breve della Deledda, risolti all'insegna di una monotona e poco accattivante elencazione d'intrecci, figure e topoi, spesso ripetitivi e sovrapponibili l'uno con l'altro. Un'inveterata soluzione, quest'ultima, valida senza dubbio a ragguagliare sotto l'aspetto informativo-divulgativo, ma inadeguata nella fattispecie al conseguimento di un autentico progresso critico-interpretativo. Considerato pure che tali testi non sono nemmeno esenti da implicazioni di natura filologica.17 Da uno studio individualizzato, invece, non è escluso che possano rinvenire sorprese, talvolta pure clamorose, capaci di apportare un reale progresso conoscitivo in merito all'ignorata materia.

 

§ III. L'itinerario della memoria Torna al sommario dell'articolo

II. La scelta di campo di Nell'azzurro

Si prenda come esempio il caso della prima silloge pubblicata dalla diciassettenne18 Grazia Deledda nel 1890, presso l'editore Trevisini (Milano-Roma), intitolata Nell'azzurro. Composta di complessive 147 pagine, essa include cinque novelle, tre delle quali inedite (Vita silvana, Una terribile notte, La casa paterna), mentre le restanti due (Sulla montagna e Memorie infantili) qui confluite dopo essere precedentemente apparse, rispettivamente nel 1888 e nel 1889, sul settimanale illustrato «Paradiso dei bambini», edito a Roma da Edoardo Perino.19 Questa prima raccolta di novelle dell'autodidatta letterata isolana a buon diritto sarebbe stata giudicata dallo stesso editore Trevisini, come recita una nota posta a fine volume nell'edizione del 1929, un chiaro «documento bibliografico». E ciò perché in quei racconti, «attraverso le ingenuità della narrazione e gli errori della forma», si potevano felicemente riconoscere «i germogli di un'arte che, di ascesa in ascesa, procurò all'opera della scrittrice sarda fama mondiale».20 Si trattava insomma di racconti della fanciullezza, ma anche scritti per la fanciullezza, dal momento che erano dall'autrice destinati espressamente ad un pubblico giovanile. Lo comprova la dedica anteposta alla prima uscita del volume (1890), nella quale la Deledda si rivolgeva a lettori ben definiti, offrendo peraltro elementi chiarificatori in merito al titolo assegnato alla raccolta. Ecco cosa scriveva a tal proposito, con in calce l'indicazione cronotopica Nuoro, Agosto 1889:

«Nel pensare a voi, nello scrivere per voi, piccole creaturine che vi chiamate Bambini, siate poveri o ricchi, belli o brutti, buoni o cattivi, biondi o bruni, l'anima vola

...di fiore in fiore, di montagna in montagna,
...ai campi d'azzurro!»

Ecco perché posi questo titolo - Nell'Azzurro!... - al presente volumetto; se nel leggerlo proverete lo stesso piacere ch'io provai nello scriverlo, oh, davvero, sarò la più felice fra le scrittrici!21

