Antonio R. Daniele
Un episodio di critica manzoniana: I promessi sposi tra Alberto Moravia e Giovanni Testori

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
Moravia e I Promessi Sposi
Testori: una fuga nel Seicento
La preponderanza della religione in Manzoni
L'incontro tra Moravia e Testori


 

§ II. Testori: una fuga nel Seicento

I. Moravia e I Promessi Sposi

L'imbarazzo che Alberto Moravia avvertiva al cospetto del maggiore romanzo dell'Ottocento italiano pare, ad un occhio più attento, una "ferita". Quasi che il "bisturi" che Gadda aveva visto armato nelle mani del suo collega romano contro le pagine manzoniane1 avesse inciso ancor prima nella carne stessa di Moravia.
Volendo adoperare un criterio asettico e lucidamente razionale, non è difficile trovarsi d'accordo con Moravia. L'accusa della "propaganda cattolica" che egli eleva nel noto saggio su Manzoni inserito nell'Uomo come fine2 (e che fu anche la prefazione all'edizione del romanzo nella collana dei "Millenni" Einaudi), ci appare grave - avrebbe detto lo scrittore romano - perché noi, lettori "scolarizzati", fatichiamo a vedere nel romanzo altro che il disegno provvidenziale sul destino dell'uomo. Moravia rilevò la pesante ipoteca del cristianesimo sui Promessi Sposi e non v'è dubbio che esso ne sia la parte preminente. Lo stesso Gadda, pur coll'ironico registro del collega antagonista, non seppe fare a meno di riconoscere che il "bisturi" moraviano aveva affondato il colpo su alcuni nervi scoperti del grande milanese. Allo stesso modo, come non rilevare che il codice dell'analisi moraviana è bene impastato di motivi vagamente gramsciani:

«Qualcuno si domanderà perché mai il Manzoni non fu lo scrittore che avrebbe potuto essere soltanto che avesse accettato se stesso e il proprio tempo come erano realmente e non come, secondo la Chiesa, avrebbero dovuto essere. [...] Uno scrittore, insomma, al quale la formulazione del realismo cattolico ossia dell'arte di propaganda non apparisse come una necessità e un dovere e che si limitasse a rappresentare la realtà dei propri tempi com'era e non come avrebbe voluto che fosse. Ma chi si pone questa domanda dimentica che il realismo cattolico di Manzoni, come del resto, oggi, il realismo socialista dei sovietici nacque e si affermò in contrapposizione ad altri modi di sensibilità e di rappresentazione altrettanto se non più convincenti».3

Ma si cadrebbe in errore se volessimo fare di queste parole un manifesto socio-politico. Moravia ha ben presenti gli elementi dell'arte manzoniana. Sia pure con categorie talora insolite, egli fa della critica letteraria: abilmente procede dall'esame del metodo narrativo per giungere a questioni che chiamano in causa l'uomo-Manzoni.
Gadda si mostrò perplesso allorquando Moravia argomentò il decadentismo dei Promessi Sposi, il terzo dei tre "strati" nei quali gli sembrava di vedere spartito il romanzo, dopo un primo, abbondante nella propaganda cattolica,4 e un secondo «della sensibilità politica e sociale»; e gli parve di dover subito correggere "decadente" con "naturalista" o "drammatico", ma senza indovinare il senso intimo della definizione moraviana la quale, come ci viene spiegato da Moravia stesso, assume «il valore di un atteggiamento psicologico, morale e sociale, prima ancora che letterario».5 Nel saggio in questione lo scrittore romano fa coincidere "decadente" con "autentico" e quest’ultimo con "poetico":6 le parti di poesia autentica sono, insomma, quelle dei «sentimenti genuini», di don Abbondio, Renzo, Lucia, Gertrude, «religiosi e non religiosi». Il resto dei personaggi contribuisce a quel che egli chiama cattolicesimo "divulgativo". Per farla breve: Moravia sostiene che Manzoni abbia diviso i suoi personaggi in "birboni" e "santi", e che vi sia uno strato intermedio offerto ai corrotti, Don Abbondio e Gertrude in specie, e che su questi ultimi sia fiorita l'arte più sublime dello scrittore milanese perché essi non soffrono dell'ipoteca religiosa nella dinamica del "malvagio" e del "convertito". Non sono malvagi come Don Rodrigo, di cui «non sapremo mai come e perché si incapricci di Lucia», ma solo corrotti, cioè deboli; non sono "santi" come Cristoforo dopo la conversione o come Borromeo, ma più sinceramente "problematici". Così scrive Moravia della Gertrude manzoniana:

«La storia della Monaca di Monza fu sempre giustamente lodata come una delle parti più belle de I Promessi Sposi; aggiungiamo che, non a caso, è la storia di una lunga e tortuosa corruzione, ossia della trasformazione di un personaggio innocente in malvagio, seguita passo passo, con una mirabile capacità realistica e inventiva che si cercherebbe invano nelle descrizioni delle conversioni ossia delle trasformazioni dei personaggi malvagi in buoni. Dell'infanzia dell'Innominato, tanto per fare un solo esempio, non sappiamo niente; Gertrude invece ci viene presentata quando, addirittura, sta "ancora nascosta nel ventre di sua madre". La progressiva metamorfosi dell'innocente bambina prima in disperata bugiarda, poi in monaca fedifraga, quindi in adultera e infine in criminale, è quanto di più forte sia stato scritto sull'argomento della corruzione».7

Le pagine di Vita di Moravia ci aiutano a comprendere il vero giudizio espresso su questa Gertrude o su don Abbondio, «una specie di malato, degno più di compassione che di odio»: il "decadentismo" manzoniano. Commentando Inverno di malato, uno dei suoi primi racconti ambientati in sanatorio, Moravia si richiamava alla Montagna incantata di Mann, affermando che il collega tedesco «aveva fatto una specie di metafora: il sanatorio doveva essere l'Europa borghese malata di decadentismo»;8 e ancora prima, rammentando il suo soggiorno nel sanatorio Codivilla che aveva ispirato il brano, raccontò di un paziente col quale aveva stretto amicizia: «era un po' austriaco nei modi e nella visione del mondo, cioè decadente e leggero». Con uno slittamento semantico che non appartiene del tutto alle categorie delle lettere e che esorbita un poco anche da altre aree, Moravia conia per il terzo livello del romanzo il decadentismo dell'impotenza, dell'inettitudine, della soggezione.9 E ne fa la parte più riuscita del romanzo perché la propaganda cattolica pare cedere il passo alla narrazione dettagliata dell'umano e della sua straordinaria debolezza (non a caso l'ambito del decadentismo moraviano è quello dell'infermità fisica); ma non basta, nel giudizio di Moravia, a fare di Manzoni un grande romanziere: «probabilmente vorrai sapere - domandò ad Alain Elkann - perché considero Manzoni un grande scrittore ma non un grande romanziere. Ecco, c'è una differenza tra romanziere e scrittore, e infatti si nasce romanzieri e si diventa scrittori. Cioè si nasce favolista, con la vocazione di raccontare e poi, a forza di talento e di senso innato dell'arte, si diventa scrittori».10 Vale a dire: il romanziere è colui che dà testimonianza della realtà, lo scrittore colui che conosce l'arte della scrittura. Ebbene, nelle parti "decadenti" Manzoni si rivela per un attimo romanziere poiché ci illustra la spontaneità delle cose, e dunque il male che corrompe il bene ed il bene che aspira a vincere il male, senza - direbbe Moravia - la "didattica" della religione11 che informa il resto del romanzo dove Manzoni "fa" lo scrittore.12 Vi era un che di morboso nella dipintura di don Abbondio o Gertrude, che non è per forza "deviato" o anormale,13 ma vera malattia. Manzoni - si potrebbe dire - era malato del "tragico umano", della naturale corruzione del cuore dell'uomo: ciò faceva la sua penna più ispirata in quei personaggi più dibattuti e tormentati. Eppure manca qualcosa.

