Angela Guiso
La parola negata. L'infanzia e le sue allegorie nell'opera di Primo Levi

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
I giovani, «il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape»
I racconti e l’infanzia
I figli del Lager
L’infanzia violata e il fantastico
Il passato e il futuro della parola
Dalla crisi all’utopia


 

§ II. I racconti e l’infanzia

I. I giovani, «il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape»

Alcuni interventi presenti in Conversazioni e Interviste1 dimostrano la particolare attenzione di Primo Levi per i giovani, connessa alla necessità di ricordare l'orrore della Shoah. Nell'intervista di Aurelio Andreoli Per Primo Levi questo è un modo di dire io, a proposito della pubblicazione di La ricerca delle radici - seppure con la correzione «anche se è lontano da me l'intento educativo» - lo scrittore ammette di cercare il suo pubblico fra «i colleghi chimici, i lettori dei miei libri precedenti, [...] ma soprattutto i giovani».2 In Capire e far capire di Milvia Spadi, relativa a I sommersi e i salvati, dichiara invece la simpatia per le nuove generazioni alla ricerca di una personale scala valoriale. Successivamente legge quella ricerca giovanile come tolleranza dell'alterità, a partire dal confronto nella diversità, prima ancora che negli ambiti della razza, della religione e della cultura.

«I nostri dodicenni, quattordicenni, sono dei ragazzi distratti [...] ma con un fondo che è certamente positivo. Viaggiano, cominciano presto a viaggiare. Si prendono il sacco a pelo e vanno in giro per il mondo. È una cosa che è ormai comune a tutti. Non occorre essere ricchi per farlo. E questa mi pare una cosa molto positiva. Vuol dire mettersi a confronto. Vuol dire mettersi deliberatamente nella posizione di straniero. Sentirsi stranieri, e ci si accorge che sono barriere facilmente valicabili».3

Una tematica, quella della condizione giovanile, incastonata dentro i macro temi della dialettica combinatoria, della dignità concettuale dell'antinomia, dell'etica della differenza ai quali Levi ha dedicato innumerevoli considerazioni e immagini letterarie4. La gioventù, nella sua concezione e auspicio, è dentro la coesistenza e lo scambio di culture; principi che si riferiscono tanto all'uomo quanto agli elementi chimici, in obbedienza a quell'omologia fra i due ambiti ritenuta possibile, e di cui il racconto Carbonio riferisce il paradigma.5 In antitesi all'argon questo elemento si combina, collide, «fa parte di una struttura», è «soggetto a complicati scambi ed equilibri», partecipa «al sottile processo di scissione duplicazione e fusione da cui ognuno di noi è nato». Ciò che è si trasforma, è l'assunto leviano, e raccoglie in unioni ibride, che a loro volta si scindono creando nuove combinazioni in un inesauribile processo dialettico. La realtà si determina così attraverso la partecipazione e la relazione. Da qui l'etica, l'ammissione ideologica della necessità del cambiamento, a garanzia della libertà. E chi meglio dell'inquieta età giovane, dentro mutamento e ricerca, interpreta questo sentire? Che non esclude la stessa antinomia come in La ricerca delle radici, dove lo scrittore afferma: «Con buona pace dei psicosociologi, nei contatti umani non c'è legge [...] Qui veramente tutto è possibile, basta pensare a certi matrimoni improbabili e duraturi, a certe amicizie asimmetriche e feconde».6
Dove, al di là di tutto, si postula implicitamente il bisogno dell'altro, a dire che il singolo non si realizza nella solitudine, come riferisce Lilìt e la "favola pia ed empia" che Tischler (il falegname) racconta allo scrittore dopo essersi rammaricato del suo celibato.7 Linee guida - l'esercizio della diversità e l'incessante confronto culturale, a cominciare dalla giovinezza - disseminate nei suoi testi e sintetizzate nelle parole riguardo all'intellettuale, quasi una sorta di cappello programmatico delle sue scelte di poetica. Un intellettuale non solo dedito a interessi speculativi ma dentro il pragmatismo e il divenire della scienza.

«A me pare più opportuno che nel termine "intellettuale" vengano compresi, ad esempio, anche il matematico o il naturalista o il filosofo della scienza. Proporrei di estendere il termine alla persona colta al di là del suo mestiere quotidiano; la cui cultura è viva, in quanto si sforza di rinnovarsi, accrescersi ed aggiornarsi; e che non prova indifferenza o fastidio davanti ad alcun ramo del sapere, anche se, evidentemente, non li può coltivare tutti».8

Una cultura in linea con quella "decompartimentazione"9 del sapere che lo storico dell'arte tedesco Erwin Panofsky riferisce alla civiltà Rinascimentale, nella quale prendono avvio l'unificazione e l'accordo tra discipline e ambiti affini, ma si attua anche la rottura della gerarchia fra le Arti più nobili o liberali, e quelle generalmente considerate inferiori o meccaniche. Vicina al pensiero di Leonardo, insofferente della rigida distinzione scolastica fra le Arti e, attraverso la citazione del romano Caio Mario10, contro le conoscenze che non si basino sull'esperienza, nell'idea di operare nel concreto essendo abile nel riferire, nonostante si definisca «omo sanza lettere» perché non conosce il latino. Cultura alla quale Levi mostra di aderire. Gli esempi della mescolanza feconda, della miscela vivificante sono numerosi, a partire dal Talmud:

«Il Talmud è come una minestra con tutte le cose che un uomo può mangiare, - disse Dov - Però c'è il grano con la crusca, la frutta con i noccioli e la carne con le ossa; non è tanto buona ma nutre. È pieno di errori e contraddizioni, ma proprio per questo insegna a ragionare».11

e fino all'elogio dell'impurezza:

«Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l'elogio della purezza che protegge dal male come un usbergo; l'elogio dell'impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze; anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape. Il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale. Ma neppure la vita immacolata esiste, o se esiste è detestabile».12

Discorsi che corrono sotterranei alla produzione concentrazionaria e a quella fantastica, quest'ultima spesso relegata in secondo piano rispetto al racconto della prigionia, ma anch'essa conferma di sensazioni, esperienze, abiezioni attraverso un tranfert che non manca di impegnare il lettore e che, per l'implicita funzione parenetica, acquista funzione e significato di apologo.13 D'altronde, lo scrittore ha tradotto l'esperienza in prassi di vita quotidiana; di più, ne ha fatto lente per studiare la realtà contemporanea con mutata, raffinata, sensibilità per cogliere i segni omologhi a quelli responsabili dei soprusi subiti. Per questo può affermare:

«Non saprei dire per quale motivo, ma ho l'impressione, se non le sembra cinica l'espressione, che mi abbia arricchito questa avventura, cioè mi ha fornito un'enorme mole di esperienze, di cui ho travasato una parte importante nei miei libri, ma ho l'impressione che non sia tutto, che valga ancora la pena di pensarci sopra, di studiare quali elementi di questa esperienza si ripetano nel mondo d'oggi intorno a noi, quali penso che non potranno ripetersi più, quali stanno già ripetendosi». 14

 

§ III. I figli del Lager Torna al sommario dell'articolo

II. I racconti e l’infanzia

L'infanzia come fragile nicchia in cui si riverberano i cattivi insegnamenti è uno dei temi affrontati in alcuni racconti. La scuola e la famiglia come microsocietà patogeniche e culle dell'intolleranza, in cui i semi della mala pianta del settarismo, della cattiva partigianeria e delle disfunzioni relazionali attecchiscono, sono discorsi che non potevano essere tralasciati proprio da chi con i giovani si confrontava e registrava quanto e cosa della storia contemporanea padroneggiassero, quale coscienza critica lievitasse in loro. Con pessimismo se, nonostante tutto, secondo Pierpaolo Antonello:

«L'assunto leviano è che l'uomo futuro avrà gli stessi comportamenti, le stesse reazioni, gli stessi vizi dell'uomo contemporaneo: che sia cioè eticamente "stabile" e che le sue pulsioni, desideri, paure, siano sempre orientate in una medesima direzione. Possono cambiare le strutture e le situazioni di contorno ovvero le variabili dell'esperimento, ma l'uomo continuerà a rimanere la costante nell'equazione» .15

Nei Racconti16 è possibile tracciare un percorso sui giovani nel quale si riconoscano linee programmatiche condivise. Nel primo racconto prescelto, In fronte scritto, in Vizio di forma, insieme alla conclusione dedicata all'infanzia, si tematizza la cultura omologante dei messaggi pubblicitari; nel secondo, I sintetici, sempre in Vizio di forma, con protagonisti alcuni adolescenti, la povertà pericolosa del pressapochismo culturale; nel terzo, Decodificazione, in Presente indicativo, l'insidiosa esposizione agli slogan in cui incorre un giovanissimo sbandato. Dentro il binomio infanzia/cultura vengono riaffermati, a un tempo, il valore della cultura e l'archeologia del narrare attraverso l'Ulisse dantesco.
Dalla famiglia alla scuola, come possibili ambiti di corruzione educativa, di ribaltamento del dovere pedagogico, si giunge all'invenzione di una nuova infanzia del mondo con Procacciatori d'affari in Vizio di forma e Piombo in Il sistema periodico, scelta inverosimile ma ideale con cui ricostruire alla base la civiltà: ultima tappa di questo circuito narrativo e tuttavia cornice nella quale iscrivere tutti gli altri racconti. Un percorso dove, fra le altre cose, si declina l'amore dello scrittore per i viaggi e la letteratura coloniale - come in Piombo - alla quale lo scrittore ha riconosciuto valore formativo in luoghi letterari e critici diversi.17 Un itinerario lungo il quale la parola appare ora conculcata o elusa, ora appiattita e spersonalizzata, infine riscoperta nella prassi della nominazione attraverso una procedura straniante.

