Angela Guiso
Il compromesso della modernità: la scrittura di Daniele Del Giudice tra attualità e tradizione.

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
Premesse
«Lo stadio di Wimbledon»
«Mania»
Conclusione


 

§ II. «Lo stadio di Wimbledon»

I. Premesse


«Secondo te esistono punti di riferimento validi per il romanzo di oggi nella narrativa italiana del Novecento?».1
Alla domanda di Angelo Mainardi, risalente al 1985, Daniele Del Giudice rispose manifestando molti dubbi.


«Non so risponderti, perché purtroppo io non ho punti di riferimento. Credo che quest'epoca chiami a una narrazione così diversa e così nuova che non puoi trovare punti di riferimento in epoche immediatamente differenti. Forse quello che ti può accomunare con la tradizione è il fare. Puoi incontrarti, sul tuo bisogno di raccontare, anche con uno scrittore molto più vecchio di te, di idee completamente diverse dalle tue». 2


Fin da quella lontana intervista, Daniele Del Giudice esitava sulla sua collocazione dentro uno statuto delimitato e tuttavia tendeva a riconoscere il solco nel quale inscriversi. Non disdegnava infatti il riferimento alla tradizione, anzi la evocava come percorso di fratellanza con chi nutriva il medesimo bisogno di scrittura.
Se la cronologia e la datazione perfino pignola dei racconti di Mania3 sembrano rimandare al postmoderno, la sua opera non è ascrivibile al solo postmoderno o alle sue correnti4 o al New Epic5 o alle performances narrative di genere noir, umoristico, erotico e storico per le quali si parla di «passaggio dall'antiromanzesco al romanzo iperromanzesco» o di «svolta tra il moderno e il postmoderno nel campo specifico della letteratura».6
Dopo attento esame delle divaricazioni dei critici intorno al termine "postmoderno" e a ciò a cui esso rimanda7 non è irragionevole collocare la sua inclinazione letteraria in un ambito apparentemente generico e avaloriale, dentro i canoni della tradizione e della modernità, riferiti rispettivamente a Lo stadio di Wimbledon e a Mania. Appare chiaro che, viceversa, essi riconducano a valori e giudizi letterari.
Nel caso specifico di tradizione si rinvia allo specimen bloomiano:


«La tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione: è anche un conflitto tra genio passato e attuale aspirazione, il cui premio è la sopravvivenza letteraria ovvero l'inclusione nel Canone. […]. Poemi, racconti, romanzi, pièces teatrali vengono in essere quale risposta a poemi, racconti, romanzi e pièces precedenti, e tale risposta dipende da atti di lettura e interpretazione da parte degli scrittori successivi, atti che sono identici con le nuove opere […]Nuove metafore, o inventive elaborazioni di tropi, sempre implicano una partenza da precedenti metafore, o tale partenza dipende da un almeno parziale allontanamento o ripulsa di un'anteriore figurazione».8


Sia la continuità tematica che il percorso più o meno aderente a topoi e miti si definiscono, pertanto, dentro la tradizione letteraria.
Ma a proposito della definizione di canone, ribadita nell'intervento di Harold Bloom, non paiono ininfluenti le correzioni che Romano Luperini riferisce alla letteratura italiana dell'ultimo trentennio. Secondo lo studioso:


«Senza un canone una società è priva di identità culturale; ma quando esso di irrigidisce, si cristallizza e si trasforma in una serie di norme rischia di bloccare i naturali processi evolutivi del gusto e della coscienza civile. Il nichilismo del canone - praticato da chi teorizza la sua non necessità e si limita a sottolineare i rischi - è non meno pericoloso del dogmatismo del canone praticato invece dai tradizionalisti che vorrebbero istituzionalizzarlo. In certi momenti storici prevale il primo pericolo, in altri il secondo. Oggi quello del nichilismo è prevalente, essendo la conseguenza naturale di una sorta di saturazione del mercato culturale e di una indifferenza di valori. Beninteso, un canone è sempre tardivo, talora postumo addirittura. Esso implica comunque una sedimentazione nel tempo. Per tale ragione un canone della contemporaneità più recente è sempre assai più oscillante che stabile. E tuttavia il panorama letterario delle generazioni che si sono alternate negli ultimi trent'anni è tutt'oggi così indeterminato nei valori che tale estrema volatilità del canone costituisce un problema degno di attenzione».9