 

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II. Testori: una fuga nel Seicento

Nel novembre del 1984 al Centro Culturale di Milano - all'epoca ancora Centro Culturale "San Carlo" - furono invitati a discorrere di Manzoni e dei Promessi Sposi Giovanni Testori e lo stesso Alberto Moravia. Testori, proprio nei mesi dell'edizione einaudiana prefatta da Moravia, attendeva alla composizione della Monaca di Monza,14 un testo teatrale che vedrà la scena - dopo robusti ritocchi non di mano dell'autore - solo nel novembre del 1967. Anche nel caso dell'artista di Novate Milanese la storia di Gertrude è, tra le tante figure del romanzo, quella che merita le luci e il proscenio. E quel che fu rimproverato a Moravia, di avere, cioè, inopportunamente individuato in alcuni momenti della narrazione manzoniana la volontà di indugiare ossessivamente su aspetti materiali e quasi carnali della vicenda, si ritrova in forme massicce nella piéce testoriana. La Monaca di Monza di Testori è un'opera "visiva" e, in qualche momento, "auditiva", con la quale egli ha voluto, come bene ha detto Gianni Turchetta, «raggiungere la verità, pulsante e nascosta, dell'uomo e del cosmo», mediante l'identificazione dello «spasma dello spirito con lo spasma della materia».15 Una ricerca della verità di sé così tragica, convulsa e lancinante trova - è evidente - in Marianna de Leyva lo spunto manzoniano più naturale. Abbondano proprio quelle immagini e quelle tonalità di scrittura che Moravia avrebbe chiamato "decadenti", per quell'irriducibile bisogno di esplicito contatto che, tipico di Testori, rivela che la lettura di Moravia, pur con le necessarie limature di ordine socio-etico, non era del tutto peregrina e andrebbe oggi sgravata, almeno in parte, della zavorra del "realismo cattolico"16 allora assimilato, quasi per necessità storica, a quel realismo socialista che oggi un nuovo Moravia assimilerebbe alla "globalizzazione".17 Egli vi aveva felicemente intravisto quel «seguito serrato e incalzante di immagini, di cose, di oggetti, di situazioni, di personaggi», che, come per "metatesi artistica", troviamo infuse nelle pagine testoriane: «amore cieco e lucente come quello delle bestie»; «bestie addolorate, cani lagrimanti»; «i vermi, solo i vermi mi faran diventare qualcosa di simile»; «è il bandolo della matassa sconcia e verminosa»; «tu te ne vai e io non ti vedrò più, se non così, povero lacerto, straccio sfinito»; «mamma, madre, sacro verme che ho bestemmiato e odiato, pur amandoti con tutto il sangue», e via di questo passo.
Ma Giovanni Testori fu cristiano, fu cattolico. E lo fu in forme agitate e terribili. Quelli, inoltre, furono anni decisivi per il suo teatro e segnarono la vita stessa dell'artista: la conoscenza e il forte legame con Alain Toubas18 e prima ancora lo scandalo dell'Arialda, il dramma avversato dalla censura per i richiami omosessuali. In quel caso intervenne, tra gli altri, Pasolini che ne pronunciò una difesa accoratissima e sorprendente e teorizzò il "disperato cattolicesimo" dei lombardi che trova conferme nella dichiarata volontà del drammaturgo di abbandonare, fuggendone, la sua età. Nello stesso 1963 Testori rilascia un'intervista ad Alberto Arbasino che lo scrittore vogherese intitolò Tento di salvarmi scappando nel Seicento.19 Il Seicento di Testori è, con ogni evidenza, quello dei pittori lombardi, coloro che egli chiamò "pestanti", i pittori della peste. Egli intende salvarsi facendosi accogliere da quell'epoca nella cui pittura «vi è uno spasimo, un senso della morte, della tensione massima, lo scavalcamento dell'uomo, della struttura, per arrivare a dire quello che non si può dire».20 La Monaca di Monza è, a questo punto, un invitante scenario nel quale esercitare la propria passione figurativa con la penna dello scrittore di teatro e un ulteriore pretesto per scappare, come notò Tommaso Tirelli, in quel mondo delle immagini seicentesche dove per la prima volta il segno pittorico si caratterizzava con tematiche «vissute alla luce della religione, della dialettica fra teologia e sensi, fra spirito e materia». Questa nota ci offre il modo di tornare su un ulteriore punto del saggio moraviano, oggetto di tanti e arcigni rilievi. A Moravia parve degno di riflessione che Manzoni avesse ambientato la vicenda dei due promessi non al suo tempo ma due secoli addietro:

«Manzoni voleva scrivere questo romanzo, nel quale cattolicesimo e realtà si identificassero, e le forze avverse al cattolicesimo non potessero aspirare ad una positività storica ed estetica [...]. Bisognava perciò rinunziare al proprio tempo e indietreggiare nel passato, fino ad un'epoca storica più propizia. Quale? Con sicuro istinto, il Manzoni non cercò quest'epoca nel Medioevo a cui pure si era ispirato per l'Adelchi, come troppo remoto e diverso dall'età moderna; e scelse il diciassettesimo secolo, durante il quale il cattolicesimo aveva raggiunto per l'ultima volta, con la Controriforma, una sembianza di universalità».21

Testori parve scappare nel Seicento come Manzoni; e doveva essere una urgenza connessa al "lombardismo" dei due. Moravia sostiene che Manzoni scelse il Seicento anche perché avrebbe potuto dedicarsi alla descrizione della peste e ne avrebbe potuto usare come la maggiore delle corruzioni,22 «un fenomeno anzitutto morale, un po' come le sette piaghe d'Egitto nell'Antico Testamento... una corruzione metafisica e universale che non risparmia niente e nessuno» e che avrebbe spiegato il dramma della realtà a quell'Ottocento che, preso dalle pulsioni liberali, lo sottaceva. Testori, da parte sua, tentava di salvarsi nel tempo di Caravaggio perché l'Italia dell'incremento economico prospettava solo un fantasma di felicità dal quale invece i "pestanti" della sua terra non avrebbero potuto restare soggiogati, tenuti fermi alla brutale realtà delle piaghe e dei bubboni:

«Ammesso e non concesso che questo benessere esista veramente, potrebbe soddisfarmi, non sentissi sopra il tuono, il temporale che arriva: insomma il "marcio in Danimarca", come dice l'Amleto. Sono gli ultimi fuochi d'artificio, gli ultimi lampi, queste finte luci della fiducia nella scienza, nel dominio e nell'obiettività assoluta della ragione. Incombono, sulla vita e sull'uomo, le ombre dell'irrazionale».23

 

§ IV. L'incontro tra Moravia e Testori Torna al sommario dell'articolo

III. La preponderanza della religione in Manzoni

Continua, tuttavia, a sfuggire qualcosa: Moravia e Testori si trovano spesso al bivio manzoniano e in maniera che si potrebbe giudicare sorprendente: il drammaturgo di formazione cattolica e il romanziere laico trovano nel terreno dei Promessi Sposi un elemento inquietante, ove a quest'aggettivo si vuole dare sì il significato contrario di placido e pacificante, ma se ne vuole anche sottolineare la "promessa di ricerca" a partire da quel vuoto della borghesia che il primo combatteva dalla periferia milanese del suo teatro e l'altro essendone parte e quasi volendo rimanervi, per scoprire ogni volta quel suo inafferrabile vacuo. E non si dimentichi lo strato di matrice ebraica nel quale Moravia era cresciuto e che la sua esattezza verbale, lucida e implacabile, ci restituisce in pieno. Ha scritto mirabilmente Luca Doninelli:

«Moravia era ebreo, e da qui [...] mi pare venga il suo atteggiamento di fronte alla parola. Come dice Chaim Potok, Dio sta agli ebrei come Garibaldi sta all'Italia. E in ogni grande scrittore ebreo esiste - per formazione, per storia - una dimensione biblica, per cui raccontare significa ripercorrere le tracce, i segni, la disseminazione d'impronte su cui è impresso il cammino della Creazione, o quello contrario della dannazione (che però a sua volta viaggia sul sentiero della Creazione, perché come scrive Singer "le bugie prosperano sempre sulla verità"). Narrare vuol dire guardare il mondo nell'istante in cui Dio lo fa emergere dal nulla, o in quello che distrugge tale emergenza, rintracciandola nel nulla».24

Per questa ragione Moravia avverte quasi un trasporto al cospetto del Manzoni più nettamente narratore, descrittore, creatore di immagini che procedono da una realtà vista, quasi documentata e schiettamente torturata; allo stesso modo Testori non poteva che scrivere il suo teatro "verminoso" su Gertrude, dove più che altrove la feroce pressione della vita agisce.
Cosa ha impedito, dunque, a Moravia di cingere in una stretta definitiva questa passione per le vicende dell'uomo? Quando uscì l'antologia manzoniana di Giancarlo Vigorelli,25 Giovanni Testori, recensore del «Corriere della Sera», la presentò con un misto di gratitudine e apprensione e lo fece proprio a partire dal Dio che - come si è letto - il vero romanziere replica per le sue storie, ma che nel caso di Manzoni è insieme ispiratore dei casi narrati e incessante approdo. Così Vigorelli volle:

«Prendere tra le mani i Promessi Sposi, metterseli sulla coscienza e sul cuore [...]; e, quindi, trascinarli, espellerli, ritrascinarli nel gorgo d'una discussione (che è anche un inseguimento senza fine) su cosa sia o non sia "far romanzo"; arrivando a rintracciarne il prototipo e, insieme, lo scandalo; lo scandalo, intendo, di quel "mettersi in concorrenza con Dio" in che consiste, appunto, far romanzo; cosa questa che per un uomo come Vigorelli, il quale confessa e giustamente che "Manzoni ha sempre Dio tra i piedi", non può risultar altro che una lacerazione erompentemente religiosa dentro l'enorme e affannoso muoversi della Storia».26

È «l'importanza preponderante, eccessiva, massiccia, quasi ossessiva» della religione già rilevata da Moravia. Un dato inesorabile, irriducibile, in ultimo oscuro. Testori ne approfitta per sgomberare il campo dalle diffidenze antimanzoniane che egli vede covare nella critica laica come in certe frange del cattolicesimo bigotto:27

«Il greve accomodamento del fariseismo cattolico e la presunta fretta dell'isteria laica, in quest'occasione assai più vicini di quanto non lascerebbe intendere l'opposizione dei principii, sono riusciti così a bloccare il Manzoni in un'immagine, non solo diminuita, ma falsificata. Il loro tipo di lettura è stato, insomma, dai tribunali della fede ovvero da quelli dell'obbiettività laica, una non-lettura; uno svicolamento, una fuga. Il velo è rimasto sul gran libro; il suo corpo non è stato toccato [...]».

Moravia aveva colpito nel segno: Manzoni ha voluto scrivere un romanzo nel quale - come lo stesso Testori più avanti nota - «far coincidere la realtà con la Verità». Ma è proprio questo lo scandalo, l'insopportabile peso che il lettore, il critico e l'uomo insieme faticano a tenere. Moravia, pur nella sua acuta e impeccabile disamina, accusa questa "ferita", questa gravosa inquietudine. Egli corre spedito per la strada della consistenza di sé, ma pare congedare mano a mano quel Dio col quale pure stupendamente concorre nella scrittura dei suoi romanzi; lo tiene ai margini e si spaventa di fronte alla sua opprimente presenza nelle pagine manzoniane. Tra i saggi ospitati da Vigorelli ve ne era anche uno che Pasolini aveva scritto su «Tempo» qualche anno prima. A parte le presunte inclinazioni omoerotiche di Manzoni, sulle quali pesa indubbiamente la vicenda personale dello scrittore di Ragazzi di vita e che qui tralasceremo, si noti la volontà di ricavare nel romanzo una zona intermedia con la quale coincide il Manzoni migliore:

«una zona che non è definita né dal bene né dal male, ma è una mescolanza di bene e di male, una penombra ambigua, un'eterna sfumatura: è cioè l'«esserci» esistenziale, o, meglio ancora, la vita di ogni giorno, la quotidianità. La comicità benevola, mescolata a questo caos indefinibile e irrelato che è la vita comune, fa di Renzo una figura straordinariamente poetica».28

Mentre la vita comune è senz'altro il luogo entro cui più facilmente l'uomo può manifestare i propri connotati di fragilità poiché vi è spinto dai casi giornalieri, sembra che essa possa diventare anche l'"atollo" dell'esistenza; Pasolini sembra preso dal furioso desiderio di farne anche un'area franca nella quale Dio non entri e la libertà dell'uomo sia quasi spasso e gioco: così Renzo è il migliore dei personaggi perché ha - per così dire - saputo scrollarsi questa ombra sinistra, e Manzoni deve aver voluto che ciò accadesse perché ogni romanzo ha bisogno di periodi di tregua. Ma quel Dio «è tra i piedi», è il solco entro cui le figure del romanzo sono depositate, il letto di un fiume che ha acque ora limpide ora subito torbide. Per Testori è ineluttabile ed ostinata realtà:

«Solo accettando questa difficoltà silenziosa e tremenda, anche la Storia diventa accettabile e santificabile; e lo diventa perfino nei suoi inferni. E solo per questa via nasce nell'uomo e, più generalmente, nella sua Storia, quella pietà di sé che risulta il sigillo stesso del capolavoro manzoniano; e insieme, l'onda d'amore [...]. Una pietà che è, certo, il contrario del cinismo, ma altresì del pietismo; affiorando dal più alto e incessante sforzo che l'uomo possa compiere per capire e carpire ciò che, in effetti, risulta non capibile e non carpibile: il senso della vita; quel mistero che è Dio».29

 

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IV. L'incontro tra Moravia e Testori

Sono questi gli straordinari antefatti del confronto milanese del novembre 1984, in occasione delle celebrazioni del bicentenario manzoniano. Chi invita Moravia e Testori è senz'altro persuaso di offrire il destro ad un dibattito per nulla accomodato sulle dottrine critiche tradizionali.30 Chiunque abbia la possibilità di ascoltarne il documento audio, noterà anzitutto il disagio del moderatore al cospetto dei due: approntate delle domande, il canovaccio ben presto rompe le maglie e al timido e quasi impacciato giornalista, si sostituisce via via, e con impeto, lo stesso Testori. E questo avvicendamento fu quasi necessario perché Moravia diede sulle prime l'impressione di voler recitare punto per punto e con ordinata freddezza le parti del suo celebre saggio: Manzoni era preso dalla preoccupazione di dimostrare che la religione rivestiva un posto predominante nella Storia, ed egli concepiva la Storia quasi come un monolite, «una realtà esistenziale eterna». Queste parole, che a primo acchito facevano dell'uomo un "fatto storico", cioè con bisogni e ansie immutabili, nascondevano una sottile oscurità che Testori volle portare alla luce. Dato il giusto peso agli Inni quale momento preliminare alla prima redazione del romanzo - dove la "provvida sventura" del coro di Ermengarda31 si fa ora "ventura" narrata - Testori dà a questa Storia evocata come entità, la robusta sostanza umana del popolo:

«Il popolo, l'uomo, incarna la Storia e, incarnandola, ne riconosce un dono, anche duro e pesante, un grande bene che deve portare ad un compimento. Per cui non direi che Dio sovrasti i protagonisti, piuttosto li segue, qualche volta li insegue. Permette che avvengano i dolori, le violenze, perché il popolo, gli umili e i potenti, arrivino ad un riconoscimento, al loro significato».32

E fa di Manzoni parte di quel popolo che i motivi corali degli Inni hanno allenato alla appartenenza. A questo punto una necessaria riflessione: Testori conosce la prefazione einaudiana di Moravia ed è fresco reduce dei Promessi sposi alla prova33 con i quali, in forme definitive, accoglie il cristianesimo manzoniano dentro i suoi anni, dopo i passati e "sanguinolenti" dibattimenti, e senza disertare indietro fino ad Amleto. Come testimoniò la regista di quel dramma, egli era ormai «un Maestro con i suoi allievi, è un papà con la sua famiglia» che «ha una fiducia nei giovani e nel futuro».34 Egli avverte che Moravia, una specie di gran masso piantato e fermissimo, replicherà il suo Manzoni, quasi leggendo; sa che il grande scrittore, come "un ebreo dell'età del bronzo" (definizione che lo stesso Moravia aveva dato dei personaggi manzoniani e che rispolvererà identica per l'occasione),35 non muoverà il suo blocco di roccia; decide, allora, quasi di trasferire il Maestro di quei Promessi sposi nella sua stessa figura per stanare Moravia e ridurlo ad un confronto più vivo e scoperto. Quand'egli reclama Manzoni dentro il popolo di Dio, si oppone non solo al Manzoni moraviano, un uomo titanico, solo e come abbandonato alla sua magnifica conversione, ma, paternamente, alla drammatica solitudine di Moravia stesso, al deserto di un uomo infaticabile descrittore del male umano che, tra i Michele e i Dino dei suoi romanzi, vorrebbe finalmente bere ad una fonte purchessia. Così lo scrittore romano ripropone le due rigorose categorie dei corrotti e dei conversi, torna sulla corruzione della peste e di Gertrude; passa alle conversioni di Cristoforo e dell'Innominato:

«Nel caso dell'Innominato il "romanzesco" è un po' debole, la creazione del personaggio è pretestuosa: Don Rodrigo è un vitellone di provincia che si "incapriccia" di Lucia; Manzoni ha però voluto che il tentativo di Don Rodrigo fallisse in un posto in cui Don Rodrigo era padrone: il villaggio era nelle sue mani. Don Rodrigo va dall'Innominato: ecco, questo è una specie di deus ex machina, in altri termini, non è necessario al romanzo se non per far sì che si potesse dipingere la conversione dell'Innominato. Ma la conversione dell'Innominato è data come misteriosa, come misteriosa è quella di Manzoni, ne sappiamo pochissimo.36 La debolezza del "romanzesco" deriva da questo: si può dire qualcosa sulla corruzione, ma è molto difficile, se non impossibile, dire qualcosa sulla conversione; essa resta nel campo dell'ineffabile».

Moravia dice anche qualcosa di sé: egli ha scritto molto sulla corruzione, ha anzi fondato la sua stessa storia di scrittore sul disfacimento dell'uomo.37 I personaggi positivi dei suoi romanzi sono al massimo "morali", ma non il riverbero del bene che salva dall'indifferenza e dalla nausea, un bene che egli intuisce ma non conosce. Quando assegna alla conversione un che di ineffabile, da un lato lodiamo la discrezione dinanzi ad un fatto realmente indicibile, dall'altro ne notiamo un omesso timore: Manzoni avrebbe fatto meglio a tacere del tutto sulla conversione, che non si può narrare, e il suo romanzo ne avrebbe guadagnato artisticamente. Ma vi è che Moravia tragicamente disdegna e quasi teme la sua stessa possibilità di conversione. Ecco allora che Testori affonda i colpi rimodellando e rovesciando il pur brillante disegno moraviano:

«Moravia separa corrotti e convertiti come se il convertito non corresse mai il rischio di corrompersi e viceversa. Si legge sempre il romanzo per sentito dire e non con l'animo scoperto e nudo.38 Alla fine anche Renzo è tentato di cadere nella corruzione più terribile, di odiare il nemico; Renzo si lascia vincere dall'odio e sembra distruggere tutto di sé. È vero che Manzoni entra dentro gli abissi della peste o della Monaca di Monza come nessun altro ha fatto, ma anche per Gertrude è possibile che sventura diventi avventura. La struttura del romanzo è fatta di questo continuo rischio».