Una chiara scelta di campo, dunque, quella della debuttante narratrice, che consapevole delle finalità insite nell'avallata operazione letteraria si proponeva di solcare e al contempo imprimere una propria orma nei territori della letteratura per l'infanzia. Un genere letterario, quest'ultimo, che vantava già all'epoca una fisionomia e uno statuto epistemologico ben definiti, alimentati da tutto un fervore di opere e iniziative editoriali apparse in Italia all'indomani dell'Unità. Tra queste si distinguevano le vitali esperienze di autori del calibro di Carlo Collodi e di Edmondo De Amicis, entrambi artefici con le loro opere più celebri (Pinocchio e Cuore) di un'operazione culturale tesa a costruire le fondamenta di un tessuto etico-civile e pedagogico-sociale ancora tutto da impiantare nella neonata nazione. Ebbene, a fronte di tali specifiche finalità programmatiche, dichiarate esplicitamente dalla stessa scrittrice in apertura di opera, pochissime riflessioni al riguardo si riscontrano nelle scarne menzioni riservate a tale primo esperimento collettaneo della Deledda. Invece, non era evidentemente estraneo alla ricettiva fanciulla barbagina quell'acceso fervore riconducibile alla fitta pubblicistica coeva dedicata al mondo dell'infanzia, seppur intercettato da una svantaggiosa angolazione geografica, quale quella costituita dalla periferica e attardata realtà sarda fine-ottocentesca. E di quanto ella si abbeverasse, ad esempio, alla fonte deamicisiana lo attestava un'inequivocabile dichiarazione inframmezzata al corpo della novella Memorie infantili, allocata proprio in Nell'azzurro. In essa, giustificando la scelta tematica (la rievocazione dell'infanzia appunto, introdotta dall'interrogativo retorico se quest'ultima fosse davvero «una parola magica e misteriosa, un geroglifico orientale, inteso indistintamente dall'anima, dalla mente, dal cuore, nei quali desta ricorsi soavi, dolcissimi, benché sfumati tra le nebbie del passato, e sorrisi vagolanti e dolci come quei ricordi, e sussulti di rimpianto e dimenticanze del presente?»22), l'autrice-narratrice del racconto pensava bene di sciogliere un caldo tributo proprio alla figura dello scrittore di Oneglia, abbandonandosi a una sincera e rivelatrice confessione: «Se avessi per un giorno la penna di uno dei nostri più grandi scrittori, - del De Amicis, per esempio, - io l'adopererei e rapidamente per scrivere le memorie della mia infanzia».23 Del resto, allo stesso De Amicis rimandava nel complesso certo colorismo bozzettistico della rappresentazione di ambienti e personaggi, che ancora a quell'altezza cronologica intercettava gli esiti della novella tardo-ottocentesca, per nulla immune dai condizionamenti calligrafici e figurativi esercitati da quel genere minore e marginale (il bozzetto appunto), che grazie ai quadretti di vita militare affrescati dall'autore di Cuore negli anni Sessanta era assurto a qualche livello di consacrazione letteraria.24 Pure per tali ragioni, la stessa Deledda avrebbe presentato i suoi primi lavori come «bozzetti»25 (ma anche «novelline ingenue», «scritti puerili»,26 e così via), contentandosi all'epoca di «schizzare» se non eseguire «un vero quadro»,27 dal momento che si trattava di esili prove risolte all'insegna di un ingenuo descrittivismo naturalistico, adeguate a intrecci semplici ed elementari, nonché uniformate a una caratterizzazione psicologica dei personaggi ancora stilizzata e convenzionale. Difficilmente, dunque, si potrà negare che esse si caratterizzino per una sostanziale «ingenuità di sentire e d'espressione», in un quadro stilistico in cui «frequentemente la grammatica e la sintassi sono scarse, non rare le improprietà del linguaggio» e che denota altresì «una generale immaturità», essendo inficiato peraltro «dalle citazioni che, qua e là, l'esordiente s'affanna a trascrivere dalle sue prime letture».28 Meno condivisibile è invece l'idea che quel volumetto destinato a un pubblico giovanile, che nei soggetti e nelle trame ricalcava i romanzi d'appendice, risulti «insignificante per la banalità dei temi e dell'esposizione».29 Non si farebbe infatti un buon servizio alla critica deleddiana riducendo semplicisticamente quei lavori a esercizi di scrittura «ridondanti e scorretti, ricalcati su triti schemi di romanzetti per signorine»,30 costituendo essi invece vivide testimonianze dell'avvio di una fase di sperimentalismo letterario, concernente stili, temi e soluzioni che di lì a poco sarebbero stati disciolti dalla giovane nuorese in moduli compositivi più elaborati e formalizzati, come avrebbe attestato la sua produzione a venire. Ma non soltanto quelle novelle risultano interessanti per i loro spunti anticipazionistici, fornendo cioè «qualche presagio del futuro»31 dal quale prendere le mosse «per sorprendere "i primi passi", le fantasticherie e i sogni della scrittrice esordiente».32 Piuttosto, esse acquistano un più sicuro valore e un più giusto significato alla luce degli orientamenti di scrittura palesati, tesi a far confluire quella scelta esordiale proprio nel genere della letteratura per l'infanzia. Muovendo da tale presupposto, infatti, è possibile rendicontare meglio gli esiti di quei puerili e ingenui esperimenti, tenuto conto di una disponibilità alla scrittura giovanile autenticamente avvertita dalla Deledda e usufruita nel segno di una affiorata vocazione didattica e moralistica, comprovata pure da talune sue ammissioni in proposito. Ecco, ad esempio, cosa ella scriveva all'amico sassarese Stanis Manca il 20 dicembre 1893, in una missiva che vale la pena di riportare per intero:

«...Ma c'è ancora della gente buona, per cui bisogna vivere. Sono i bambini. Se io guarirò bene, entrerò dunque a far da direttrice nell'asilo infantile che sorge ora a Nuoro, e mi dedicherò esclusivamente alla letteratura infantile, ma una letteratura gaia, splendida e bella come i bimbi che la meritano, non una letteratura convenzionale e noiosa per bambini quale esiste ora in Italia. Se fra uno o due mesi vi degnerete scrivere qualcuno dei vostri cari bigliettini, mi darete il titolo di Signora Direttrice: oh! Che piacere! Mi daranno uno splendido alloggio, servitù e uno stipendio forse uguale a quello che guadagnate voi alla «Tribuna». Tutta la mia esistenza cambierà ed io spero di obliare le sciocchezze del mio breve passato, immergendomi tutta nella mia missione. Ve la figurate voi la mia fine silhouette, nera e pallida, guidando a spasso una sessantina di marmocchi dalla blusa turchina o assistendo alla manipolazione del loro pranzo?
Lasciando gli scherzi vi dirò in verità, che, se guarirò bene, entrerò con piacere a far questa vita, per vedere di vivere davvero».33

 

§ IV. Una poetica per la letteratura per l'infanzia Torna al sommario dell'articolo

III. L'itinerario della memoria

Evidenti, dunque, stando a tali dichiarazioni, gli interessi a quell'epoca coltivati dalla esordiente scrittrice per il mondo dell'infanzia e la letteratura ad esso dedicata. Ciò significa che le storielle raccontate in quel suo «povero volume» intitolato Nell'azzurro, scritto espressamente «per una classe di piccoli personaggi con cui bisogna bamboleggiare»,34 come ella stessa avrebbe tenuto a precisare con la raccomandazione di leggerlo «con indulgenza», sia per la presenza di «qualche imperfezione» sia per taluni «orrendi errori di stampa»,35 trovano giustificazione proprio alla luce di quel programmatico impegno di scrittura. Agganciato, questo, nelle intenzioni della novellatrice in erba, a un'esigenza di edonistico intrattenimento certamente, com'era implicito nello stesso genere narrativo utilizzato, ma al quale tuttavia si voleva verosimilmente affidare anche una valenza pedagogico-formativa (in tempi di «sostanziale disimpegno [...] nei confronti di un'ottica autenticamente pedagogica»36), volta quasi a risollevare le sorti dell'arretrata realtà culturale e intellettuale del proprio paese, investendo le nuove generazioni del progetto diffusamente avvertito di cambiamento e d'incivilimento.37 Non era affatto un caso che la prima novella della raccolta, Vita silvana, si aprisse con una dedica «a una bionda e piccola lettrice», a cui non si offriva «un romanzo» bensì una «storia vera», incentrata sulla vicenda di un'orfanella, Cycitella, novella Heidi capitata in un bosco tra le montagne sarde, lì allevata con cura dal pastore Bastiano38 e infine ricongiunta al padre naturale a cui era stata rapita dodici anni prima. Trasferitasi poi a Roma al seguito del genitore, la fanciulla avrebbe fatto periodicamente ritorno in Sardegna, a resuscitare in quella «povera, deserta e solitaria terra», ribattezzata «la sua patria»,39 gli entusiasmi infantili gioiosamente collezionati. Una storia di "sopravvivenza" e di "crescita" a lieto fine, dunque, supplementare esempio di quella «filosofia dell'orfanezza»40 abbondantemente esperita nelle consimili prove narrative