Con queste avvertenze, ma con l'intento di verificarne la liceità, si vuole riferire alla tradizione Lo stadio di Wimbledon,10 opera prima dell'autore, per il luogo in cui la vicenda si svolge o rimanda, per il concetto di triestinità e per la presenza del personaggio ebraico così come in tanta narrativa italiana passata e presente.
Nell'ambito della modernità si collocano, viceversa, i racconti della raccolta Mania.
La scelta di optare per il concetto di modernità, pur identificando elementi di postmodernità, è legata alle motivazioni che Giuseppe Petronio e Cesare Segre hanno dato rispettivamente del postmoderno l'uno11, della narrativa di Del Giudice l'altro,12 riconoscendo all'autore, in particolare Segre, quella tensione etica, generalmente bandita o più o meno innocentemente assente nella scrittura postmoderna, e che Petronio non nega all'indagine del moderno.13 È implicito che una schematizzazione rigida non sia possibile per cui negli interstizi del discorso si accamperanno rimandi alla narrativa nel suo insieme.
L'ordine cronologico delle opere di uno scrittore è sempre importante, nel tempo di cui ci si occuperà è opportuno tener conto delle ragioni di cui parla Remo Ceserani, per il quale:


«Nel caso particolare del Novecento le cose - relativamente alle "partizioni storiografiche"- sono complicate, perché c'è stata un'accelerazione degli avvenimenti economici, storici e sociali, e perché nell'uso delle etichette, delle astrazioni, per iniziativa soprattutto degli studiosi d'arte […], si è cominciato a ragionare per decenni. A ciascuno di questi decenni, compiendo un'operazione storiografica non del tutto ingenua, è stata data un'identificazione: gli anni Ottanta sono diventati così gli 'orribili anni Ottanta', gli anni Sessanta sono gli anni della speranza».14


Si è nel mezzo di un discorso riguardo al "grande mutamento epocale" che - nell'ottica del critico - porterà all'affermazione del postmoderno come di un'«epoca di mescolanza degli stili e di rifiuto del procedimento di imposizione degli stili[…]La nostra epoca - afferma più avanti lo studioso - è dunque caratterizzata dall'essere l'epoca di tutti gli stili e quindi di nessuno stile».15
Se l'avvertenza vale fino agli anni Ottanta, oltre ai quali Ceserani in quell'intervento non si spinge, a maggior ragione deve valere per i decenni successivi. Gli anni Novanta, il Duemila e l'epoca contemporanea prossima al Duemiladieci sono anni complessi per ragioni ancora diverse.
Fatte salve queste considerazioni, si dovrà ovviamente valutare come influente l'arco temporale in cui si dispone l'opera di Del Giudice che va dagli anni Ottanta al 2000 circa, considerato che Lo stadio di Wimbledon è del 1983, L'atlante occidentale del 1985, Nel museo di Reims del 1988, Staccando gli occhi da terra del 1994, Mania del 1997, e cioè un periodo percorso da numerose querelles sulla presenza, l'entità, la liceità del postmoderno e, insieme, sulla sua inesistenza e sul suo trascolorare fino al definitivo declino.16
Nel mezzo di queste contraddittorie valutazioni la sua opera conosce mutamenti e certezze.
Coevo di scrittori come Tiziano Scarpa, Aldo Nove, Antonio Moresco, Raul Montanari, Nicolò Ammaniti, qual è stato il suo apporto alla famosa quaestio cui aveva dato l'abbrivio Mauro Covacich su «L'Espresso» del 15 gennaio del 2004, e che ha visto contrapposti o complici critici e scrittori della nuova generazione o di poco antecedenti? In quell'occasione dopo un lungo silenzio, finalmente si realizzava un vivace dibattito sui contenuti e sul ruolo della letteratura più recente.17
Nel tempo di bilanci lo scrittore ha preferito conservare una sua autonomia identitaria con una propensione per le soluzioni linguistiche più che per le scelte tematiche, secondo quanto afferma Tiziano Scarpa in un'intervista del 2001 su «Bollettino '900».18
Alla domanda «Che cosa pensi della letteratura italiana contemporanea e dei suoi rapporti con gli altri linguaggi?», Tiziano Scarpa risponde nel modo seguente:


«"Letteratura italiana contemporanea" è una dicitura troppo vaga. Comunque, alcuni autori come Nicolò Ammaniti, Daniele Del Giudice, Valerio Evangelisti e Antonio Moresco riescono a fare con le parole cose più potenti di qualsiasi altro medium, proprio perché sfruttano artisticamente i limiti delle parole. Mi viene da pensare che l'errore tecnico stia proprio nel considerare i linguaggi come "media". Un linguaggio non è un medium, non è un mezzo! Ciascun linguaggio (visivo, sonoro, verbale) è la natura e la vocazione delle arti.19 Ciascun linguaggio è la forma e il destino di ogni singola arte: proprio in quanto forma e destino, proprio in quanto percepisce se stesso come mortale, ciascun linguaggio è la malinconia e la gloria dell'arte».20


Il giudizio che accomuna scrittori diversi tra loro implica un oggetto in comune: l'oggetto lingua, isolato/esaltato, nella precisazione di Scarpa, come elemento connotativo dell'arte degli scrittori succitati, seppure nella sua limitatezza artistica. Ne risulta, da un lato, la definitezza della parola letteraria, dall'altra il giudizio implicitamente negativo sulla reale possibilità della lingua come strumento conoscitivo del reale, che è limite dell'uomo. Ma il discorso non è certo nuovo e riferibile alla sola epoca attuale.

 

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II. «Lo stadio di Wimbledon»

Lo stadio di Wimbledon rientra a pieno titolo in questo perimetro e tuttavia si colloca sulla scia cui si riferisce Raniero Speelman quando parla della vitalità della letteratura italoebraica e del contesto triestino in particolare, che tale fenomeno ha reso possibile.
Fra le altre cose, lo studioso ritiene che «Di grande rilievo sarà l'annessione della città irredenta di Trieste al Regno d'Italia, città dove gli ebrei erano una minoranza attiva in tutti i campi dell'economia e della cultura. Ebrei erano, tra tanti altri, Italo Svevo [...] [e] Bobi Bazlen».21
Ebbene, proprio Trieste e Bobi Bazlen sono rispettivamente il luogo e il personaggio protagonista della vicenda dell'opera d'esordio di Del Giudice. Appare chiaro che la scelta non possa considerarsi casuale. Per Speelman potrebbe rispondere a quell'orientamento recente secondo cui «Solo negli anni Novanta appaiono libri che si svolgono in ambiente ebraico, come In altro mare (1991) di Claudio Magris e i due romanzi La variante di Luneburg (1993) e Canone inverso (1996) di Paolo Maurensig. Non è casuale che entrambi gli scrittori provengano dalla regione Friuli Venezia Giulia - commenta il critico - […]. Comunque sia, dagli anni Novanta in poi la tematica ebraica è diventata anche interessante per gli scrittori non ebrei».22
Considerata la cronologia delle opere citate non stupisce che egli non menzioni proprio Bobi Bazlen come protagonista dell'opera di Del Giudice, da lui segnalato dentro la cultura triestina citata. In realtà Bazlen fu uomo di straordinaria valenza culturale e amico di Svevo, Saba e Montale. Nello Stadio è insieme finzione letteraria e figura storica nel doppio statuto di personaggio a un tempo reale e immaginario, entità storicamente certa, ma nella dimensione diegetica che consente a Del Giudice di rinvigorire una tradizione letteraria.
Per questo motivo si concorda con il punto di vista di Valeria G.A. Tavazzi quando, riferendosi al protagonista de Lo Stadio, asserisce: «Con questo non si vuole naturalmente sostenere la mancata aderenza del Bazlen di Del Giudice a un'ipotetica fedeltà storica o documentaria che non avrebbe senso pretendere da un'opera d'invenzione». 23
Tuttavia il "non avrebbe senso" avvalora parzialmente la scelta della riedizione del genere romanzo storico che alcuni anni prima de Lo stadio, nel 1976, aveva visto protagonista, tra gli altri, Vincenzo Consolo con Il sorriso dell'ignoto marinaio.
L'identità ebraica di Bazlen, seppure con i dovuti distinguo, è ugualmente ribadita da Dario Calimani, e collocata nel medesimo contesto triestino di Umberto Saba.
Secondo lo studioso è quello:


«l'ambiente, per la gran parte borghese, degli ebrei illuminati, che nell'Italia fra Otto e Novecento cercarono l'emancipazione dal ghetto attraverso soluzioni di più o meno marcata assimilazione, dal matrimonio misto alla conversione».24


«Giorgio Voghera - aggiunge Calimani - dà un rapido quanto efficace abbozzo di questa diffusa crisi di identità nel mondo culturale triestino dell'epoca» Fra le altre cose il critico rivela che «Bobi Bazlen, figlio di madre ebrea, viene battezzato alla nascita, i fratelli Stuparich sono figli di madre ebrea, ma educata lei stessa nella religione cristiana».25
Un profilo culturale condiviso e la triestinità accomunano dunque i personaggi dell'opera in cui Trieste è lo sfondo irrequieto di un percorso ondivago, fuori da ogni linea retta, viceversa irregolare secondo il paradigma del tragitto interiore, intessuto di certezze e incertezze, dentro una quest che lo designa romanzo di formazione.
Per Tavazzi:


«Indicativa di una posizione ben precisa, nient'affatto neutrale ai fini della ricerca, è la meta stessa delle peregrinazioni del protagonista. La centralità attribuita a Trieste, oltre a essere il probabile frutto di una suggestione letteraria legata a Saba e a Svevo, ha il merito infatti di affrontare il mito proprio nel luogo che lo ha in gran parte alimentato».26


Il personaggio di Bazlen, seppure nella tradizione di luoghi e tempi storici, per dirla ancora con Tavazzi «non viene nemmeno rappresentato in modo diretto, ma […] fa girare in absentia l'intero meccanismo narrativo».27 Nel romanzo di Del Giudice, «in una serie di viaggi successivi a Trieste, alcune figure che non vengono chiamate con i loro nomi, ma che sono facilmente riconoscibili come Anita Pittoni, Giorgio Voghera, Livio Corsi, Franca Malabotta e, unica nominata direttamente, Gerti Frankl Tolazzi, sono intervistate sul silenzio di Bazlen».28 Da Bazlen, infatti, per il profondo sapere tutti si aspettavano un capolavoro, ma egli, nonostante il tentativo di scrivere un romanzo, non riuscì a esprimersi per quella via.29
In realtà solo Ljuba Blumenthal darà l'apporto decisivo su quella straordinaria figura.
Ed è proprio l'assenza del personaggio nella sua fisicità, il suo ricomporsi per accumulo di giudizi e valutazioni a rendere tortuoso il percorso dell'io narrante, e definirne la lentezza quasi nei modi una delle Lezioni americane di Calvino.30
Elogio della lentezza potrebbe infatti sottotitolarsi il romanzo, conforme al pensiero dell'autore che, quando può, dichiara il suo amore per questa modalità dell'essere in movimento in un consapevole straniamento.31
Pertanto i disiecta membra di cui parla la Tavazzi riferendosi all'opera interrotta di Bazlen risultano essere sia oggetti sia la modalità procedurale della ricognizione del personaggio, la modalità espressiva del romanzo. Un percorso che, partendo dall'analisi, i giudizi individuali, raggiunge la sintesi nella soluzione di Ljuba.32 Il frazionamento metonimico del personaggio per bocca delle varie testimonianze trova la sua reductio ad unum nell'atto finale.

 

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III. «Mania»

Tutt'altro discorso meritano, viceversa, i racconti di Mania.
Se si dovesse far rientrare nella vasta categoria del giallo il racconto L'orecchio assoluto con cui si apre la raccolta, non si saprebbe in quale cornice inscriverlo. Le distinzioni operate da Giuliana Pieri sono infatti inadeguate a connotare il breve spazio narrativo che mantiene tutte le caratteristiche del giallo senza obbedire ai suoi presupposti. 33
Molto presto l'io narrante ammette che:


«Per uccidere occorrono una vittima e un'arma, e io non possedevo nessuna della due. […] Avrei fatto meglio a procurarmi subito l'arma, più facile da trovare, ma è la vittima che porta con sé anche il modo in cui sarà uccisa, e così il luogo del delitto, non il posto dove il delitto avviene ma il posto che quel delitto contiene già, in attesa che qualcuno venga a celebrarlo. Al momento possedevo solo questo, ecco cosa possedevo: un movente puro, venuto da una musica, senza bisogno d'incattivirsi con altri sentimenti, un movente che muoveva, forte di sé, come quei venti che spingono alla schiena».34


