Andrea Rondini
Autobiocritiche nella letteratura italiana contemporanea

 

Scheda bibliografica Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni Togli testata Salva il frame corrente senza immagini Stampa il frame corrente Apri in formato PDF


Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
Ermeneutica e autobiografia
Antonio Pascale, «Questo è il paese che non amo»
Tommaso Pincio, «Hotel a zero stelle»
Emanuele Trevi, «Qualcosa di scritto»
Eraldo Affinati, «Peregrin d'amore»
Massimo Rizzante, «Noi siamo gli ultimi»
Conclusione


 

§ II. Antonio Pascale, «Questo è il paese che non amo»

I. Ermeneutica e autobiografia

Tra i fenomeni che caratterizzano la letteratura italiana di questi anni sembra emergere una particolare declinazione del modo di praticare la critica in cui l'approccio al testo e il rilievo d'analisi sono uniti al racconto di momenti della vita del critico, a formare un ibrido tra cadenza narrativa autobiografica e lettura interpretativa strettamente intesa (ibrido che viene qui denominato autobiocritica). Si tratta di una tendenza che può essere accostata alla centralità del cammino di vita e alla seduzione del bios come elemento unificatore dell'esperienza1 e alla poetica ipermoderna di cui si inizia a discutere anche in Italia.2 Un autobiografismo comunque diverso da quello - a ragione stigmatizzato - di tipo grezzamente ostensivo e privo di mediazioni linguistico-simboliche.3 A partire dagli statuti enunciativi, anch'essi ibridi, se l'autobiocritica possiede una componente narrativa bisogna allora postulare una differenza, uno scarto tra autori e narratori, la medesima differenza che esiste tra l'autore fisico di un romanzo e il suo narratore4 (tra l'altro alcuni di questi testi hanno una struttura esibita: per esempio, Hotel a zero stelle di Pincio ricalca la Commedia dantesca, Qualcosa di scritto di Trevi è un romanzo di formazione); eppure, la scrittura autobiocritica non rinuncia a presentare e ad accreditare la voce narrante come il vero autore, a non dimenticare la realtà del vissuto di chi scrive (una ricognizione strettamente narratologica di tali libri, pur plausibile, sarebbe forse in qualche modo contraddittoria rispetto alla loro natura).
Nelle pagine seguenti non si proporrà un'interpretazione dei singoli testi analizzati e dei loro aspetti peculiari,5 che richiederebbe una trattazione specifica, quanto, piuttosto, una ricognizione circa la forma che in essi assume la lettura delle opere letterarie, in particolare il nesso, presente non poche volte, tra l'autobiografismo e il tema del falso.

 