 

§ IV. L’infanzia violata e il fantastico Torna al sommario dell'articolo

III. I figli del Lager

È appena il caso di ricordare che anche in queste occasioni narrative i suoi trascorsi terribili si riverberano attraverso i simboli o vengono rivisitati nel paradosso o nella sineddoche di una condizione umana priva di giudizio critico, prona ai nuovi disvalori nel tramonto dell'etica e dei suoi filtri, argini necessari contro la risorgenza di nuovi ghetti e nuovi intolleranti.
Alla base di questa parcellizzazione metonimica c'è senz'altro l'esperienza di Hurbinek, il «più piccolo ed inerme fra noi, del più innocente, di un bambino».18 Hurbinek è per Levi un «curioso nome». Secondo Raniero Speelman:

«Hurbn è la voce yiddish (dall'ebraico 'churban') con cui viene indicata la Shoah. La desinenza ek pare quella indicante molti cognomi dell'area ceca o polacca (più avanti Levi spiega ad esempio che Henek è diminutivo di Henryk); il nome del bambino può significare dunque "figlio della Shoah"».19

In La tregua una pagina importante è dedicata a questo piccolo essere «paralizzato dalle reni in giù, le gambe atrofiche, sottili come stecchi».20 Un esserino senza parola ma con «la volontà di scatenarsi, di rompere la tromba del mutismo».21 E tuttavia, continua Levi, «la parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva».22 E questo succedeva fino a Henek, il suo giovanissimo maestro, paziente e premuroso. «Era materno più che paterno»23, qualifica meglio lo scrittore.

«Henek, invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek "diceva una parola" Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come "mass-klo", "matisklo"»24

Hurbinek muore «ai primi giorni del marzo 1945 [...] Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole».25 Ma prima che la sua vicenda testimoniale e letteraria si concluda, l'icona implicita con la quale consegnarlo alla Storia è quella del titano che lotta «per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini». Il primo segno: la conquista della parola, il passaggio dal suono inarticolato al vocabolo da interpretare. Dal limbo dei bruti al mondo dell'uomo. Levi raccoglie l'eredità di quella lotta impari, consegna alla storia il suo sforzo.
Di seguito Peter Pavel, un piccolo di cinque anni, praticamente autosufficiente, quindi il lugubre Kleine Kiepura: il più giovane prigioniero della Buna, «non aveva che dodici anni».26
Levi lo descrive in un momento particolare della sua e dell'esistenza degli altri. «Tacque per due giorni [...] Poi prese ad un tratto a parlare, e rimpiangemmo il suo silenzio».27

«Il Kleine Kiepura parlava da solo, come in sogno: e il suo sogno era di avere fatto carriera, di essere diventato un Kapo. Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro: senza tregua, dall'alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava le marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti».28

La contaminazione del Lager è notificata attraverso la parola delirante: la consegna testimoniale del male terminale viene affidata alla bocca di un giovanissimo. Il futuro, consegnato al sogno di essere Kapo, è dire un futuro senza sogni, riunire in un ossimorico groppo la speranza al tramonto in età giovane, la vita nel bozzolo della morte. Dietro, l'osceno rovesciamento della più alta tradizione poetica e civile. Il garzoncello scherzoso e la speranza della festa di sua vita sono capovolti del sovvertimento infero del Lager. Versi, quelli del Sabato leopardiano - «altro dirti non vo'; ma la tua festa/ch'anco tardi a venir non ti sia grave» - che Levi non manca di citare in Un'aggressione di nome Franz Kafka riferendosi all'infanzia «alla quale bisogna risparmiare la lettura del Processo dell'autore praghese».29
Se il Kleine Kiepura sale sulla scena a rappresentare, scimmiottandoli, i tedeschi, in un'inedita rivisitazione del grottesco, altri giovani ancora sono gli spettatori di un soldato tedesco ridotto a marionetta. È Levi stesso a scegliere quest'immagine nella Ricerca delle radici. Si tratta di un lacerto da Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo che egli titola La morte scugnizza:

«Gli scugnizzi pigliavano la sigaretta dal vicino. Tiravano la loro boccata, passavano la sigaretta, continuando anche nel fumo a guardare fittofitto il tedesco. Seguendo le mosse che faceva o che pensava di fare, mosse che poi erano sempre una, sempre quella, che lui fra l'altro ripeteva, ogni volta, precisa identica a ogni altra volta come un manichino caricato a corda, con quel sorriso fisso, finto, attigrato, che si muoveva intorno e ogni tanto si fermava davanti a qualcuno degli scugnizzi e ritentava quella mossa di dare la mano e dava invece il suo ricordo incarnato della pistola con la pallottola in canna che aveva impugnato».30

Il soldato è un replicante che ripete all'infinito gesti uguali, a far da spettatori sono degli scugnizzi; il focus è sul soldato, gli scugnizzi sono ridotti a pura visione e il loro sguardo multiplo conferma il senso della serialità warholiana, mentre l'immagine ripetuta è semanticamente depotenziata. La riproduzione riduce originalità, autenticità, irripetibilità ma, soprattutto, creatività.

 

§ V. Il passato e il futuro della parola Torna al sommario dell'articolo

IV. L’infanzia violata e il fantastico

Ai primi bambini, figli dell'esperienza del Lager, a questi scugnizzi da Horcynus Orca, fanno seguito le altre immagini scelte dai racconti fantastici. Nel primo racconto di questa silloge tematica, In fronte scritto, lo scrittore propone le ragioni di una giovane coppia che, mossa dalla necessità di metter su famiglia, si lascia tentare dall'inconsueto modo di pubblicizzare un prodotto attraverso un marchio sulla fronte. Pare evidente il richiamo al solco infamante della biografia del suo autore. Un sigillo che i due giovani accolgono dapprima con riluttanza, quindi con sempre maggiore disinvoltura fino alla totale accettazione quando percepiscono negli altri la loro stessa scelta. Successivamente il gruppo dei marchiati si allarga fino a una compagine sempre più vasta, mentre esibisce frasi nominali, uni proposizionali e cachtwords: espressioni dalla flebile durata semantica come «sollecitazioni o dichiarazioni diverse». Ecco l'elenco: «Denti sani con Alnovol», «Ordine = Civiltà», «Scheda bianca», «Viva il Milan» o «Forza Zilioli», «Sullo go home», «INTERNO AFFANNO». 31
Anche per i due protagonisti c'è stato un inizio.