ottocentesche (sui modelli di Charles Dickens, Henri Malot, Victor Hugo41), non priva di risvolti autobiografici, com'era tipico delle novelle deleddiane di questa e di altre raccolte. Presentata con «l'enfasi ingenua di una composizione scolastica»,42 essa era inscenata con i contorni topici della fiaba iniziatica, modello strutturalmente assimilabile a un piccolo Bildungsroman nella narrativa adolescenziale coeva e posteriore (vedi i casi di Collodi, Perodi, Capuana, Invernizio, ecc.), che in quelle forme emblematizzava le «prove di accesso del ragazzo alla comunità adulta», con accento posto sulla «reattività critica e autocritica dimostrata dal protagonista».43 Era quello che accadeva pure, e in maniera più vistosa, in Una notte terribile, dove il fanciullo protagonista, Ardo, sia per l'indole ribelle (mandato dal padre a comprare del formaggio non fa ritorno a casa e si perde nel bosco della Gallura), sia per le peripezie innescate dal suo gesto di ribellione (s'imbatte in una vecchia e tre donne che gli rubano il formaggio; è coinvolto nel furto di un anello da una tomba; si ritrova lì rinchiuso e rocambolescamente liberato da tre ladri; alla fine 'sepolto vivo' in una botte e salvato da un cinghiale, sino al sospirato rientro a casa senza alcun premio o ricompensa finale), ha fatto giustamente pensare all'exemplum novellistico dell'Andreuccio boccacciano.44 Baricentro narrativo di tutto il racconto, l'atto di disobbedienza (parola più volte invocata dallo stesso protagonista, quasi «una presenza ossessiva che gli si rivela nei momenti di maggiore tensione narrativa»45) sarebbe costato caro al monello Ardo,46 subentrando ad esso la punizione e il castigo, anticamera della conclusiva redenzione finale, giunta a seguito di un affiorato dibattito di coscienza: motore primo della prospettiva evoluzionistica nei racconti di formazione dell'epoca. I modelli di Boccaccio, Collodi e De Amicis, dunque, cooperavano qui congiuntamente a una rappresentazione dell'infanzia di per sé alquanto consueta e convenzionale, se non fosse per la prefigurata presenza di una possibile morale alternativa, costituita da «una subconscia attrazione e apprezzamento per il potenziale beneficio a lungo termine dell' "errare" (nella sua duplice connotazione spaziale ed etica) e/o del disobbedire», esibita dalla Deledda in filigrana pure per autobiografico coinvolgimento.47
Ma il motivo del viaggio o dell'avventura errabonda, quale «metafora potentemente pedagogica» simboleggiante la «rappresentazione narrativa dell'esistenza, dei suoi pericoli, delle sue fatiche e delle sue speranze»,48 annoverava nell'officina della novellatrice nuorese non soltanto le declinazioni dello spostamento spaziale e morale (rappresentato anche in forma di passeggiata o di pellegrinaggio), ma pure quelle, più mentali che fisiche, dell'itinerario memoriale. Al frammento novellistico Sulla montagna, cronaca in forma diaristica di una processione verso una chiesetta di montagna, protagonista una giovane donna che racconta e descrive i fatti in prima persona, ritraendo luoghi, paesaggi e personaggi dell'Ortobene con effetti coloristici pure denotativi del primigenio lirismo naturalistico dell'autrice, facevano seguito, nel rispetto di quelle declinazioni, le raffigurazioni degli spazi della memoria nelle