Lorenzo Babini
Intervista a Milo De Angelis

 

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§ Vai alla fine

Partiamo dal presupposto che la sua sia una poesia difficile, complicata, all'apparenza enigmatica. Io penso che questa presunta oscurità derivi in buona parte dal suo rifiuto di inserirsi in continuità con la tradizione lirica italiana (secondo gli assi Dante/Petrarca) preferendo porsi in dialogo con le esperienze culturali che lei ha da sempre definito come tragiche (non solo i greci ma anche Lucrezio e molti contemporanei, soprattutto Pavese). Ma cosa significa essenzialmente essere tragico? Cosa distingue la tragedia dalle altre espressioni artistiche?

In effetti mi ha sempre lasciato incredulo, fin da quando ero studente al ginnasio, la tesi di De Sanctis che tutto potesse rientrare nello schema Dante/Petrarca. Ho sempre anteposto a questa visione il richiamo urgente di un'affinità elettiva, percorrendo secoli e letterature alla ricerca di anime fraterne. E ho trovato queste affinità nel vuoto d'amore di Cavalcanti, nella malinconia del Tasso, nel grido cosmico di Leopardi. E poi, nel novecento di Campana, Montale, Pavese, Luzi e pochi altri italiani. Non meno importanti sono stati i francesi, i russi e i tedeschi, De Nerval, Baudelaire, Char, Dostoevskij, Cvetaeva, Benn, Celan. Non sono tutti autori "tragici" in senso stretto, ma sono comunque autori che hanno avvertito la "vicinanza" del tragico, uno stato di alta tensione dove la bellezza della vita e il disastro del nulla emergono insieme. Nella tragedia greca (l'unico genere letterario, scrive Nietzsche, che finì "tragicamente") tutto avviene per aut-aut sanguinosi. Per questo Leopardi e Pavese,1 più di tutti tra gli italiani, mi sono stati vicini e mi hanno parlato fin da ragazzo, perché hanno vissuto in profondità quella guerra permanente tra gli opposti, senza pace e senza dialettica, che poi sarebbe diventata anche la mia guerra.

Il pensiero di Nietzsche e la sua riflessione sulla tragedia sono stati significativi per la sua formazione poetica?

Quando ho letto La nascita della tragedia, mi sono chiesto cosa poteva aver vissuto quel ragazzo per scrivere a ventisei anni un libro del genere. L'impressione fu subito definitiva. Mai avevo letto un simile tormento in un filosofo, una simile inquietudine sbigottita, una tale potenza interrogativa, una tale messa a nudo di se stesso: gli altri filosofi, al confronto, sembravano esangui manichini. D'altra parte l'intuizione dionisiaca di una radice terribile della vita non poteva che portare a una scrittura così riconoscente e trafitta, capace di baciare il disastro con la benedizione di un sì. Nietzsche aveva scoperto ciò che era sfuggito a Goethe e a Winckelmann, ai classici e ai romantici: l'anima demoniaca della Grecia. E io che, fin dai tempi del liceo, intuivo qualcosa del genere nelle parole brucianti di Eschilo ed Eraclito, non aspettavo altro. Aspettavo soltanto che un uomo geniale esprimesse questa furia dell'anima greca. Nietzsche afferma che vivere significa essere in pericolo. Noi potremmo aggiungere che leggere Nietzsche significa avvertire ancora più profondamente questo pericolo.

Daniele Piccini ha fatto notare come, nella sua poesia, il destino umano appaia come una «somma irrevocabile degli atti del passato»,2 riconducendo questa visione al magistero di Pavese. Ci può essere uno spazio per il caso o per l'arbitrio dell'uomo? Lei, per esempio, in una poesia di Somiglianze (L'idea centrale) parla di una sorta di illuminazione avvenuta «per caso».3

Non c'è mai fatalismo in ciò che scrivo. Il fatalismo è un rimedio troppo facile, una terapia a buon mercato. Il fatalismo è il contrario del tragico, è una variante della depressione. In una visione tragica della poesia, il destino (ανα΄γχη), il caso (τυ΄χη) e la libertà (θυμο΄ξ) vivono insieme in un contrasto feroce. Anche nel gesto più obbligatorio emerge la punta della libertà e insieme il dado della sorte. Ma nemmeno in Pavese, se leggete bene, tutto è già deciso dall'infanzia. Insieme al fatalismo più cupo c'è in lui il guizzo adolescente del debutto, la gioia di un gesto iniziale. Pensate a quello che scrive nel Mestiere di vivere pochi mesi prima del suicidio (9 marzo 1950): «Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età? Non mi succedeva diverso a venticinque anni. Eppure ho un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza». E pochi giorni prima di morire (18 agosto 1950): «Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte e cade l'idea del suicidio».