«Una ragazza in camice bianco pennellò loro sulla fronte un liquido dall'odore pungente, li espose per pochi minuti alla luce azzurra e abbagliante di una lampada, e stampigliò ad entrambi, verticalmente al di sopra del naso, un giglio stilizzato; poi sulla fronte di Laura, scrisse in elegante corsivo: "Lilywhite, per lei", e sulla fronte di Enrico: "Lilybrown per lui"».32

Levi compie un'operazione originale: i segni della comunicazione pluricodice - le immagini e il testo scritto della pubblicità stampata, o la musica e il testo orale di quella televisiva - sono sostituiti da persone in carne e ossa in una aberrante anamorfosi pubblicitaria. Essi stessi cartelloni viventi. Quando è l'ora di cancellare lo stigma l'operazione è più difficile del previsto «a dispetto delle assicurazioni della ragazza in camice bianco, la fronte di Laura rimase ruvida e granulosa come per una scottatura, e poi, guardando bene, il giglio stilizzato si distingueva ancora, come le scritte del Fascio sui muri di campagna».33
E così il loro primo bimbo nasce anch'esso segnato:

«portava scritto sulla fronte "omogeneizzati Cavicchioli". Lo portarono all'agenzia, ed il Rovati, fatte le opportune ricerche, dichiarò loro che quella ragione sociale non esisteva in alcun annuario, ed era sconosciuta alla Camera di Commercio: perciò non poteva offrire loro proprio niente, neppure a titolo di indennizzo. Gli fece ugualmente un buono per il centro grafico, affinché la fronte del piccolo fosse cancellata gratuitamente».34

Questa la fine del racconto ma è facile intuire che la procedura per riportare a normalità la fronte del bimbo risulterà ancora una volta compromessa.
Il racconto apologo si basa sul criterio strutturale del rovesciamento. Non si tratta dell'imposizione perversa di un numero come nel Lager, ma di un'opzione autonoma che evidenzia la combinazione della superficialità psicologica con la pubblicità, indicativa del conformismo culturale. L'accettazione acritica della proposta indecente, condivisa da un gruppo sempre più vasto, riporta al pericolo delle parole d'ordine, della massificazione dell'incultura - fino alla sua retorica personificazione - con pericolosi risvolti per il coinvolgimento del bambino innocente. Quasi una riprova che le colpe dei padri ricadono sui figli.
L'infanzia violata nei suoi diritti è l'ovvia conclusione del racconto; marchiata più che dal segno indelebile sulla fronte, da una società livellata sui disvalori del denaro e sull'appiattimento culturale. Per Speelman c'è anche un evidente riferimento ai problemi psichici dei figli dei sopravvissuti.

«quest'interpretazione [...] emerge lentamente grazie a una serie di dati (lo sfondo sociale e la storia personale dello scrittore, il divieto della legge ebraica ai tatuaggi (nota 55, Levitico/Vajikra 19, 28), il carattere indelebile del marchio, cfr. il marchio di Caino nel libro della Genesi/Bereshit)».35

In I sintetici il discorso si complica e completa, e dopo un'infanzia vergine, e da subito contaminata, all'alba di una corrotta ragione genitoriale, ecco un contesto scolastico e una degenere dinamica di gruppo dove si consolida la genesi della devianza. Nel luogo della discussione e dell'apprendimento cooperativo, alla base di una corretta prassi della cittadinanza, un gruppo di bambini impara a definire e isolare il diverso, meglio: a crearlo. Il racconto, gioiello di narrazione delle fasi della progressiva afasia del singolo, costretto all'angolo dall'intraprendente gioco di un branco, è la conferma che la società può rovesciarsi nel peggiore degli incubi.
Alla decisione di andare a raccogliere bruchi per vedere come s'imbozzolano, Renato insinua l'idea della diversità di Mario che ribadisce:

«Io sono come gli altri: a te interessa la palla a volo, a Giorgio i francobolli, e a me i bruchi. E poi, mica solo i bruchi: lo sapete bene, anche fare fotografie, per esempio ... Ma Renato lo interruppe:
- Ma dai non fare l'indiano! Tanto tutta la classe se n'è già accorta.
- Accorta di che cosa?
- si è accorta che...Insomma tu non sei fatto come gli altri. [...]
- Che storie! Non so che cosa ti faccia venire in mente idee come questa. Perché non devo essere come gli altri? [...]
- Perché? E perché adesso fai l'innocente? Non sei stato tu a raccontarci che tuo papà e tua mamma non hanno voluto sposarsi in chiesa? E che malattia hai avuto, l'anno scorso, che sei stato assente un mese, e quando sei guarito non parlavi con nessuno, e tua mamma è venuta a riaccompagnarti, e parlava fitto fitto con la professoressa, e se qualcuno si avvicinava cambiava argomento? Sono cose chiare queste, cose normali?
- Sono fatti miei. L'anno scorso ho avuto una malattia, e mi hanno dato delle medicine che poi di notte non potevo dormire [...]
- Già! E a ginnastica? Non l'ho mica visto solo io, che fai sempre in modo di spogliarti voltato verso il muro. E sai perché? Tu, Giorgio, lo sai il perché? - Si fermò, poi aggiunse solennemente: - Perché Mario non ha l'ombelico, eccolo il perché! Non te n'eri accorto anche tu? [...]
- A Mario tremavano le ginocchia per ira, paura e senso d'impotenza ...»36