novelle di più ampio respiro Memorie infantili e La casa paterna. In questi ultimi i casi, le rimembranze del tempo felice dell'infanzia (che era ovviamente quello della Deledda) divenivano il nucleo di attivazione dei canali diegetici, scanditi dalla solita e abbondante messe di rimandi autobiografici, in un tono intimo di confessione conferito alla pagina dall'utilizzo sempre della forma diaristica. Autobiografismo facilmente rinvenibile, ad esempio, dalla circostanza del primo ricordo attinto al serbatoio delle proprie Memorie infantili dall'anonima voce narrante dell'omonima novella, e cioè gli anni dell'asilo, la scuola «di giuochi, gioie e di dolori»49 costellata di chiassose ricreazioni in cortile, di battibecchi con le compagne, punizioni scontate e così via. Spaccati di autentica spensieratezza, «di gioia infantile, immensa pura»,50 che la Deledda descriveva rievocando i lieti momenti d'incontro con le fedeli compagne di gioco, oppure le ore solitarie trascorse in casa propria a curare quelle «dilettissime figlie»51 che erano le sue bambole: «un altro nome che non si può staccare da quello dell'infanzia».52 Ma il flusso memoriale poteva scorrere efficacemente anche lungo i binari della finzione narrativa, secondo quanto accadeva in La casa paterna, allorché simulando un ritorno fisico e mentale ai luoghi della propria infanzia isolana, la visita alla casa d'origine diveniva nell'immaginario figurativo della diciassettenne scrittrice fonte inesauribile di ricordi mitici e archetipici, dolcemente e nostalgicamente recuperati (il rapporto col fratello e i genitori, il ruolo della governante, gli animali domestici, l'orticello, la cameretta, ecc.). Su di un piano di proiezione fittizia in uno stadio di età adulta, indossate le vesti del suo alter ego Jole, protagonista del nostalgico nostos, ella riaccendeva immagini, pensieri, sensazioni riconducibili all'epos familiare dell'età infantile (nucleo germinale della rievocazione più compiuta e fedele esposta in Cosima53). Sebbene nell'artificio narrativo essi apparivano inficiati dal tipico spaesamento scaturito dall'avvertimento del contrasto tra ciò che fu e ciò che non era più, a determinare la sopraggiunta consapevolezza dell'irrecuperabilità di quella stessa stagione («Tutto è desolazione, oscurità, tanfo in questa stanza, una volta sì gaia, sì ricca di luce e di fiori»54). Un transfert immaginativo nel mondo delle proprie radici, a cui non poteva sfuggire il riferimento ai tormentati sogni di gloria degli esordi,55 e dove pure compariva un messaggio latamente educativo, in linea con le finalità proprie di quel genere di scrittura. Messaggio affidato a talune sottolineature moralistiche, sottese alla rappresentazione d'ingenue forme bambinesche di peccato, testimoniate nella novella da acerbe manifestazioni di ozio, vanità ed egoismo (Jole che si guarda allo specchio compiaciuta, oppure che insiste affinché il padre abbandoni il lavoro di medico tanto caritatevolmente e altruisticamente esercitato anche in tarda età, ecc.). Puerili atteggiamenti, ovviamente, ma pure suscettibili di ammaestramenti di taglio educativo-edificante (lezioni di vita volte a richiamare il senso del dovere), impartiti a Jole-Grazia dai genitori con conseguenti ravvedimenti finali da parte della coscienziosa fanciulla.