§ III. Tommaso Pincio, «Hotel a zero stelle» Torna al sommario dell'articolo

II. Antonio Pascale, «Questo è il paese che non amo»

Il libro di Antonio Pascale Questo è il paese che non amo è una narrazione e una riflessione sulle modalità di rappresentazione letteraria e mediatico-comunicativa del Male; agli occhi dell'autore la contemporaneità scrive il Male per uno scopo fondamentalmente estetizzante e compiaciuto. Attorno a questo nucleo concettuale, già di per sé significativo nel presente discorso declinato sulle frontiere del vero e del falso, si dispongono le considerazioni su eventi musicali (il Live Aid del 1985 organizzato da Bob Geldof e la canzone We are the world), su polemiche cinematografiche (il giudizio negativo espresso dalla critica francese su Kapò di Pontecorvo per aver filmato, a loro dire con un eccesso di virtuosismo registico, la morte di un'internata in un Lager nazista), su saggi e libri (dalle pagine di Mimesis di Auerbach a quelle dell'Elizabeth Costello di Coetzee), su fatti di cronaca (le presunte violenze inflitte ai bambini di un asilo vicino Roma, il caso di Eluana Englaro).
Questo palinsesto teorico è continuamente scandito, oltreché dalla storia politica italiana recente, dalle vicende personali della voce narrante. La componente autobiografica si intreccia al dibattito delle idee, anzi quest'ultimo è ripercorso in qualche modo sulla propria biografia. Si tratta di una forma enunciativa che non è solo la cornice della sostanza speculativa ma la sua prima dizione, il suo enzima principe, il seme esperienziale.
Il libro di Pascale (o, allora, del personaggio 'Pascale', secondo quanto prima detto) si apre, con scansione temporale di taglio narrativo («Durante la giornata di sabato 13 luglio 1985»6), il giorno in cui il protagonista guarda in televisione il concerto organizzato da Bob Geldof per contribuire a sconfiggere la fame in Etiopia e si chiude con le sue riflessioni mentre accompagna il figlio a scuola. Si tratta di un vero e proprio micro-romanzo di formazione, dal disinteresse totale provato inizialmente per gli etiopi mediatici alla percezione della responsabilità verso gli altri e i futuri. I doveri e le responsabilità di neo-padre si intrecciano con i doveri del letterato.7 La rappresentazione paternalistica e stereotipata degli africani è il primo rigurgito, la prima emersione del problema, corroborato dalla relazione concreta con gli immigrati che iniziavano a popolare le spiagge del meridione. In fondo è proprio uno di loro, dotato di maggior consapevolezza intellettuale, a volersi difendere da un incremento d'immaginario che li derealizzava.
Vi è qui in nuce tutta la storia culturale e antropologica italiana seguente e la vicenda autobiocritica del narratore. Si considerino le pagine sulla cura anticancro Di Bella. L'idea che Pascale riceve da uno dei più grandi studiosi di letteratura del Novecento, Eric Auerbach, giunge nel momento della massima esposizione mediatica della cura dell'oncologo modenese nonché della nascita del primo figlio: la lettura di Mimesis e lo "tsunami" Di Bella vanno di pari passo alla paternità e alla progressiva comprensione del ruolo di padre. Mimesis insegna e fornisce al narratore un metodo, una griglia d'approccio per affrontare e capire le strategie della comunicazione, cioè della falsificazione, della riduzione del mondo a sottoprodotto edulcorato e catena di banalizzazioni a effetto, reiterato climax sensazionale; si tratta di quella che Auerbach definisce la tecnica del riflettore, vale a dire la strategia linguistica con cui di un fatto o di una persona si illumina un solo aspetto, non in sé del tutto falso, ma decisamente parziale e tendenzioso e su di esso si costruisce il proprio discorso: è esattamente la strategia con la quale Voltaire descrive la Borsa di Londra mettendo in ridicolo i rappresentanti delle diverse religioni, quelle irrazionali follie che dividono gli uomini, laddove invece i commerci uniscono gli uomini superando le stolte e nocive diatribe religiose.8 Mutato l'oggetto del discorso, quella del riflettore è esattamente la medesima strategia con la quale i media, anche quando hanno perfettamente compreso che la terapia non potrà garantire risultati significativi, costruiscono il successo comunicativo della cura Di Bella. Per demistificare tali paradigmi pseudo informativi - a sua volta dominanti la stessa scena politica - per non cadere nel loro ricatto incantatorio ed emotivo, occorre un enzima gnoseologico, un metodo d'analisi, per esempio quello di Auerbach; allo stesso modo, per imparare il "mestiere" di padre occorre una metodologia con la quale rapportarsi, discutere i modelli educativi ricevuti da bambini e riproporli, necessariamente rivisitati, una volta divenuti padri. Il figlio del narratore riceve insomma, si potrebbe dire, due paternità: una naturale e biologica e una simbolico-culturale.