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Con la sistematica procedura diagnostica ha inizio la costruzione del "diverso" a cominciare dalla contestazione delle lentiggini, delle unghie piene "di macchioline bianche", della pronuncia della "r", del non fare mai a pugni, non saper nuotare, aver imparato ad andare in bici solo di recente. Ma soprattutto, del fare bene a scuola e ricordare tutto a memoria. Disturbi di eziologia complessa, in cui interagiscono fattori biologici ed ereditari. Dal giorno in cui è stato definito diverso, Mario cambia atteggiamento, ammette davanti alla professoressa che hanno ragione a qualificarlo in quel modo, quindi non concede spiegazioni neanche al Preside. Insorgono i sentimenti depressivi e di inadeguatezza tipici dell'alunno mobbizzato. Del mobbing Levi costruisce la forma diretta della derisione, e la forma indiretta della maldicenza e del pettegolezzo. Nel racconto i ruoli educativi vengono ribaditi, ma non sono un diaframma sufficiente a impedire la devianza del gruppo.
La parola di Mario, trattenuta e inibita, è sintomo della regressione della personalità, del rifiuto a mostrarsi libero, del rivendicare la sua diversità, la sua unicità: l'essere migliore degli altri.
Levi costruisce momento per momento il rifiuto consapevole di una gracile e soccombente condizione giovanile, della facile vittoria di una società aggressiva rappresentata dal gruppo. L'attenzione implicita è alla sua dinamica. L'isolamento, nel caso di Mario, è l'emarginazione del diverso; al contrario, per la giovane coppia di In fronte scritto l'ancora di salvezza è la costituzione del gruppo-ghetto in una perversa pratica di team leading. Nell'uno e nell'altro, stante il filtro della narrazione, Levi attua una drammatizzazione dei comportamenti di ruoli sociali, operando il trasferimento dalla realtà alla simulazione. Nell'un caso e nell'altro procede alla costruzione dello stigma, sulla fronte e sul ventre con la presunta mancanza dell'ombelico. Il problema che si cela è quello, più complesso, della creazione della leadership carismatica fino a forme di accondiscendenza, disfunzionali per il gruppo ma rispondenti alla self-leadership. Piccoli tiranni crescono.
Per lo scrittore sono i più giovani a pagare il fio di una mancata educazione. D'altra parte, per Raniero Speelman «Nella lettera all'Einaudi del 1987, Levi indagava l'attualità dei temi di vari racconti. I bambini sintetici (cfr. I Sintetici) sono una realtà».37 Ma lo studioso aggiunge:

«I bambini sintetici nati senza ombelico soffrono del loro essere diversi, come presumibilmente i ragazzi ebrei negli spogliatoi delle palestre si sentivano rivelati nella loro "alterità" di circoncisi. Interessante è la reazione difensiva del sintetico Mario ( si è già osservato che si tratta di un nome popolare fra gli ebrei italiani) che racconta a un amico l'idea di una congiura volta per salvare il mondo, per cui si avrebbe bisogno di bambini sintetici, nati vecchi».38

Ciò che si dimostra, una volta di più, nel racconto Decodificazione. Un altro ragazzo ancora, vittima della propaganda. Contrariamente agli altri due racconti, stavolta c'è un narratore autodiegetico nel ruolo di testimone della vicenda, intercalata dal presente della narrazione che dà valore assoluto alle riflessioni che si snocciolano nel cappello dai toni moraleggianti fino all'inizio del racconto vero e proprio. All'origine, il disegno di una svastica su una palina stradale, quindi su un paracarro e, successivamente, su un muro: «la bipenne stilizzata di Ordine Nuovo» con scritto accanto «Cinesi, ancora pochi mesi».39 Quindi, continua il narratore:

«sulla fiancata di una cappella, si leggeva "W le SS" con le due S irrigidite nella loro forma runica a seggiolina, quella prediletta e prescritta da Hitler e da Rosenberg, e di cui erano munite le linotypes e le macchine per scrivere del Terzo Reich. Ancora più avanti, e sempre con la stessa vernice verde scuro, stava scritto "A noi!"»40

Un ulteriore intervento del narratore presente chiarisce il proprio "sentimento":

«Non solo le scritte fasciste, ma tutte le scritte sui muri mi rattristano, perché sono inutili e stupide, e la stupidità danneggia il consorzio umano. A parte le eccezioni rivoluzionarie [...] sono ammissibili soltanto se opera di ragazzini o di chi ha l'età mentale dei ragazzini [...] Mi irritano anche più le scritte (ma sono rare) di chi pensa cose che anch'io penso, perché degradano idee che io ritengo serie. Insomma, le scritte sui muri mi spiacciono, specie se sono idiozie fasciste».41