Ci può descrivere concretamente come si presenta in lei la dinamica creativa da cui si origina un componimento? Cioè: come lavora quando scrive?

Mi ha spesso accompagnato un quaderno blu (formato scolastico cm. 15 x 20) su cui ho preso appunti nei bar, nei tram, nelle sale d'aspetto, negli uffici postali, nelle panchine del carcere, nel ristorante siciliano di via Varé. Questa è la costante. Poi ci sono le variazioni da libro a libro. Ogni poesia di Somiglianze nasce, ai tempi del liceo e dell'università, dopo accanite discussioni con i primi compagni del mio viaggio poetico: Angelo Lumelli, Michelangelo Coviello, Franco Buffoni, Mario Mieli. Millimetri invece è stato scritto e riscritto centinaia di volte in solitudine, un'ossessione misantropa e senza suggerimenti. Terra del viso e Distante un padre sono un faticoso viaggio nel regno verbale più allucinato. Biografia sommaria è un ritorno alla realtà, con un tentativo di progetto, con indicazioni e svolgimenti stabiliti. Tema dell'addio è scaturito all'improvviso, incontenibile, nell'estate del 2003. Quell'andarsene nel buio dei cortili riunisce tutti i miei libri ed è il frutto di una sintesi estenuante. Unica eccezione alla sofferenza espressiva è La corsa dei mantelli, scritto tra il 1976 e il 1977 con gioia e rapimento, quasi senza correzioni.

Un aspetto stilistico ricorrente nelle sue raccolte riguarda la presenza di auto-citazioni. Che funzione hanno? Per quale motivo durante il processo compositivo sceglie di riutilizzare versi già pubblicati in precedenza?

L'auto-citazione, come sai, ha una storia millenaria, che va dai loci similes della poesia latina al petrarchismo europeo e poi al Romanticismo tedesco (pensa a Fülle der Liebe di Friedrich Schlegel e alla rielaborazione strumentale del Lied in Schubert). In tempi più recenti c'è l'auto-citazione ironica di Gozzano, quella sofisticata di Zanzotto, quella parodistica dell'ultimo Montale. Per quanto mi riguarda, nulla di ironico, colto o parodistico - ci mancherebbe - ma anche nulla che si connetta alla tradizione classica dei loci similes. Si tratta piuttosto, se vogliamo cercare dei precedenti, di una citazione da tragedia greca - Eschilo innanzitutto - ossia sacra, ossessiva e formulare, che crea un movimento spiraliforme, un tornare su se stessi sfiorando il cammino precedente, riportando un brano di quel cammino in un tempo attuale e dandogli così nuova vita, intrecciando il medesimo e lo sconosciuto, il prima e il poi. Lo "scisma nell'idea", per citare un'immagine da me ripetuta, cambia volto, respiro e potenza se questo scisma lo vivo a vent'anni o se lo vivo adesso, quando non è più cercato - e direi corteggiato - con furore giovanile, ma giunge improvviso come un ictus a fulminare il mio progetto e la mia maturità.

Ci si stupisce di trovare in due sue poesie, appartenenti a due raccolte differenti, riferimenti a Luigi Tenco: in Terra del viso nella poesia Memoria e poi in Distante un padre nella Canzone del gennaio asciutto scritta in dialetto monferrino. Che rapporti ha avuto con Tenco? Ci può essere, secondo lei, un legame tra poesia e canzone d'autore?

No, nessun rapporto serio tra poesia e canzone. I cantautori, anche i più bravi, sono tutti irrimediabilmente facili. Imboccano delle scorciatoie, scelgono sempre la strada più breve. Nessuna ricerca profonda sulla parola, ma seduzione, consenso immediato, applauso. Detto questo, Luigi Tenco era, dal punto di vista musicale, un ragazzo di talento, uno che amava il jazz e sapeva muoversi in zone ignote allora in Italia. Ed era, dal punto di vista umano, un uomo inquieto e sofferente. A quindici anni, più o meno, l'ho conosciuto di persona. Eravamo nei suoi luoghi, a Ricaldone, che erano anche i luoghi monferrini di mia madre. Era un uomo di poche parole. Aveva simpatia per me e per i miei primi tentativi poetici. Una sera, camminando per un sentiero vicino alla casa in cui abitava da bambino, dopo essere rimasto a lungo in silenzio, disse una frase che mi colpì: «Mì serch sensa pietà quaidün ch'al fassa ün tentativ par mì» («Cerco senza pietà qualcuno che faccia un tentativo per me»).