Il romanzo di formazione di Pascale passa attraverso prove e frustrazioni. È il caso della sua lezione, durante un corso di scrittura, su Elizabeth Costello.9 In uno dei racconti del volume, Elizabeth contesta a uno storico di aver immaginato i momenti in cui i partecipanti alla congiura contro Hitler vengono giustiziati; si tratta di una rappresentazione del Male immaginaria nonché contagiosa, che partorisce un immaginario derealizzato della malvagità che si diffonde e inquina la scrittura, i racconti, la vita; la ricerca di un metodo, di un approccio alla semiosfera sociale che in qualche modo limiti la commistione di vero e falso, cioè l'impasto distorto in cui tutto non è né completamente falso né completamente vero, viene tuttavia scambiata dal pubblico per un elogio della censura (autocensura) dello scrittore. Le riflessioni su Elizabeth Costello nascevano invece da un caso di cronaca: le presunte violenze ricevute dai bambini di una scuola materna e la decisione del padre di uno dei piccoli di chiedere, davanti a una videocamera, alla figlia di raccontare e mimare l'accaduto. Anche qui si trattava insomma di una immaginazione del Male, di un racconto che appare a Pascale un'altra occorrenza di un contagio, l'ennesima emersione di un territorio dai confini confusi, morbosamente e dolorosamente incerto, in cui quel padre appare già portatore infetto della contaminazione che contribuisce a diffondere: «quel genitore era entrato senza precauzioni in un luogo oscuro, aveva costretto la figlia a riprodurre il male, minuti e minuti di registrazione nei quali una bambina di pochi anni descriveva (o inventava?) quello che aveva subito. E noi [...] cosa avevamo fatto se non parlare di un male che conoscevano unicamente tramite descrizioni morbose, finendo dunque per riprodurre solo altro male?».10
La riproduzione, una volta innescata, non può esser fermata a piacimento: la stessa voce narrante è in qualche moto irretita dal contagio e produttrice di fantasmi negativi visto che durante una festa mondano-intellettuale, esattamente quella in cui si conversava del caso della scuola materna, i convitati passano con disinvoltura dal lamento sulle brutture della società moderna, alla riprovazione della sporcizia delle città, per giungere a biasimare uno storpio paralitico che staziona nelle vie del centro di Roma "rovinando" così lo shopping.
La conquista è allora quella di un habitus metodologico, di un approccio gnoseologico alle cose, di una «resistenza alla finzionalizzazione»,11 secondo un progetto di conoscenza e trasmissione responsabile e precisa del mondo e della realtà; si tratta, agli occhi di Pascale, dell'apporto più importante che uno scrittore e più in generale un intellettuale possa dare alla società democratica12 (idea in sé giusta che tuttavia potrebbe risultare in qualche modo problematica per uno scrittore, che per definizione abita territori funzionali,13 i quali non sono necessariamente, di per sé, falsificanti14). Guardando il proprio figlio e gli altri bambini al primo giorno di scuola, il padre-critico rilancia un'idea di racconto come esito di «rigore intellettuale», come dato attendibile:15 «il racconto del mondo necessita di un continuo post scriptum che individua gli errori e ci avvia, si spera, verso una nuova, integrata e più precisa narrazione».16
Le questioni discusse da Questo è il paese che non amo si ritrovano in una parte del magmatico Assalto a un tempo devastato e vile dove Giuseppe Genna racconta di essere stato un giorno avvertito dalla banca della clonazione del bancomat (si è così già nel dominio della falsificazione); l'impiegata, nel riferirgli l'accaduto, sottolinea più volte il fatto che, con tutta probabilità, a compiere il reato siano stati hacker romeni. Nella sua descrizione la donna rivela di essere già ostaggio della lingua del trauma, il codice in cui la vita si è irrigidita in un prontuario artificiale di situazioni, di nomi, in una enciclopedia bloccata di pregiudizi e di stereotipi; il microevento autobiografico è traumatico non tanto per la clonazione del bancomat ma per la situazione che inscena, doppiamente clonata (dai romeni e dal codice del trauma). L'episodio bancario è allora un atto di critica letteraria, eseguito allo sportello ancora con il casco della moto in mano, perché si sperimenta e verifica quanto Don De Lillo chiama End Zone,17 lo spazio anomico in cui si apre la zona di fuoriuscita dall'umano, in cui esistono solo nomi, targhe irreali; in questa situazione, il soggetto autobiografico deve, ancora una volta, distinguere, compiere un atto epistemologico, non cadere nel laccio del trauma. La figura del narratore, del critico, si presenta come motociclista, ancora in grado di fuoriuscire, di ripartire e, se non sbloccare, almeno percepire la metallizzazione del mondo.