La voce narrante tenta quindi di ricostruire la personalità del verniciatore: «Giovane, senza dubbio, per le ragioni dette prima [...] Intelligente no certo»42, ma la ricostruzione di plausibili caratteri fisici e psicologici non corrisponde al quindicenne reale che, dopo una rapida indagine, scopre di conoscere e al quale aveva in precedenza impartito lezioni di geometria.
Alla domanda diretta sull'imputabilità delle scritte una risposta altrettanto netta: l'ammissione della propria responsabilità.
«Ne ho abbastanza, è ora di finirla»43 afferma il ragazzo. Il tono è deciso: il nemico è il mondo intero.
Al narratore l'amara considerazione:

«Io pensavo che, per quanto dipendeva da lui, i cinesi avrebbero potuto sopravvivere a lungo. Pensavo anche alla essenziale ambiguità dei messaggi che ognuno di noi si lascia dietro, dalla nascita alla morte, ed alla nostra incapacità profonda di ricostruire una persona attraverso di essi, l'uomo che vive a partire dall'uomo che scrive: chiunque scriva, anche se solo sui muri, scrive in un codice che è solo suo, e che gli altri non conoscono; anche chi parla. Trasmettere in chiaro, esprimere, esprimersi e rendersi espliciti, è di pochi: alcuni potrebbero e non vogliono, altri vorrebbero e non sanno, la maggior parte né vogliono né sanno».44

La frattura fra chi scrive e chi vive dice l'insufficienza della parola scritta. Pochi hanno la virtù di rendere "espliciti" i messaggi, di lasciar trasparire la verità. A questo va aggiunta la persuasione della profonda solitudine dell'uomo. Se ogni scrivente ha un codice privato, la comunicazione si rende impossibile. La dicotomia ambiguità/chiarezza, la prassi anfibologica, definisce la sostanziale incomunicabilità. La conclusione:

«E pensavo infine alle migliaia di altre scritte sui muri italiani, dilavate dalle piogge e dai soli di quarant'anni, spesso sforacchiate dalle guerre che avevano contribuito a scatenare, eppure ancora leggibili [...] scritte tragicamente ironiche, eppure forse ancora capaci di suscitare errori dal loro errore, e naufragi dal loro naufragio».45

 

§ VI. Dalla crisi all’utopia Torna al sommario dell'articolo

V. Il passato e il futuro della parola

L'epilogo del racconto da una parte chiude il cerchio narrativo e dall'altra riferisce l'eterno ricircolo dell'anacyclosis non nell'idea che vi sia una ripetizione ineluttabile di eventi quanto il susseguirsi di eventi fondati su passioni umane identiche a se stesse.
Per ragioni diverse sia Procacciatori d'affari, in Vizio di forma, che Piombo, in Il sistema periodico, possono dirsi allegorie della vicenda umana e della sua ulteriore possibilità di rinascita e, dunque, di una nuova alba del mondo, pur in mancanza del tema specifico dell'infanzia violata nei suoi diritti e conculcata nella sua possibilità di espressione.
In Procacciatori d'affari, Levi enuncia la teoria del "vizio di forma", riedizione del montaliano sbaglio di natura, anche anello che non tiene e, infatti, «qualcuno - afferma lo scrittore attraverso il suo personaggio G. - da qualche parte ha sbagliato, ed i piani terrestri presentano una faglia, un vizio di forma». 46
Nel racconto tre individui, due uomini e una donna - i procacciatori d'affari - si recano da un giovane di nome S., che vive in un imprecisato luogo dell'universo, e gli propongono di rinascere uomo. Alle immagini di una vita felice che inizialmente mostrano attraverso materiale fotografico per determinarlo alla scelta, per effetto di una colpevole distrazione mescolano le rappresentazioni di una donna indiana e un bimbo scheletriti, di un uomo fortemente invecchiato a cui la signora B., nel tentativo di mitigarne l'effetto, accompagna l'evocazione delle acquisite doti di «prudenza», «esperienza di vita», «serenità», quindi della varietà delle razze con problemi razziali e della guerra con il giovane soldato ucciso.
Sulla guerra, in particolare, si sofferma il signor G. considerando i pannelli esemplificativi, ormai quadri dal «valore retrospettivo»47, ipotizzando ottimisticamente che «la seconda età dell'oro potrebbe essere già incominciata, in silenzio, furtivamente».48 Quindi, dopo l'ammissione della morte, l'elogio della vita.
Qualora accettasse di nascere uomo, S. sarebbe investito di ruoli e funzioni salvifici con compiti già definiti: «raddrizzare torti» o fare rapidamente «giustizia e gratis».49 Egli partirebbe da una posizione di vantaggio avvalendosi delle armi «della ragione, la pietà, la pazienza, il coraggio».50
Secondo Raniero Speelman:

«Anche se mancano in Vizio di forma atti unici come in Storie naturali, si sa che un racconto fu scritto nel 1970 per la RAI. Di tratta di Procacciatori d'affari, che andò in onda nel 1978 a RAI 2, nella regia di Massimo Scaglione, insieme a due atti unici di Storie Naturali [...] Il racconto si ispira probabilmente al romanzo utopico Erewhon dell'autore inglese Samuel Butler, anche se tale fonte non è mai palesata. Il libro di Butler è un'utopia negativa - il rovesciamento rispetto all'utopia positiva si deduce già dal titolo - e al contempo una satira della società victoriana nel suo moralismo ipocrita. Il testo di Levi, invece, si svolge, come già il sesto giorno, nel "cielo" dove una giovane anima viene reclutata per lavorare sulla terra».51

Per il percorso del protagonista è possibile istituire un parallelo con il film del 1968 Teorema di Pasolini. Almeno questo si intuisce nel membro più importante del comitato dei procacciatori d'anime, pur lontano dalle implicazioni ideologiche del film pasoliniano, e tuttavia dentro un alone fantascientifico se non metafisico. L'uomo venuto da un oltremondo sembrerebbe per altri versi, una conferma, mutatis mutandis, di ciò che Pasolini disse della sua creatura cinematografica e del suo rapporto con la realtà che si misura anche col sacro, presente in un'intervista di «Quinzaine Littéraire».52

«Il ne s'agit pas d'une parabole illustrant l'arrivée du Christ au milieu des hommes, dit Pasolini, ce n'est pas Jésus inséré dans le monde moderne. C'est Dieu. Le Dieu terrible de la Création: C'est Jehovah, mes rapports avec le sacré n'ont pas varié depuis l'enfance. C'est la réalité, c'est même la seule réalité essentielle, la seule qui me préoccupe et toute mon oeuvre tourne autour des rapports des êtres avec le sacré, de la présence du sacré dans le quotidien, que la société bourgeoise et capitaliste sans cesse, refoule et qui éclate alors».

Dietro il discorso narrativo leviano non ci sono né Cristo, né Geova, né il discorso sul sacro eppure la nuova creatura ha una missione da compiere nel mondo: «ci sono molte cose da raddrizzare [...] Non dovrà subire il male come un oggetto passivo: lei, e molti con lei, sarà chiamato a combatterlo in tutte le sue forme».53 Dietro c'è una visione laica delle cose e per questo S. «riceverà, insieme con la veste umana, le armi che le occorreranno: sono armi potenti e sottili, la ragione, la pietà, la pazienza, il coraggio».54 D'altra parte, se lo volesse, non nascerebbe «come tutti nascono: la vita le sarà spianata davanti»55; inoltre «non morrà: quando deporrà il suo abito umano, verrà con noi e sarà cacciatore d'anime come noi».56 Per quanto la terra rappresenti la corruzione del male, con la guerra e l'incedere dell'età, viene comunque rappresentata come percorso piano, privo di difficoltà, se non accidentali.
Il cammino della vita sulla terra sarebbe dunque in discesa, il prescelto non conoscerebbe la morte per poi diventare con loro «un cacciatore d'anime». Fatto salvo il discorso laico, l'uso dei termini "anime" e "virtù" avvicinano S., più di quanto possa pensarsi, al dettato pasoliniano di Teorema, così come la sua missione, certamente diversa da quella del protagonista del film, e tuttavia: «la vita le sarà spianata davanti affinché le sue virtù non vadano sprecate».57 L'allettante proposta viene comunque ricusata e con quella il percorso di figura angelicata, inizialmente battuto dal racconto. S. accetterà la scommessa laica di diventare uomo nascendo "a caso" come tutti:

«fra i miliardi di nascituri senza destino, fra i predestinati alla servitù o alla contesa fin dalla culla, se pure avranno una culla. Preferisco nascere negro, indiano, povero, senza indulgenze e senza condoni. Lei mi capisce, non è vero? Lei stesso lo ha detto, che ogni uomo è artefice di se stesso: ebbene, è meglio esserlo appieno, costruirsi dalle radici, concludere».58