Un altro suo importante riferimento culturale ci è suggerito da una poesia Ronefor, tratta da Terra del viso, in cui scrive: «Nessun uomo /saprà imbrattare la salvezza / di questa India che mi ossessiona».4 Lei ha dedicato all'Induismo tutta la terza parte del suo libro Poesia e destino. Che cosa ha rappresentato l'India per lei?

L'India per me è il Proibito. Ho cercato per anni di entrarci. Ho letto, studiato, conosciuto, supplicato. Niente da fare. Il pensiero indiano rimane indecifrabile nella sua essenza. Eppure continua ad attrarmi. L'idea di unità, il non dualismo (advaida vedanta) e poi Nisargadatta con la sua lama di pensiero formidabile, la limpidezza paesaggistica di Krishnamurti, la fantasia visionaria dei grandi poemi, soprattutto il Ramayana. Continuo a bussare alla porta indiana che c'è in me, faccio ipotesi, la guardo titubante in attesa di una risposta. Dell'Induismo potrei dire con Aurobindo: «se sia spirito o donna, niente o gatto, è sempre stato il mio dubbio».5

Un tema ricorrente nella sua poesia riguarda lo "svelamento", riconducibile forse, come velo di Maya, ad una spiritualità orientale. Sto pensando soprattutto ad alcuni versi di Somiglianze in cui ricorre l'immagine del cadere di tuniche e bende. Inoltre in un recente incontro dedicato a Pavese lei accennava a due modi d'intendere la letteratura: uno legato al tema della fondazione, l'altro a quello dello svelamento.6 Vorrei chiarire questa sua affermazione: cosa intende quando parla dello "svelamento" in contrapposizione alla "fondazione"?

Distinguere in modo drastico e giovanile tra una visione del mondo sperimentale legata alla "fondazione" e un'altra romantica legata allo"svelamento" e schierarsi senza ombra di dubbio dalla parte di quest'ultima ... era quasi un comandamento ai tempi di «Niebo». Tutti gli scrittori per noi importanti erano scrittori dello svelamento - da Campana a Pavese, da Schopenhauer a Nietzsche a Blanchot a Bonnefoy - scrittori convinti che esista una verità prima di loro, un universo mitico incessante, una sterminata infanzia, un mondo di simboli da denudare attraverso la parola. Adesso però, pur mantenendo viva quella fede, aggiungerei che la verità svelata e sottratta all'ignoranza (a-lezeia) non si dà solo con il tocco magico e notturno dell'ispirazione ma anche con un cammino propiziatorio e sacrificale (sacrum facere, rendere sacro il fine ultimo) svolto nelle opere e nei giorni, disponendosi alla navigazione di lungo corso, con la pazienza diurna, il lavoro instancabile, la guida luminosa di un progetto.

Mi pare di cogliere in alcuni suoi versi la presenza del pensiero di Artaud: penso alla polemica contro la cultura occidentale che attraversa tutta Somiglianze oppure all'immagine del grido, presente in tutte le sue raccolte ed elemento fondamentale del "Teatro della Crudeltà". È stato Artaud un autore importante per la sua formazione?

"Crudeltà" per Artaud significa rigore cosmico, amputazione del futile, dovere assoluto. Un uomo come lui, che ha sentito nella carne la ferita della parola, non poteva che affascinarmi fin dall'inizio. E tuttora mi affascina la sua esistenza meteorica, il suo fare sempre domande totali, il tentativo disperato di restituire alla parola il suo vibrare e il suo contorcersi. Condivido anche le sue scelte politiche, improntate anch'esse all'assoluto, la sua certezza che la rivoluzione sociale fosse solo un aspetto della rivoluzione integrale. E non mi stupisco che nel 1925 - di fronte all'insistenza di Breton e degli altri surrealisti militanti, i quali gli intimarono di iscriversi al Partito comunista - Artaud abbia gridato un no così perentorio e insultante. Non mi stupisco: un anarchico puro come lui detestava le mediazioni e sentiva nello scrivere, ben oltre la cronaca e suoi schieramenti, una questione di vita o di morte. Per quanto riguarda i suoi libri, ce n'è uno che amo più di tutti: Al paese dei Tarahumara. Non esiste, nella vasta letteratura sulla droga, un testo così affilato e sconvolgente, capace di addentrarsi nei meandri più oscuri della psiche umana e capace di cogliere nel proprio corpo smembrato la ferocia dell'universo.