 

§ IV. Emanuele Trevi, «Qualcosa di scritto» Torna al sommario dell'articolo

III. Tommaso Pincio, «Hotel a zero stelle»

Anche Hotel a zero stelle di Tommaso Pincio unisce critica, autobiografismo, esperienza e discorso sul falso, con un più marcato ricorso, però, alla dimensione personale, tra la confessione e l'outing, e alle risorse narrative. Il racconto dei propri snodi esistenziali si ibrida con i capitoli dedicati a un personale canone letterario: Parise, Greene, Kerouac, Fitzgerald, Simenon, Foster Wallace, Dick, Landolfi, Melville, Pasolini, Garcia Marquez, Orwell. Non si tratta di capitoli rigidamente monografici, visto che in alcuni di essi, pur intitolati a un singolo scrittore, si parla anche di altri (per esempio Burroughs nelle pagine consacrate a Garcia Marquez).
Uno spazio considerevole in Hotel a zero a stelle è riservato agli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, tanto da poterlo considerare un romanzo di formazione critico-narrativo. Infatti già da ragazzino, a proposito del mentire circa la propria partecipazione alla messa, il soggetto si scontra con il problema: quello del tentativo di «manipolare la verità»;18 del resto, con rimando al viaggio dantesco, così è descritta la prima tappa del viator del nuovo millennio: «la mia selva oscura, dove apprendo che la menzogna è una condizione inevitabile dell'esistenza e mi perdo nelle sue conseguenze».19 La vita è una sorta di continua battaglia, un corpo a corpo con le forze del falso, della manipolazione, dell'inganno. Pincio lo vive su se stesso e ne ricerca un antidoto in quegli scrittori che hanno affrontato il medesimo mostro. La stessa struttura del libro è significativa perché si organizza come un catalogo di autori e libri-faro: l'elenco esprime una simbologia di radicamento20 (non per nulla un tema capitale delle pagine di Pincio è il meritarsi di essere nato, con annesse fantasie di annientamento che assediano il soggetto).
In questa prospettiva devono essere considerate le pagine dedicate a Goffredo Parise. Lo scrittore vicentino intreccia due volte la biografia di Pincio: sia nel viaggio in Vietnam compiuto dal narratore contemporaneo e, prima, dal suo alter ego, sia nella rievocazione delle aspirazioni artistiche (la pittura) che hanno accomunato i due autori. Pincio "attraversa" quindi Parise in due momenti, anzi tre, visto che il capitolo si chiude sulla lettura, rivelatrice, di un racconto, Italia, dei Sillabari.21
Il paese asiatico esibisce una connotazione altamente simbolica perché è un luogo liminale dove niente è impossibile, dove il confine conoscitivo non è garantito, dove cioè «le cose sono e non sono allo stesso tempo».22 Come durante la guerra del Vietnam con i marines, ancora oggi molte ragazze vietnamite si offrono, più o meno apertamente, al turista occidentale: è una situazione descritta sia da Parise che da Pincio. Subito scatta la rete concettuale del vero e del falso. I soldati americani si muovono tra realtà e finzione, tra le ragazze e gli stereotipi con cui venivano descritte, docili e ingenue oppure furbe adescatrici: «Divisi tra due fantasmi, non sapevano come affrontare la realtà del piccolo e caldo corpo che si trovavano davanti»; lo stesso Parise «girava attorno all'oggetto del suo interesse senza riuscire a penetrarlo davvero»23 («davvero» è termine che ricorrerà in modo significativo anche in Trevi).
Il dato ha una ulteriore connotazione perché innesca la dialettica essere nudi/essere vestiti, tra la prostituzione e la letteratura, tra l'essere nudi e l'essere vestiti di parole: alla fine «della loro performance queste fanciulle sono realmente nude, mentre a romanzo compiuto lo scrittore è vestito di parole».24
La vita di Pincio e quella di Parise si incrociano di nuovo, idealmente - Parise era tra l'altro ancora vivo all'epoca dei fatti - a proposito della mancata carriera pittorica di entrambi. L'autore dei Sillabari, quando capisce i suoi limiti, rinuncia al sogno di diventare artista; pure il narratore si avvia a metter da parte le ambizioni, sospinto dal furbo mercante d'arte (che già aveva conosciuto Parise) che lo invita più volte a non cullarsi di castelli di sabbia e a divenire in sostanza suo collaboratore negli affari. Il soggetto è ostaggio della manipolazione, è sotto il dominio del raggiro.25 Ma Parise - ed è questa la scoperta - sa invece scavare sotto l'illusione, sa guardare dietro le apparenze, conosce quando la realtà (in Italia l'invecchiamento dei due coniugi, soprattutto della donna) impone parole, silenzi e sguardi che velano la verità per discrezione ma non si ingannano circa lo stato reale delle cose. Al corpo delle ragazze vietnamite, alla loro vita scandita da sogni iper-romantici, falsi, irrealizzabili, alle sirene incantatorie del mercante, si sostituisce il corpo dei due coniugi dei Sillabari. Si tratta quindi di un viaggio, dal paese della smemoratezza a quello della consapevolezza, un itinerario letterario e biografico; se è vero che neppure «sforzandoci all'infinito troveremmo le parole che stabiliscano una volta per tutte perché una cosa è bella o non lo è»,26 nondimeno è possibile non derogare dalla forma del quesito, dalla ricerca di un perimetro malgrado tutto veritativo.