All'ipotesi dell'incivilimento che G. gli rappresenta, all'ottimismo di un illusorio miglioramento grazie al moto dal forte sapore palingenetico, fa da contraltare il razionale rovesciamento delle premesse. E così, alla pole position di partenza che lo designerebbe da subito un diverso privilegiato, S./Levi oppone la scommessa di un destino, quale che esso sia, da mutare con le proprie capacità secondo tanti percorsi leviani, rappresentati al meglio dal personaggio di Faussone, artifex per eccellenza.
Alla procedura vichiana, già evocata nell'esplicito riferimento all'età dell'oro, Levi oppone, preferendola, l'idea di una storia dell'uomo che si ripeta, ma i cui esiti, pur legati all'ottimistica rappresentazione dell'homo faber, non siano precostituiti.
La nuova infanzia del mondo, il tentativo di porre fine allo sbaglio di natura sono possibili ipoteticamente ma non necessariamente. Nei fatti, vengono confutati così come l'idea dell'homo novus. Altrimenti accade con Piombo dove, dentro un percorso di letteratura coloniale, Levi propone la riedizione dell'idea vichiana di incivilimento progressivo. Si compie l'età del piombo e si dà inizio all'età dell'oro. Il racconto è particolarmente significativo, insieme a Mercurio ha dato inizio alla stagione letteraria dello scrittore torinese.59
Inseriti nella raccolta Il sistema periodico, uno dei suoi testi di maggiore originalità, sia Piombo che Mercurio occupano un posto di rilievo sottolineato dal corsivo che ne esalta la specificità di opere d'esordio. Essi sono precedenti alla produzione concentrazionaria, come riporta, fra gli altri, Ian Thomson nella biografia dello scrittore piemontese.60
Nella graduatoria stilata dentro La ricerca delle radici, La guerre de feu. Roman des àges farouches dello scrittore belga J. H. Rosny 61 - da cui Levi ha tratto l'ispirazione per scrivere Piombo - occupa uno dei primi posti anche perché è 'forse' il primo libro che egli ha letto in francese, il che, come ribadisce, «ha aggiunto esotismo a esotismo e avventura all'avventura».62 È poi indicativo che il brano scelto a illustrare l'intero romanzo, intitolato Il patto con i mammut, ripeta l'agire del protagonista di Piombo. Rodmund parte anch'egli per una scommessa, lascia il suo gruppo e la lingua della coesione - ribaltando le situazioni in cui la lingua diventa strumento della diversità - e attraverso la prassi del vertere, del tradurre, attua il riconoscimento dell'altro. Con l'accostamento alla sua delle lingue straniere, compresa l'ultima, fonda un villaggio in un luogo del Sud, paradigma del locus amoenus, come nella migliore tradizione letteraria, e la sua morte diventa rinascita e base per l'età dell'oro. Alla pari dei luoghi ideali la Sardegna, cui si fa riferimento, assume la valenza di isola di emancipazione da un'umanità e da una storia ormai logore e di cui il Nord è rappresentazione del locus asper. «Il mio paese è diverso da questo: ha grandi foreste e fiumi, inverni lunghi, paludi, nebbie e piogge»63,- riferisce Rodmund - «Lui stesso (il proavo) mi hanno raccontato, veniva da molto lontano, da un paese dove il sole è freddo e non tramonta mai, la gente abita in palazzi di ghiaccio, e nel mare nuotano mostri marini lunghi mille passi».64
Lo spazio alternativo si conferma locus amoenus in originale chiave visiva, olfattiva e uditiva, i cui elementi costitutivi sono «una terra di roccia e di vento», «l'aria [...] piena di odori d'erbe, amari e selvaggi», «una fila di colline che in alto diventano dirupi», e la presenza di «pietre meravigliose, certamente gravide di metalli mai visti, che affiorano in tracce bianche, viola, celesti», «una terra dove nascono le palme e si condensa il sale, e si sentono di notte i cani latrare sulla pista dell'orso».65
Un Levi profeta sembra qui offrire un'altra opportunità. La rinascita di Rodmund nella sua progenie, dentro il perimetro del locus amoenus, disegna un'inedita fase di vita: la scommessa su un altro destino possibile. Di un mondo allo stadio germinale, di un'umanità vergine, di un tempo giovane ancora una volta. Con Rodmund, e l'originale esercizio della facoltà mitopoietica, lo scrittore trasforma in favola il desiderio dei giovani di «mettersi deliberatamente nella posizione di straniero», dove «ci si accorge che le barriere sono facilmente valicabili». L'uomo che viene dal Nord e raggiunge il Sud del desiderio è la traduzione letteraria della gioventù che attraversa il mondo attuale di cui riferisce l'intervista "Capire e far capire", all'inizio di questo discorso. Egli va per nuovi sentieri della storia alla stregua di quei «dodicenni e quattordicenni» che «cominciano presto a viaggiare» per la realizzazione di un loro locus amoenus, ai confini dell'immaginazione.

 

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VIII. Dalla crisi all’utopia

Sebbene scritti in tempi diversi, i due racconti narrano di crisi, speranza e utopia. Da una parte è come se la negazione dell'umanità, perseguita nel Lager, avesse determinato il dovere della sua riconferma e l'esigenza della palingenesi. Dall'altra, mito e fantascienza sono l'alternativa a una storia sul cui proscenio l'uomo ha ormai recitato l'ultimo atto della sua contraddittoria biografia.
Se nei Procacciatori d'affari S. deve ancora nascere, Rodmund deve solo morire. Se S. deve rinascere in un altro luogo, anche Rodmund deve rivivere attraverso la sua prole. Rodmund, uomo del passato e figlio di un mito nordico ormai esangue, precede diacronicamente S., uomo del futuro. Rodmund è figlio della letteratura coloniale e anticipa, nella biografia letteraria di Levi, la sua memoria concentrazionaria, essendo stato scritto una prima volta nel 1941. S. viene dopo la sua produzione memoriale. Di tutta evidenza la loro diversità. Se con S. si ipotizza un nuovo inizio in un'auspicabile infanzia del mondo, Rodmund è anch'esso parte ineludibile del processo di rinascita. I luoghi, dentro una Sardegna lontana da ogni processo di corruzione civilizzatrice, rappresentano i confini dell'utopia, l'ideale in cui credere per rifondare l'umanità che muore del piombo di una civiltà consunta, come Rodmund, allegoria di un passato in cui gli dei hanno perso il loro potere, uguali ai mille dei che nel tempo trascolorano, come quelli di Lucrezio, lontani dal destino dell'uomo e ai confini dell'incomunicabilità.

 

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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2