 

§ V. La collaborazione con Il Giornalino della Domenica Torna al sommario dell'articolo

IV. Una poetica per la letteratura per l'infanzia

Anche da tali risvolti emerge la precoce sensibilità e la capacità di penetrazione psicologica che l'autodidatta Deledda mostrava di avere nei riguardi dell'animo ingenuo e talvolta misterioso dei fanciulli. Frutto a quell'età delle sue esperienze scolastiche o del tempo trascorso insieme con i fratelli minori, ma anche della frequentazione di quel gruppo eterogeneo di avventori, fanciulli compresi, che quotidianamente faceva visita al frantoio di famiglia. Un dato biografico, questo, che avrebbe consentito alla scrittrice di entrare in contatto con tutti quei personaggi che sarebbero poi divenuti i protagonisti attivi delle sue trame narrative. Laddove l'infanzia sarebbe risultata sempre dipinta come età della curiosità e della spensieratezza, ma anche, in forme meno idealizzate, dell'errore, della disobbedienza e dell'inesperienza. Da qui l'intento pedagogico di ammaestrare-divertendo il pubblico dei propri piccoli lettori, infondendo loro fiducia nelle possibilità di crescita e di maturazione, decretate dalla proposta di concreti (più che fantasiosi o fiabeschi) modelli di comportamento degni d'imitazione-emulazione. È questa, infatti, l'unica ricompensa assegnata al superamento delle prove d'iniziazione affrontate da quei giovani protagonisti, la cui vittoria finale consisteva unicamente nella piena realizzazione di sé, nella fortificazione del proprio carattere e della propria volontà, anticamera dell'agognato inserimento nella comunità adulta. Tutto ciò all'insegna di un progetto educativo che faceva leva non sulla scuola o sull'istruzione, come accadeva ad esempio in De Amicis, ma piuttosto sull'esperienza empirica e su un principio di auto-formazione e di auto-affermazione più incline al ben noto modello pinocchiesco. E pure alla luce di tali finalità programmatiche andava inquadrata la scelta di puntare linguisticamente a un dettato semplice ed elementare, chiaro e comprensibile (sintassi semplificata, costrutti coordinativi, tratti vernacolari, ecc.), capace di attivare fruttuosamente nei lettori i meccanismi dell'immedesimazione e della compartecipazione.
Del resto, la Deledda, sospinta dai propri convincimenti in materia, non avrebbe fatto mistero della sua prevenzione per quelle storielle morali dove «i personaggi sono marionette più o meno abilmente, ma sempre meccanicamente, mosse» e nelle quali «naturalmente i fantocci buoni finiscono con l'ottenere un premio e quelli cattivi un castigo». E accordava piuttosto la sua preferenza a «quelle novelle per bambini, scritte per essere lette dai grandi», laddove «tutto: ambiente, paesaggi, personaggi, tutto vi è dipinto e scolpito con maestria semplice, [...] quasi primitiva, ma appunto perciò efficacissima».56 Era il caso, ad esempio, de Il birichino di papà, romanzo della scrittrice tedesca Henny Koch incentrato sulle peripezie di una ragazzina ribelle ma alla fine redenta, che incontrò i suoi interessi appena uscito (1905), complice quella trama «ove le passioni umane hanno una sfumatura ideale».57 Resasi subito disponibile a firmare la presentazione della traduzione italiana dell'opera, la Deledda avrebbe approfittato della circostanza per esprimersi su quel genere di letteratura per l'infanzia, il cui successo andava riconosciuto a suo dire nella «misteriosa potenza di suggestione con la quale soltanto l'arte vera sa far rivivere i personaggi di un racconto». Potenza di suggestione da lei concepita come il «dono magnifico» di quell'artista in grado «di farci amare e parer vive, più che migliaia e migliaia di persone veramente vive, vicine eppur tanto lontane da noi, creature mai vissute altrove che nelle pagine di un libro».58 I canoni della riproduzione dal vero, della figurazione icastica, e al contempo dell'instillata compartecipazione emotiva nel lettore, posti in generale a fondamento della propria attività di scrittura, in quell'abbozzo di dichiarazione di poetica si stagliavano dunque quali prescrittivi vincoli normativi da far valere pure nell'ambito della letteratura bambinesca, ritenuti coerentemente validi ai fini di una proposta artistica dignitosa e credibile. Per lei che sapeva trarre ispirazione dal «libro aperto della vita», copiando fedelmente «sulla carta ciò che è realtà»,59 rivendicando sempre l'opportunità di un disegno etico alla base della caratterizzazione dei suoi personaggi,60 non potevano di certo ritenersi peregrine quelle sottolineature. Specie se concernenti un genere particolare di esperienza narrativa, quale quella destinata a un pubblico infantile e adolescenziale, rivelatasi fino allora perlopiù «convenzionale e noiosa» in Italia, come la Deledda ebbe a segnalare a Stanis Manca,61 ma a cui spettava invece tutt'altra identità e connotazione («gaia, splendida e bella come i bimbi che la meritano»). Perciò, riscontrando in alcuni esiti qualità proprie di una scrittura "alta", tali da farne dei modelli virtuosi degni d'imitazione, era come se ella ammettesse implicitamente che quel genere poteva in qualche maniera aspirare, dinanzi a convergenti soluzioni espressive e analoghi intenti d'arte, al raggiungimento dei piani più nobili della letteratura ufficiale.