Non per nulla Pincio è un lettore de L'americano tranquillo di Graham Greene,27 il romanzo di ambientazione vietnamita scoperto da Pincio «vagando per il centro di Saigon»,28 che considera «un sublime trattato narrativo sull'impossibilità di essere sinceri»29 e una fenomenologia «delle tante parole tese a dire il falso»;30 osservazioni che tendono a far confluire il testuale nell'esperienziale. Nel critico-narratore contemporaneo non c'è compiacimento per tale pervasività, pur consapevole non ne rimane morbosamente contagiato e cerca di concepire lo scrivere storie nei termini di infilare comunque «scampoli di realtà in mari di finzioni»: esiste in ogni modo un limite alla fictio, gli scampoli di realtà consentono un orizzonte comunicativo; del resto la letteratura «la si fa per chi rimane».31
Su un binario diverso ma del tutto simile si è svolta, secondo Pincio, la vita di Francis Scott Fitzgerald che ha incarnato «il peggior destino per un uomo», vale a dire «quello di identificarsi con le proprie illusioni».32 Nel capitolo dedicato allo scrittore americano e al Grande Gatsby,33 lo scambio vita-illusione è lo stesso che, ancora una volta, prova il narratore bambino che, quando va a tagliarsi i capelli, si innamora dell'immagine di Carolina di Monaco, fotografata sulle riviste di moda e di gossip. Come Parise, Fitzgerald non dimentica la «cruda realtà»34 del rapporto di classe tra i sessi, vale a dire la relazione sentimentale in cui i partner hanno differenze di censo; come Parise e Fitzgerald, Pincio attraversa la medesima problematica, che risulta quindi declinata sulla tripla articolazione dello scrittore (Fitzgerald, che aveva provato la situazione in prima persona), del personaggio funzionale (Gatsby, che riesce a mettere insieme una fortuna ma non è ricco di nascita e Daisy non pensa mai veramente di sposarlo) e del narratore-Pincio, il quale alla domanda su che cosa rende credibile e quindi ancora leggibile il romanzo di Fitzgerald risponde senza dubbi: perché una storia così «io l'ho vissuta».35
Il criterio di approccio, si potrebbe quasi dire di giudizio, al testo è appunto averlo vissuto. Non si tratta di un semplice autobiografismo ma dell'ancoraggio della fictio a una forma di esperienza, funzionale allo scontro tra vero e falso in cui si cerca di arginare la potenza del secondo:36 se la letteratura è Erlebnis, è allora meno "falsa". Le tematiche stesse dei testi affrontati ruotano attorno a questo asse. Nelle righe conclusive dell'importante ritratto di David Foster Wallace - autore di riferimento per la letteratura italiana contemporanea37 - si pone la dialettica negativa tra i sofismi del linguaggio e il mondo: se i primi hanno la meglio, se anche per questa via si accampa il Gioco Infinito, allora - corollario fatale - si spezza «il legame con le cose, con le nostre vite»38 e non si riesce a compiere un'azione, a prendere una decisione, a scegliere, abbandonandosi invece al fatalismo. La finzione si deve riscattare in un perimetro veritativo, è una strada verso la verità; infatti «ci immergiamo nella finzione dei romanzi perché nella vita siamo stati incapaci di trovare la verità».39 L'esposizione al rischio, al risucchio onirico e derealizzante è peraltro sempre presente: lo schermo sempre acceso del computer di Pincio40 è parente stretto del video incantatore attorno al quale ruotano le vicende di Infinite Jest. Il punto estremo del rischio falsificante delle parole è visibile nella lotta ingaggiata da Landolfi contro la lingua, contro quelle entità «inaffidabili e incostanti»41 che sono i segni (ma Pincio, proprio per la concezione veritativa della finzione, non è disposto a defenestrarla e a credere solo nel reale42).
Pure l'incrocio biografico con William Burroughs si rivela un virus per il narratore, che quasi rischia di morire di overdose per imitare l'anticonformismo esistenziale dello scrittore americano, l'esito quasi fatale del giocare al piccolo Burroughs,43 l'ultima fermata di un viaggio nell'irreale.44 Si tratta di un modello in qualche modo ingannatore, eppure si può estrapolare da queste pagine una dichiarazione metodologica: «Di solito, mi lasciava del tutto indifferente sapere che un determinato romanzo scaturisse da una precisa realtà del suo autore. Nel caso di Burroughs non era così. Non riuscivo a prescinderne, non volevo prescinderne».45 Seppur in chiave demoniaca viene però ribadito il modello autobiocritico, in cui la lettura critica diviene pelle, vita (o, come qui, quasi morte). Del resto le stesse tematiche esistenziali-personali, centrali in Hotel a zero stelle (la contrapposizione rispetto all'ordine borghese, il rischio del fallimento) sono il doppio delle situazioni descritte da altri autori pinciani, per esempio da Simenon, al cui centro sta, sempre, la fuoriuscita progressiva dalla "normalità".