Biografia sommaria, che ha segnato nel 1999 un suo ritorno alla scrittura dopo quasi dieci anni di silenzio, si conclude con un poemetto dal titolo Costruzione con i fiammiferi in cui lei sembra tracciare una sorta di autobiografia in chiave fortemente simbolica. Un dato rilevante riguarda la presenza di riferimenti religiosi interpretabili come cristiani e che, in questo senso, rappresentano un unicum nella sua produzione poetica: basti pensare a quella «comunione» con cui si chiude il testo. C'è stato, da parte sua, un avvicinamento al cristianesimo che ha preceduto e influenzato la composizione della raccolta?

No, nessun avvicinamento al cristianesimo. Qualcosa me lo impedisce nell'essenza. Né la Bibbia né i Vangeli mi hanno mai toccato profondamente, nemmeno da ragazzo. Ho sempre scelto un'altra via, quella di Omero, della tragedia e degli eroi. La morte di Marina Cvetaeva mi ha commosso più di quella di Gesù di Nazareth. Detto questo, rimane il fatto che indubbiamente, come hai notato, Costruzione con i fiammiferi è il mio testo più spirituale, con prestiti di lessico sacro. È il dialogo con un insegnante di Storia delle Religioni conosciuto ai tempi dell'università e poi ritrovato vent'anni dopo. "Comunione" o "resurrezione" qui hanno un significato vasto, cristiano e precristiano. Cristo resuscita. Ma anche Ippolito resuscita, Alcesti resuscita, Semele resuscita, tutta la mitologia greca e persiana, tutti i culti misterici sono pieni di resurrezioni. A ciò si aggiunge un evento biografico legato alla prima comunione, all'Istituto Gonzaga, ai contrasti sanguinosi con alcuni Fratelli delle Scuole Cristiane, che mi hanno spinto a fuggire. Insomma capirai che Costruzione con i fiammiferi è davvero un polittico, dove le parole del pastore salesiano si mescolano a quelle di Zoroastro, di Parmenide, Spinoza, Nisargadatta, tutti dentro l'immenso regno dell'unità, dell'Advaita, e io assisto sbigottito a questa pienezza inarrivabile di creature che "non sono frantumate" nel loro nucleo originario, creature che ammiro, temo, detesto, fisso a lungo, incerto e incredulo.

Una riflessione che lei ha frequentato costantemente riguarda la morte. Mi pare però che questo tema abbia conosciuto all'interno della sua opera vari sviluppi e cambiamenti di prospettiva. Nella sua prima raccolta era un'esperienza corteggiata come avvicinamento ad una trascendenza, come attimo della rivelazione. Nelle raccolte degli anni '80 la morte è forse quel perdersi da cui scaturisce la scrittura. In Tema dell'addio appare invece come presenza portatrice di ordini necessari, fino ad arrivare a Quell'andarsene nel buio dei cortili in cui si assiste ad un continuo e persistente assedio del buio e del nulla. È alla morte vissuta come assedio che si lega il motivo dell'asfalto, presenza costante nelle sue ultime raccolte?

La morte ha sempre tracimato in ciò che scrivo, ha generato distruzione e allagamenti. Ogni mio libro ne porta il segno, l'unghiata violenta. In Somiglianze - che deve qualcosa a Sartre e Camus - la morte è uno "scandalo", una presenza irragionevole capace di scaraventare ogni progetto umano nell'assurdo, ma capace anche di generare un insperato élan vital, un grido di orrore e di rivolta. In Millimetri, tutto avviene sottotraccia, nelle grotte più buie della vita, a contatto diretto con le apparizioni. Nei libri successivi c'è una tale angoscia di non arrivare al giorno dopo, una tale dittatura del giorno presente, che anche la morte si situa sullo sfondo, diventa qualcosa con cui faremo i conti. In Biografia sommaria e Tema dell'addio sulla morte prevalgono i defunti o le ombre, con le loro singole vicende, mentre in Quell'andarsene nel buio dei cortili vengono premuti tutti tasti delle morti precedenti, in una rapsodia. Unica eccezione, ancora una volta, è La corsa dei mantelli, che testimonia un periodo felice della mia vita (1976-1979) e che spinge i morti nella banda adolescente, li fa giocare, scomparire, rinascere, soffrire e sorridere insieme ai ragazzi, una corsa ininterrotta, un perenne chiaroscuro. Per quanto riguarda l'asfalto, è vero che in Tema dell'addio assume un volto minaccioso, entra nella stanza, copre il cuscino, si scioglie nel fuoco dell'estate. Però mi è caro, l'asfalto. In altri libri resto ammirato dalle luci che riflette o dalla pioggia che accoglie mutando colore o dai camion che sostiene e fa correre lungo le tangenziali. E senza di lui, ossia senza la città, non avrei scampo!