 

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V. La collaborazione con «Il Giornalino della Domenica»

Una riprova di quanto il suo non fosse un episodico vagabondaggio né un occasionale "sconfinamento"62 nei territori narrativi infantili, e pure al contempo di quanto ella intendesse incidere in quel filone con una propria proposta, è offerta anche dalla collaborazione prestata al più importante periodico italiano novecentesco per ragazzi, il settimanale illustrato «Il Giornalino della Domenica» di Vamba. Impresa pubblicistica avviata da Luigi Bertelli nel 1906, con la partecipazione dell'editore fiorentino Enrico Bemporad, assai attivo in quegli anni nel campo dell'editoria scolastica, il «Giornalino» coltivò l'ambizioso progetto di offrire alle nuove generazioni «un'opera di formazione etico-politico e di animazione delle coscienze, capace di ridestare il sentimento della patria e l'effettiva assunzione di una nuova e più solida concezione della cittadinanza e delle responsabilità sociali».63 Alla luce di tale intento, il Bertelli volle attingere al campionario delle espressioni del panorama letterario coevo quotate figure di collaboratori esperti della materia (Emilio Salgari, Ada Negri, Ida Baccini, Renato Fucini, Luigi Capuana, Giovanni Pascoli, Edmondo De Amicis, Matilde Serao, ecc.), tra i quali a buon diritto figurava anche la Deledda. Evidentemente, i riscontri ottenuti con i romanzi di quegli anni (Elias Portolu, Cenere, Nostalgie, L'edera), non avevano distolto la nuorese dall'interesse per la scrittura di taglio giovanile. Così, riconoscendosi a pieno nel manifesto elaborato dagli artefici dell'iniziativa,64 nell'agosto del 1909 ella avviò le trattative con Vamba per ufficializzare la collaborazione al giornale, facendosi pure interprete degli entusiasmi dei suoi piccoli conterranei per quel personaggio dai tratti fiabeschi e leggendari, generato dalla fervida fantasia del brillante giornalista toscano. Scriveva infatti al Bertelli il 17 agosto 1909: «Quassù io mi trovo in mezzo a molti bambini e fanciulli amici del Giornalino: si parla continuamente di Vamba come di un personaggio che stia laggiù, sull'orlo del bosco, ad ascoltare, e del quale, quindi, si debba parlar forzatamente bene!».65 Non mancarono, in verità, gli ostacoli al raggiungimento dell'intesa. La Deledda, infatti, sagace amministratrice delle proprie finanze, si rifiutava di vendere la proprietà assoluta delle sue novelle, secondo quanto il Bertelli le andava richiedendo.66 Sebbene tuttavia l'accordo fu alla fine raggiunto, grazie anche all'intermediazione dell'illustratore sassarese Giuseppe Biasi.67 Quest'ultimo, interessato a prestare la propria esperta matita ai racconti deleddiani, intervenne a più riprese per scongiurare lo stallo delle trattative, recependo tutta l'importanza della buona riuscita dell'operazione. Sarebbe stato un peccato, infatti, non sfruttare quella ghiotta occasione, da cui sarebbe potuta venir fuori una «cosa veramente interessante», come il Biasi stesso confidò al Bertelli in una lettera del 26 agosto 1909,68 paventando il rischio di una diversa collocazione di quei prodotti. Con queste parole, a un certo punto, il Biasi si decise a esortare Vamba, invitandolo a concludere l'affare, non senza contemporaneamente sponsorizzare la causa dell'emergente astro del firmamento nazionale:

«Sono stato a trovare la Deledda e mi sono inteso subito per le illustrazioni. Questa donna intelligentissima s'intende bene di ogni cosa. Mi sono rivestito della mia qualità d'avvocato e sono preparato per la buona causa del «Giornalino», ma son riuscito a poco perché questa donna che è stata assai sfruttata in passato non vuol muoversi che per il tempo necessario, e teme sempre di essere sfruttata. Mi disse che per il volume poi da pubblicarsi desidera delle proposte convenienti perché ella lavora e lavora assai e alla gloria è alquanto indifferente. Peccato perché da quanto mi ha accennato verrebbero fuori delle cose veramente deliziose, cose veramente osservate e sentite di una originale e vivace pittura infantile che otterrebbe senza dubbio un bellissimo successo».69