 

§ V. Eraldo Affinati, «Peregrin d'amore» Torna al sommario dell'articolo

IV. Emanuele Trevi, «Qualcosa di scritto»

Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi è assimilabile a un romanzo46 di formazione scritto e compiuto dal narratore, una vicenda strutturata sul confronto con due personaggi: Pier Paolo Pasolini e Laura Betti, lo scrittore studiato e la curatrice dell'Archivio Pasolini di Roma presso il quale Trevi compie il proprio apprendistato. Il libro è nello stesso tempo (e volendosi limitare): un saggio su Petrolio, una biografia di Laura Betti, la storia di un viaggio in Grecia, un'introduzione ai Misteri Eleusini. Quello che interessa qui sottolineare è il percorso, l'iter formativo del narratore che si dipana attraverso la lettura e lo studio di Petrolio e la conoscenza diretta della Betti, una sorta di entità demoniaca - è infatti denominata la Pazza - non solo per il carattere irascibile ma perché iniziata, irrimediabilmente e per sempre, al "mistero" dalla conoscenza dello scrittore friulano.
Si stabiliscono una serie di omologie, già a monte previste dallo statuto di Petrolio, opera vissuta, opera- sperma, un'opera-organo corporeo, testo intrecciato a un'esperienza di vita,47 centrato sulla conoscenza che avviene attraverso trasformazioni (per esempio da uomo a donna) e visioni iniziatiche che prevedono frequentazioni di luoghi sacri cui presiedono figure ctonie e sacerdotesse. Se il libro pasoliniano è iniziatico, allora supera lo statuto meramente letterario: la critica di un tale libro non può essere un mero atto interpretativo e deve trasformarsi in percorso esistenziale. Il narratore stesso - la sua posizione discente è chiaramente espressa -48 inscrive le proprie esperienze in una cornice da bildungsroman: «Fu in questa maniera che il singolare periodo di apprendistato o scuola di vita che avevo trascorso, mentre doppiavo il promontorio dei trent'anni, all'ombra della Pazza [la Betti], giunse in Grecia alla sua fase finale».49 Come Petrolio ha nelle Visioni, modellate sui Misteri Eleusini, i suoi momenti basilari, anche il suo fruitore compie un pellegrinaggio a Eleusi. La scrittura viene così trasportata all'"aperto", fuori dalla pagina, tanto da guidare davvero i passi del suo fruitore, ormai non più solo lettore. Il viaggio nell'Ellade, inoltre, duplica e intensifica il precedente «pellegrinaggio»50 effettuato a inizio volume dalla delegazione di assessori e uomini di cultura (tra i quali anche Trevi) al degradato monumento funebre eretto a Ostia per ricordare Pasolini. Il quale può essere veramente considerato, un'ombra, un compagno segreto del narratore, il suo spirito-guida (secondo un'idea ricorrente nello scrittore).51
A suo modo, anche Laura Betti gli insegna che non esiste vocazione, non solo letteraria, senza una forma di follia, di prossimità alle zone sacrali della rabbia e della violenza, di sprofondamento in dimensioni infere (e i segnali nel testo sono molteplici, dal libro di Trevi squartato dalla donna, alla descrizione di Roma in chiave catacombale fino al doppiaggio della protagonista dell'Esorcista di Friedkin eseguito dalla Betti). Del resto la recita greca delle poesie pasoliniane, compiuta con trasporto quasi sovrumano dall'attrice, è una trasmutazione dei versi in sostanza corporea, al contempo ritorno dello scrittore dall'aldilà e superamento del bozzolo52 del codice letterario. Non per nulla la fictio del manoscritto ritrovato che regge non solo Petrolio ma anche la Divina Mimesis si trasforma e accade davvero quando un autentico filologo, Aurelio Roncaglia, pubblica appunto il grande testo-fiume pasoliniano, dando "fisicità" al topos consolidato del manoscritto,53 una delle convenzioni più classiche dell'istituzione letteraria; allo stesso modo, accade veramente quello che viene detto dell'ormai scomparso autore della Divina Mimesis, morto perché ucciso a bastonate.54
Interessante notare come alcuni di questi aspetti fossero già presenti nel Libro della gioia perpetua, esempio di autofiction in cui il personaggio narrante racconta una fase della propria vita leggendo e seguendo le tracce del racconto scritto su un quaderno da una bambina di terza elementare, Chiara; anche qui l'analisi critica sul testo si configura come viaggio iniziatico, visto che la vicenda narrata da Chiara, nonché la bambina stessa (che il narratore peraltro non conoscerà mai, se non indirettamente attraverso le parole di un'anziana maestra) sembrano possedere un potere, o comunque un'aura, a suo modo sacrale. La natura iniziatica del Libro, l'essere una Rivelazione è del resto più volte sottolineata;55 un'iniziazione che può essere diretta tanto alla Vita quanto alla Morte.

 