Tutto comincia in un treno, luogo «ideale per inventarsi una falsa identità, una vita diversa, una breve recita per sé e per gli altri nel piccolo teatro dello scompartimento, tanto fuori del treno non ci s'incontrerà mai più».35
La voce narrante incontra uno studioso della polvere, personaggio con il quale, ugualmente, il racconto si chiude. Con questa invenzione circolare viene garantita la plausibilità narrativa e assicurata la suspence fin lì differita.
Un uomo alla ricerca di un delitto, senz'arma, senza vittima e senza il luogo in cui compierlo: la storia non si avvale, si potrebbe dire. Corre lungo il binario della casualità e mina alla base l'ordo del racconto giallo che non privilegia il who has done it? Il chi è stato? secondo i canoni del racconto poliziesco giallo,36 non la soluzione del mistero, piuttosto punta sullo sconcerto dell'assassino in due momenti della vicenda. La prima quando incontra la vittima che lo sorprende per l'accoglienza cordiale - una vittima, che mostra di averne previsto la presenza - sebbene il narratario non ne sappia esattamente la ragione; la seconda nel viaggio di ritorno quando teme d'essere scoperto, e via via fino al momento finale o, meglio, al finale a sorpresa.
In realtà Del Giudice dissacra perfino la certezza dell'assassinio giocando sull'ambiguità di un'affermazione, interpretata come domanda.
Quando lo studioso della polvere, nuovamente compagno di viaggio dell'assassino, legge ad alta voce che il ragazzo è morto a causa di un pesciolino velenoso - «L'ha ucciso un pesciolino velenoso», riferisce infatti - lo sdegno dell'assassino è tale da indurlo ad esclamare, contrariamente alla logica del riserbo - fin lì una sua costante - un inviperito «Ma quale pesciolino velenoso!».
La risposta dell'interlocutore va in una direzione totalmente contraria «Non lo so», equivoca infatti lo studioso, travisando il tono indignato, «sul giornale non c'è scritto».
La beffa conclusiva demistifica perfino il tratto più coinvolgente della storia e la riporta sulla linea surreale della precedente narrazione.
Del Giudice svela un uso sapiente degli strumenti che concorrono alla costruzione del racconto giallo seppure nell'ambito di un'ironica letterarietà, secondo i precetti del postmoderno, utilizzando come modello l'amato Calvino, riecheggiato nel titolo. Pare evidente che L'orecchio assoluto si riallacci a Un re in ascolto di Sotto il sole giaguaro37 e se con questo racconto Del Giudice apre la raccolta, con Un re in ascolto Calvino la chiudeva. Esaltando l'udito in particolare Del Giudice si pone in alternativa alla prassi finora privilegiata di celebrare la visione con la quale, in ogni caso, chiude la raccolta nel racconto Come cometa.
Per Birgitte Grundvig:


«La visione è un tema fortemente presente nei romanzi e nei racconti di Del Giudice: in genere i suoi protagonisti percepiscono il mondo quasi esclusivamente attraverso gli occhi. Ne Lo Stadio di Wimbledon, il protagonista osserva il mondo mediante strumenti ottici, e la sua ambizione è di catturare un momento di simultaneità tra il mondo e la rappresentazione di esso attraverso la macchina fotografica. In Atlante occidentale, ambedue i protagonisti, uno scienziato e uno scrittore, sono assorbiti dai loro progetti visivi. Il giovane di Nel museo di Reims sta diventando cieco e per il pilota di Staccando l'ombra da terra la vista diventa una questione di vita o di morte».38