E vi aggiungeva poi, in conclusione, quale personale nota d'encomio, la sottolineatura che «i lavori della Deledda valgano qualche cosa di più perché sono cose coscienziosissime e cose d'Arte».70 Come detto l'accordo alla fine si trovò, e il 14 ottobre 1909 la Deledda poté inviare al «Giornalino» la sua prima novella, Il maialino di Natale, apparsa sul numero del 26 dicembre dello stesso anno. Come ella precisò al Bertelli nella circostanza dell'invio, le novelle che si sarebbe impegnata a scrivere, tutto dello stesso genere e della stessa lunghezza, sarebbero state indistintamente animate dallo scopo di «dare ai giovani lettori nozioni degli usi, dei paesaggi, dei tipi, dei caratteri sardi, nonché della storia e della geografia e dei monumenti dell'isola».71 Che erano in fondo i capisaldi descrittivi di tutta la sua arte,72 sebbene qui riadattati in funzione dei gusti e delle aspettative dei più giovani fruitori. Quello che è certo è che, tra il 1909 e il 1911, vi apparvero tre lavori della scrittrice (Il maialino di Natale, I sette fratelli, I tre vecchi73), tutti e tre felicemente illustrati da Giuseppe Biasi, che in essi vi riversò «la sua strategia rappresentativa di grande efficacia, incentrata sulla forza icastica dell'emblema, su un'immagine di concisione quasi araldica, capace di catturare lo sguardo e di trattenerlo con l'intensità di un'icona».74
I rapporti tra la Deledda e Vamba s'interruppero proprio nell'anno di stagnazione del settimanale, il 1911, quando le subentrate difficoltà economiche e la concorrenza del «Corriere dei piccoli» ne decretarono la sospensione delle pubblicazioni.75 La crisi dovette ormai essere irreversibile quando, il 28 ottobre 1911, la Deledda giunse a lamentarsi col Bertelli per le mancate risposte alle sue missive, minacciando addirittura di ricorrere alle vie legali qualora il direttore non le avesse restituito il manoscritto di Una passeggiata, oppure corrisposto il compenso de I tre vecchi. Rimaneva comunque intatta la soddisfazione di aver preso parte a quell'esperienza pubblicistica italiana di sicuro impatto formativo ed emotivo sul pubblico giovanile, segmento di consumo letterario sul quale ella pure aveva acceso i riflettori nel corso della sua prolifica carriera, nell'ottica della promozione di solide istanze valoriali e identitarie. Le quali, lungi dal passare dalle aride e monotone formule del nozionismo scolastico, avevano piuttosto sfruttato alternativi canali paralleli, esaltanti sempre la valorizzazione del senso pratico dell'esistenza. E ciò all'insegna di una proposta pedagogica dagli effetti più incisivi sulle dinamiche di costruzione della nuova cittadinanza italiana, con ricadute concrete nella vita politica e sociale coeva. Tali assiomi, insomma, avrebbero caratterizzato la produzione narrativa che la Deledda dedicò al mondo dell'infanzia, abbracciata nel solco di una vocazione avvertita sin dai primi tempi della sua scrittura,76 ma che non avrebbe mancato di palesarsi pure nelle fasi più mature, disciolta come fu in figure, tematiche e atmosfere ancora attinte a quel florido bagaglio d'inventività giovanile (che vantava anche filastrocche, fiabe e leggende), sebbene non più programmaticamente usufruito.
Fu un tassello peculiare anche questo, dunque, del mosaico sperimentale della scrittrice premio Nobel, che sebbene risulti ignorato anche dalle sistematizzazioni teoriche e antologiche relative al genere della letteratura per l'infanzia,77 ebbe a rappresentare invece un ulteriore elemento di freschezza e di vitalità in dote al suo composito edificio narrativo. Non desta perciò stupore, in tale direzione, nemmeno quell'incarico a lei commissionato nel 1931, in pieno ventennio fascista, di attendere alla compilazione delle letture de Il libro della terza classe elementare,78 testo unico in uso nelle scuole italiane, a sancire ancora in tarda età il riconoscimento della vocazione etico-didattica dell'onorata narratrice nuorese, messa fruttuosamente al servizio delle giovani generazioni.

 

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