Moravia non vede quel rischio perché, anzitutto, non lo crede possibile per sé. Egli ha giudicato Renzo e Lucia le più belle figure del romanzo per la loro ostinazione, per la caparbietà della gente "di picciol affare", che è di certo una speranza di bene («Manzoni ha sentito il mistero della semplicità umana, questo è il bello di Renzo e Lucia»). Ma, come notò Testori, la loro grandezza autentica stava ancor più in quel "rischio": anche loro «devono convertirsi ogni momento», parole che Moravia accusa nella ferita della sua vita perché ad egli non riesce. A Moravia non riuscì di convertirsi ogni momento perché non si corruppe fino in fondo, perché il suo Michele Ardengo degli Indifferenti non ha sparato: quella rivoltella restò terribilmente scarica; il Marcello del Conformista ha sparato, ma non gli è riuscito di fare una vita "normale", di fare "carne" il suo desiderio"; la Desideria della vita interiore ha sparato e ucciso ma come dentro ad un sogno. L'ebraismo moraviano è l'attesa ferma, fissa dentro l'abisso; il desiderio è attivato, l'animo ne pulsa senza sosta, ma quella libertà del rischio testoriano - e già manzoniano - è immobile. Moravia e Testori sono accaniti nella realtà, e ciò permette la fioritura del desiderio, dinanzi al quale vi sono, però, due modalità di porsi: «metterlo sempre in battaglia» come una "prova" perché trovi il suo porto, o attenderlo assicurato ad uno scoglio, nel vuoto del mare aperto. Ma, in ultimo: Testori visse quella Grazia che Moravia non ha incontrato; così, quando gli fa notare che «la Provvidenza non è astratta» e che «Don Rodrigo si converte perché c'è Renzo che lo perdona», ci sembra di osservare lo scrittore romano con le sue storie dove, crudelmente, dal perdono non fiorisce mai del tutto il bene.
Infine: il grande romanzo manzoniano non ha mai goduto cittadinanza europea39 e pure in Italia, negli stessi ambienti cattolici, ha patito sguardi talora sospetti;40 su questo punto i due, lasciandosi, si incontrano: il guaio dei Promessi sposi - afferma Moravia - è che «è un romanzo cristiano e cattolico, mentre il romanzo europeo, nel suo insieme, è soprattutto borghese». Così, vogliamo chiudere con l'ultimo stupendo scambio di battute che drammaticamente lascia ancora inevase molte questioni:

Testori: «È un romanzo che viene presentato con un'opzione cattolica sulla Storia: è invece una storia nuda, disarmantemente armata solo di se stessa. Oggi che anche questa opzione ha dimostrato la sua catastrofe e la Storia torna a farsi nuda, non arriva oggi il momento, se i cattolici non continuano a leggerla come un'opera da oratorio,41 che il Manzoni possa interessare di nuovo lo smarrimento dell'uomo nella Storia?».

Moravia: «Il fatto è, terribile, che la sensibilità religiosa moderna si orienta verso una specie di patrimonio comune della religiosità: oggi il messaggio cristiano non è lontano dal messaggio buddista o dello zen giapponese; è un messaggio profondamente astorico, perché noi oggi non abbiamo più storia; l'anelito, l'afflato religioso ci sono, ma in un'accezione nuova che equipara tristemente le religioni».

 

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Giugno-dicembre 2010, n. 1-2