§ VI. Massimo Rizzante, «Noi siamo gli ultimi» Torna al sommario dell'articolo

V. Eraldo Affinati, «Peregrin d'amore»

Anche per Eraldo Affinati si può dire che la letteratura sia "qualcosa di scritto", nel senso di un superamento della sua natura puramente finzionale, di un abbassamento del suo splendido isolamento autotelico: «Sai bene che il giardino dei Finzi Contini è inventato».56 In Affinati non conta la finzionalità del testo, il suo essere affrancato dalla referenzialità; da questo si prescinde e anzi vale proprio il contrario: si scavalca il perimetro della scrittura e ci si reca sempre nei luoghi abitati o descritti dagli autori, siano essi testuali o biografici, cercandoli e spesso ritrovandoli, pur sommersi dalla sgraziata contemporaneità. Di qui allora, per rimanere solo a qualche esempio novecentesco, il pellegrinaggio verso i luoghi romani di Gadda, verso Pescina dei Marsi per Silone, o Cerreto dell'Alpi per Silvio D'Arzo.
Una strada, un fiume, una città, una casa, una stanza non sono mai solo di carta in Peregrin d'amore: per questo l'instancabile flâneur/camminatore57 cerca in tutti i modi di toccarli, vederli, interagire fisicamente con essi: non sono elementi testuali ma "cose"; la finzione non si distingue dal vero, è spostata verso un contenuto reale. Il falso della scrittura non è un problema. Infatti l'opera guida il soggetto nello spazio, l'opera è lo spazio, ne è la struttura profonda; seguirla è un atto di critica letteraria: «Attraversi la città da parte a parte [...].Come nell'opera di Bassani, trovi sempre un muro che divide, un cancello che separa, una lente che scherma la visione, una finestra da cui la gente osserva, una soglia interlocutoria».58
Molti testi citati nel volume sono città o luoghi, vale a dire lo spazio formativo ed esistenziale. Il narratore contemporaneo ritorna nella stessa geografia abitata e vissuta dai suoi autori; è infatti la scia dell'esperienza altrui che conta, sono l'ambiente e le tracce degli altri a interessare colui che racconta e che sono diventati ora la sua esperienza: diversa, collocata in altro tempo, eppure posta analogicamente59 sulla stessa linea, in un percorso di dialogo intrapreso subito, da giovane (in tutto il libro scorre una vera e propria esaltazione nostalgica della gioventù, autentico perno tematico).
Dopo la lettura, occorre superare il "bozzolo" testuale, perché è nel rapporto con lo spazio segnato, marcato dagli scrittori che il narratore costruisce definitivamente la propria identità nonché la relazionalità con gli uomini, la folla solitaria che vede attorno a sé. Insieme alle geografie e al sé, ecco gli altri. Gli incontri sono scanditi e letti attraverso il filtro dei libri perché la letteratura è ripercorrere l'esperienza altrui, vedere il mondo con gli occhi degli altri che ora sono diventanti i propri occhi. La letteratura, si può dire, è portata in strada, diviene incontro, ma la differenza dal presente non conduce a una lamentazione moralistica o apocalittica, piuttosto a uno sguardo creaturale,60 "giovane". Gli uomini sembrano portare il segno e l'aura dei personaggi, come il giovane cameriere, un ragazzo, di Pescina dei Marsi: «Nella disinvoltura dei gesti che compie ti sembra di rivedere il piccolo Silone».61 Allora, la critica è guardare lo spazio, vedere il mondo degli uomini: e questo è anche il compito della critica, il risultato della conoscenza delle opere letterarie. Il narratore cammina con a fianco i fantasmi dei personaggi e la memoria dei testi, dirigersi nei loro luoghi è come parlare con essi,62 con loro egli si è costruito un'identità e con essi si può cercare di leggere la realtà; è forse l'unico, o l'ultimo a farlo, come nel "dialogo" con l'Accattone pasoliniano che recita i versi delle Ceneri di Gramsci e che solo il narratore "vede" (versi tra l'altro colmi di strade: «Già si accendono i lumi, costellando / Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero / Testaccio»63).
Fare critica coincide con la propria biografia, vuol dire costruirsi e orientarsi nel presente, è costruzione di sé e modo di vedere il mondo (anche qualora non sia più quello di un tempo). Critica è una continua percezione dello spazio che parte dai testi e si confronta con l'aperto esterno: in tal modo il soggetto forma la propria identità, plasmato dalle storie altrui per diventare sé. In questa prospettiva si potrebbe forse definire il modello autobiocritico di tipo polifonico, una categoria che non a caso è stata ripresa per le narrazioni ibride e "spurie".64
La biografia degli altri è allora diventata la propria biografia poiché si è intrapreso e condiviso il loro stesso cammino: Peregrin d'amore è un'autobiografia scandita da questa particolare lettura critica, è autobiocritica. Potrebbe essere un'"autobiografia altrui",65 ma si caratterizza per una maggior compenetrazione tra la dimensione del bios esperienziale e quella testuale, laddove, invece Tabucchi sottolinea in modo più deciso la separatezza dello spazio funzionale.66 Del resto, già in un'opera precedente Affinati si era recato a Nagasaki per vivere sulla sua «pelle una frase di Günther Anders»;67 lo stesso Berlin può, almeno in parte, essere assimilato al paradigma qui proposto.68

 