Tutta la sua opera poetica è pervasa da riferimenti e intuizioni che riguardano la scrittura e il fare poesia, che si intrecciano in modo indissolubile con temi esistenziali. Anche la sua ultima raccolta (Quell'andarsene nel buio dei cortili) presenta una forte componente metalinguistica e metapoetica: «La casa si allontana / dai soggiorni, tutto / è consegnato all'evidenza / della fine, tutto è sfuggito ... /... ma la sillaba / che stringeva la gola / è questa».7 Esiste, secondo lei, una realtà, una speranza fuori dal canto e dal linguaggio?

A volte, certo, nei miei versi ho parlato della poesia. O meglio, ho parlato alla poesia, mi sono rivolto a lei, l'ho invocata, le ho chiesto di tornare, rimanere, sparire. E l'ho sempre mescolata a un calendario terrestre, a un'agenda di passioni e incantamenti, al fremito dell'esperienza. Per questo non userei l'aggettivo "metapoetico": troppo scientifico. Parlerei invece di un'ansiosa prossimità alla creatura chiamata poesia. Una realtà o una speranza fuori dal linguaggio? Può esistere, ma ci è dato immaginarla solo in termini linguistici, ci è dato pensarla solo attraverso un alfabeto. L'essere e la parola nascono insieme e non finiscono mai di scoprirsi.

La presenza implacabile di questo assedio del buio e della morte rende, a mio avviso, Quell'andarsene nel buio dei cortili una delle raccolte più tragiche e piene d'angoscia che lei abbia scritto, dominata da una tensione che non smette d'interrogare. Eppure ci sono alcuni motivi di speranza, versi che fanno pensare ad una resurrezione, come per esempio: «si aprono gli occhi /della tuffatrice con la testa spaccata».8 Inoltre l'ultima sezione del libro, Canzoncine, sembra celebrare l'armonia di un nuovo incontro; lei scrive, verso la conclusione: «siamo il sangue / di un attimo, siamo / le prime corse nell'ombra, siamo / rimasti».9 Sembra qui che la sua poesia dia voce ad una serenità inedita, ad una calma raggiunta e si apra a forme più lievi e leggere. È questa un'uscita dalla dimensione tragica che inaugura una nuova stagione della sua poesia? Cosa sta scrivendo ora?

Dopo il libro del 2010 non ho più scritto nulla: silenzio integrale per anni. Da qualche mese però si affacciano immagini di prigionia, figure di un carcere reale e di un carcere interiore, ore d'arie, corridoi, scorci di allegria. Vediamo se troveranno una forma.
È vero, 19 marzo è una poesia carica di luce e di stupore, una delle più soavi dell'ultimo libro: si narra di una fanciulla che gioca a pallone e che ferma nel suo dribbling l'intera infanzia. E non è l'unica, basta leggere certe Canzoncine. D'altra parte è sempre così. Non c'è tragedia senza uno sfondo di voci felici, un controcanto di gioia indiscussa. In ogni mio libro, persino in Millimetri, c'è l'incursione dell'ebbrezza, il sorriso del mondo. E una gioia così profonda si dà soltanto a chi ha conosciuto il buio senza appello. Pensa alla risata di Kafka o al brivido impetuoso di Ingeborg Bachmann o Dylan Thomas. Uscire dalla dimensione tragica? Sarebbe come uscire dalla vita, fermo restando che il tragico non è la depressione, l'umor nero o la malinconia, ma piuttosto un'alternanza rapida e a volte incontrollabile di stati opposti, una discesa precipitosa lungo i tornanti dell'incubo e una risalita altrettanto subitanea, come un palombaro volante, dai fondali più bui dell'oceano alla luce tenera delle onde.

 

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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2