A parte questo, costeggiando il nonsense, un uomo senza identità e senza storia costruisce un delitto fuori dalle regole ma non lo realizza. Il caso decide altrimenti. Pur nella pienezza di un ironico divertissement, il giallo mantiene le sue attrattive. Lo sfondo è quello giusto per la rappresentazione di un delitto; Edimburgo è infatti evocata nella sua storia, vive attraverso la nebbia e le strade, nella casa e negli oggetti, nell'albergo e nella stazione, nella velocità dell'azione, nonostante la remota gestazione italiana del delitto.
Il rovesciamento del noir è così compiuto: anche per l'assenza dell'iperrealismo linguistico che tanta parte sembra avere nella definizione del genere di ultima generazione. Il racconto di Del Giudice si costruisce per l'accumulo di ciò che non è piuttosto che per l'addizione di ciò che è.
In Com'è adesso, un altro racconto di Mania, s'intravede, sotterraneo, lo steso bandolo che da L'orecchio assoluto si dipana fino a Evil Live. Anche qui emerge l'opposizione Assoluto/Relativo.
Nell'Orecchio assoluto il significato iperdeterminante è esplicito fin dal titolo e di fatto si chiarisce bene nella parte conclusiva del racconto. Se il movente dell'uccisione del ragazzo è un filo di musica di sua creazione, se egli dispone di un orecchio assoluto, chi può raccogliere il messaggio, chi può giungere a lui senz'altra indicazione se non colui che possiede un orecchio relativo?
«Se si trattasse di un delitto, chi potrebbe uccidere un ragazzo con l'orecchio assoluto, se non qualcuno che ha, diciamo, un orecchio relativo?»39 opina, ambiguamente, lo studioso della polvere.
La dichiarata relatività e il suo rovesciamento si confermano costanti narrative di Com'è adesso che rimanda alla possibile riesumazione di un corpo e alla sua spettacolarizzazione con l'annessa deminutio della morte e il capovolgimento parodico e grottesco dell'inviolabilità del corpo post mortem. Di fatto l'ironia schernisce l'inviolabile sacralità di quel momento ineluttabile attraverso la brutale relativizzazione della soluzione estetizzante e spettacolare.
In aggiunta, il narratore dissacra beffardamente anche i riferimenti più dotti al patrimonio latino. La citazione di Catullo, Virgilio, Ovidio, Lucrezio a ratifica di un mondo che ha perso ogni legame col mos maiorum ha, infatti, il sapore della beffa. Il gioco continua, il reale si mostra ambiguo sebbene la verità non sia automaticamente reversibile in menzogna.
La resistenza modernista dentro l'atto postmoderno - i contenuti, la lingua colta - è nella presa di distanza critica. Nessun fraintendimento è infatti possibile se la consapevolezza della relatività, culturale ed etica, si chiarisce attraverso le parole del mercante d'idee:


«mi dica, oggi chi ha il coraggio di guardare in faccia la morte? Oggi non si muore, si crepa. E non solo da oggi ma in tutto questo secolo. Non legge i filosofi? Abbiamo perso non solo il significato della morte, ma anche l'intimità con la morte, che una volta c'era. Il pesce come lei sa puzza dalla testa, se va a male il senso della morte va a male anche il senso della vita». 40


L'archisema Assoluto vs Relativo si precisa meglio nell'opposizione binaria morte/vita, la morte essendo l'assoluto, la vita il relativo, e in Evil Live, «Male Vivi», nella traduzione di un anonimo utente della rete, meglio si definisce in conflitto fra Bene e Male.
La singolarità sta nel fatto che alla fine la realtà virtuale si travasa nella realtà quotidiana. Il rovesciamento sistematico che Del Giudice opera nel suo gioco letterario trova qui un'ulteriore modalità descrittiva. Al fondo l'eterna presenza dell'antitesi, significata nei nomi biblici delle due lottatrici Eva e Ruth, e di Giacobbe il cui significato, coerente con la narrazione, è appunto 'lottò col Signore'.
Insieme, il rinvenimento di un'etica che esclude il nichilismo e che Pierpaolo Antonello vede anche nell'elaborazione di una poetica degli oggetti, indagati da Del Giudice secondo una prospettiva insieme etica ed epistemologica.41
Il plafond narrativo di Evil Live è la comunicazione fittizia, garantita dal filtro del Web, fra interlocutori sconosciuti nella loro identità, ma che via via si compone dentro la trama narrativa di una novella in itinere, anch'essa realtà in divenire cui neanche la fine del racconto garantisce la conclusione. Dal Web si trapassa alla vita reale e il male, solo evocato, si traduce nell'agire.
Con Fuga il narratore cambia ancora statuto e da narratore extradiegetico di Evil Live si tramuta in narratore intradiegetico nel ruolo di testimone dei fatti che coinvolgono il protagonista Santino, evocato in modo insistente attraverso il 'tu' e il cui presente si mescola al passato di una storia vera, giocata dentro una reale soluzione architettonica. Il gioco stavolta è dichiarato fin dal titolo. Sul filo dell'omografia, Fuga riassume la duplice valenza di nome comune e nome proprio correlati per l'intera vicenda che racconta la fuga del giovane napoletano. Il métissage fra racconto attuale e riferimenti storici pone la storia nell'alveo della mistione dei generi.
Su un altro piano c'è chi, sempre a proposito di Fuga, parla di:


«parallelo fra Storia Moderna-Storia Antica (per) una (magari misterica: orfica, pitagorica?) continuità-contiguità fra le dimensioni esistenziali eterne. S'intenda: la vicenda del protagonista novecentesco di Fuga confluisce nel senso antico dell'eterno ritorno, della rinascita o del permanere».42

 

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IV. Conclusione

Realtà e mondo virtuale, relatività e assolutezza, vita e morte: l'opera di Del Giudice è non solo ma anche questo. La scelta iniziale di Bobi Bazlen, tra realtà e finzione, di colui che torna in vita per la parola evocatrice secondo un processo maieutico43 è indicativa di un rivolo importante della sua narrativa. Il personaggio in absentia che muove la diegesi narrativa è anch'esso virtuale, ma Trieste, Edimburgo, Napoli, Reims sono áncore di un mondo grondante storia, passato.
Se per Staccando l'ombra da terra, Anna Frabetti considera che:


«La scrittura stessa è informata da una tensione metamorfica, dell'uomo nelle cose (prime fra tutte l'aereo), delle cose nel nominalismo definitorio del linguaggio che le oggettiva: "il più irreale dei linguaggi, il massimo di densità nel minimo di parole, ma anche il massimo di immaginazione, poiché ogni parola disegnava istantaneamente una geografia di traiettorie, di posizioni, di intenzioni, di provenienze e destinazioni" (p. 83); ed è soprattutto questa consistenza verbale, che filtra e seziona la complessità eterogenea di ciò che descrive, raggiungendo talvolta una essenzialità lirica, montaliana, a restituire, nitido e tangibile, il tracciato del testo».44


È possibile ipotizzare che ci si trovi dentro un «postmodernismo colto e letterario»45 ma non per questo si è dentro «[alla] nuova cultura affermatasi nel quindicennio 1975/90.[…] [che] ispirandosi a filosofie ontologiche e nichiliste che rifiutano il principio di contraddizione, […] ha condannato l'impegno etico-politico come chiacchiera inutile, rifiutato il rigore argomentativo, propagandato il pensiero debole e il nichilismo morbido».46


La rappresentazione della realtà dei computer e della tecnica in genere, che nella narrativa di Del Giudice ha un peso rilevante, non è aliena da una procedura d'indagine dell'esistente. Il male e il bene sono riconoscibili, seppure nel disvelamento linguistico, così come i valori di cui il mondo attuale è povero.
Pertanto, come afferma Birgitte Gruntvig, seppure dentro la riflessione del topos del viaggio indagato in componimenti come Atlante occidentale, Nel museo di Reims, Staccando l'ombra da terra e passando per Lo Stadio di Wimbledon:


«Del Giudice molto coscientemente indaga le potenzialità e i limiti della rappresentazione letteraria. Mi sembra molto attento a entrare in rapporto con "la realtà", solamente fuori dai parametri tradizionali sia della letteratura d'avanguardia con la sua poetica antimimetica di alienazione, sia da quelli della letteratura d'impegno con la sua poetica realista. In questa maniera Del Giudice muove una critica alla nozione, strettamente attinente alla letteratura moderna e postmoderna, dell'impossibile rappresentazione letteraria, e propone come alternativa la nozione di una letteratura affermativa, capace di interagire con la realtà».47


Lo stesso giudizio che è possibile formulare per Mania i cui termini si radicalizzano nel cerchio di una visione talora tragicamente esistenziale e nelle pieghe di una lingua che nomina il reale nella sua virtualizzazione, in una «realtà spesso sostituita da immagini ottiche, digitali, sintetiche e da rappresentazioni e reticoli astratti».48

 

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Giugno-dicembre 2010, n. 1-2