§ VII. Conclusione Torna al sommario dell'articolo

VI. Massimo Rizzante, «Noi siamo gli ultimi»

Pare lecito da quanto si è fin qui detto convocare anche la scrittura più segnatamente critica.
Non siamo gli ultimi di Massimo Rizzante è un'originale mappa del romanzo novecentesco e contemporaneo, in particolare una disanima della sua possibilità di creare, e ancor prima di immaginare, un altrove culturale rispetto alla parificazione dell'esistente, alla biopolitica diffusa delle nostre società che programmano, sorvegliano e amministrano la vita (e la letteratura), alla assolutizzazione del presente che non permette di costruire un ponte con l'altrove del passato e superare il nodo scorsoio e l'incubo della Fine (da qui il titolo del libro).69 Ma il volume è al contempo un'autobiografia intellettuale, scandita da viaggi, esili volontari, letture. In una delle parti narrative del libro, fuse a quelle critico-saggistiche, Rizzante ricorda il dialogo che da ragazzino ebbe con il padre, professore di filosofia, a Vienna; in particolare, il genitore parlava allo stupito figlio tredicenne del concetto heideggeriano di chiacchiera: il das Man del filosofo indicava quel vasto perimetro di inautenticità che inghiotte l'uomo, la falsità nella quale si spende la sua vita. È, anche qui, la scoperta del falso, e un talismano contro di esso che il padre consegna al figlio: "È per l'avvenire", gli dice. Non è un caso che la lezione del padre, che il figlio farà propria, e l'iter formativo che si innesca precedano le pagine in cui Rizzante, divenuto adulto, si sofferma sulla falsità; vale a dire sulla genericità standardizzata di alcuni romanzi italiani di successo (Ammaniti, Mazzantini), insomma sulla banalizzazione falsificante, e in quanto tale neppure realistica, delle vicende narrate.70
Si associa un'altra affine modalità: le altre sezioni del volume sono scandite dal racconto autobiografico e dall'analisi dei testi, dalla sovrapposizione della biografia del critico a quella dei personaggi dei "suoi" narratori. I viaggi di Rizzante alla ricerca di esilio - alla ricerca, si potrebbe dire, di deleuziana minorità, di una linea di fuga - sono la realizzazione dell'elogio dello scrittore autoesiliato di Bolaño:71 rendere proprio l'autore è viverlo, autorappresentarsi a Venezia sul ponte degli Scalzi72 - il ponte è simbolo del collegamento con l'altrove - significa "essere" un libro di Bolaño, sospesi, ai margini della Storia e al contempo legati alla contro-memoria del mondo ufficiale, la letteratura. Stare su un ponte è già partecipare al perimetro dell'avventura, perché l'arte è avventura, come insegna Un altro racconto russo73 dello scrittore cileno. Il presente è il falso: ciò che ci distoglie da esso è "vero": la stessa parola paterna era già, infatti, rivolta a un altrove, al futuro. L'immaginazione romanzesca, afferma Rizzante, è sempre al servizio della possibilità, mai dell'irrealtà.74
Il discorso sin qui svolto trova un'interessante sponda anche in quei volumi che possiamo allocare nel perimetro della critica letteraria e della saggistica scientifica in senso stretto, magari con taglio militante di intervento sul presente.
A chiudere il presente lavoro, si consideri il Giulio Ferroni di Scritture a perdere, ricognizione sulla letteratura italiana degli ultimi anni declinata sul concetto, caro al critico, di responsabilità. Quello che qui più conta è che le prime pagine del libro hanno una tonalità decisamente narrativa e si potrebbe dire autobiografica in cui Ferroni (anch'egli da considerare, al limite, un personaggio) descrive, inserendosi nel tòpos letterario novecentesco della passeggiata, la propria partecipazione al Salone del Libro di Torino, girovagando per editori e poi camminando per il centro di Torino fino ad arrivare al cospetto di un rumoroso spettacolo, subito inviso alla voce narrante: una serata del programma televisivo Amici condotta da Maria De Filippi; evento che sollecita in Ferroni una serie di considerazioni fortemente negative (sulla televisione, sulla famiglia italiana, sui giovani). Appare significativo il ricorso al dispositivo autobiografico in un testo saggistico in cui viene posta l'esigenza di discriminare - nel senso di porre un argine - rispetto al profluvio di immagini e testi dai quali si è circondati: «Nel perpetuo zapping in cui siamo presi, assillati dalla velocità con cui ogni dato comunicativo appare, scompare, si manifesta e si cancella, non sembra più possibile alcuna discriminazione: e l'inflazione della cultura finisce per convergere proprio con l'invasione delle forme spettacolari più vuote, con ciò che più allontana da ogni coscienza critica e riflessiva».75 Anche in questo caso si ripropone la dialettica tra autobiografia e volontà di disambiguazione, riferimento al self e desiderio di approdare, pur sommersi nella glassatura del falso e del finto, a un ormeggio sicuro.

 

Vai alla fine dell'articolo Torna al sommario dell'articolo

VII. Conclusione

I libri qui richiamati, come si sarà visto, non ricalcano tutti lo stesso schema. Ad esempio, si potrebbe distinguere tra testi in cui è molto forte una relazione esistenziale con uno o più exempla (Trevi, Pincio) o in cui, invece, è più accentuato un gusto teoretico in vista di una nuova "civiltà" (Pascale). Tutti però si collocano in un orizzonte comune che in ultima analisi si potrebbe con qualche plausibilità collegare a quel concetto di ritorno alla realtà che, come noto, è una delle parole d'ordine dell'attuale dibattito letterario, alla stessa autofiction narrativa - altra costellazione ipermoderna - e alle prospettive della critica letteraria odierna, soprattutto quella che si interroga circa lo statuto realistico delle opere.76 Si potrebbe quindi inserire il discorso autobiocritico entro quel perimetro ipermoderno che, pur conscio della artificiosità di qualsiasi forma testuale, non rinuncia a volervi trovare una dimensione veritativa che non sia preda del puro gioco testuale, esclusivamente autoreferenziale, del postmoderno.
È altresì noto che uno dei più importanti testi letterari di questi anni si configura come una esplorazione dell'«onirizzazione (addormentamento) del reale» contemporaneo, provocata dalla (televisiva) compenetrazione tra reale e irreale, un coacervo indistinguibile, per cui non si cerca la possibilità di altre vite ma di anestetizzare le propria.77 A questa anestesia, a questo addormentamento si può magari rispondere praticando un po' di critica, anzi autobiocritica; forse, allora, la finzione potrà diventare salvifica.78

 

Precedente Successivo Scheda bibliografica Torna all'inizio dell'articolo Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni


Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2013

<http://boll900.it/numeri/2013-i/Rondini.html>

Giugno-dicembre 2013, n. 1-2