Simona Cigliana
Gli antidoti della ragione: classicismo, ironia e metafisica in Massimo Bontempelli

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
I critici sulla prima produzione bontempelliana
La corrispondenza con Giuseppe Checchia
Un nuovo poeta: il saggio di Checchia su Bontempelli
Grande e piccola critica


 

§ II. La corrispondenza con Giuseppe Checchia

I. I critici sulla prima produzione bontempelliana

Molto poco si sa del Massimo Bontempelli degli esordi, del poeta classicista che ripudiò se stesso per inventarsi una nuova identità, cancellando il penoso periodo del proprio apprendistato, consumato tra supplenze e peregrinazioni, per avviarsi baldanzoso verso il futuro. L'attenzione della critica - contrariamente a quanto è accaduto per molti altri scrittori del Novecento - ha preso assai sul serio il giudizio inappellabile dell'Autore, che ha colpito quasi tutta la produzione antecedente il primo dopoguerra, considerandola non degna di essere tramandata, e relegandola severamente nel dimenticatoio.
Bontempelli, del resto, ha mostrato di voler considerare quel ripudio - più volte ribadito e segnato dallo scoppio della guerra europea - come una cesura irrevocabile, come il frutto di un provvidenziale ravvedimento che gli aveva consentito di lasciarsi alle spalle una precoce vecchiaia e di ritrovare una inedita giovinezza. Ed è vero che molti dei suoi racconti dell'epoca sono come chiusi in un universo un po' asfittico e provinciale; che i suoi versi appaiono algidi nella loro perfezione formale, come se l'ispirazione non riuscisse del tutto a riscaldarli; e che il lettore moderno che ne intraprenda la lettura, complici l'arcaismo della lingua e lo schema metrico delle strofe, ne trae facilmente l'impressione che appartengano a un altro secolo e a un altro autore.
«Per universale concordia», dunque, come scriveva Ugo Piscopo nel 2001, sugli scritti giovanili di Bontempelli «è stato steso un velo di silenzio o di pietose e parche espressioni di condoglianza».2 Un riserbo "tombale" che ha poche eccezioni e che lascia nell'indistinto la preistoria dello scrittore comasco, meritevole invece di una non fugace attenzione, perché su di esso si innestano comunque - fosse pure per radicale rigetto - le sue future scelte stilistiche e le posteriori prese di posizione teoriche. Tuttavia, «nell'arte, come in natura, non si fanno salti»2 e, in questo senso, la rilettura della prima produzione bontempelliana può riservare qualche sorpresa, tanto da indurci a sfumare alcuni assiomi critici e a ripensare certi giudizi. Né questo dovrebbe stupirci, considerando che il disinteresse per il Bontempelli anteguerra ha colpito non solo il suo noviziato autoriale ma anche molti degli scritti che egli ha prodotto in sede critica. E pure per quel che riguarda la ricezione delle opere, se si escludono le sempre citate note a lui dedicate da Renato Serra nel 1914,3 il nome dell'autore Massimo Bontempelli sembra oggi essere stato quasi ignoto ai contemporanei.
Su qualcuna di queste lacune ci piacerebbe cominciare a gettare un po' di luce, che preluda ad ulteriori approfondimenti e magari ad una raccolta e ristampa antologica dei testi teorici bontempelliani di quegli anni.
Tra i critici moderni, tra l'altro, non tutti hanno aderito pacificamente alla vulgata di un "primo" e di un "secondo", addirittura di un "terzo" Bontempelli, rispettivamente corrispondenti al poeta classicista, allo scapigliato avanguardista delle Vite, all'ideologo e romanziere novecentista. Se De Robertis accantonava tra gli «errori» poi felicemente superati le opere di gioventù e specialmente le prove poetiche,4 Pietro Pancrazi riconosceva attraverso le diverse fasi della scrittura di Bontempelli la persistenza di «una nota costante, quasi seconda natura dello scrittore».5 E se la maggior parte della critica ha mostrato di voler sorvolare "pietosamente" sulla sua opera in versi, qualche voce, prima di tutto quella di Luigi Baldacci, si stupiva che il Nostro «sia rimasto rigorosamente escluso dai quadri ufficiali della poesia del Novecento»,6 derivando il suo sconcerto, che non ignora i versi classicisti, soprattutto dal riconoscimento di quella «vocazione all'informale» che affiora più palese nel Purosangue.
D'altra parte, mentre la maggior parte dei commentatori si esercita nell'apprezzare le distanze e nel valorizzare le differenze, non è mancato chi, nel passato, ha sostenuto la continuità della ricerca letteraria di Bontempelli. Pensiamo ad Emilio Cecchi, convinto, nel '25, che lo scrittore comasco, «come artefice, sia rimasto all'incirca sempre lo stesso, dalle Odi ai Sette savi a Viaggi e scoperte, all'Eva, a Nostra Dea, e da quest'ultima a Donna dei miei sogni».7 Pensiamo a Eurialo De Michelis, il quale sostenne che «a trascurare decisamente i primi libri di Massimo Bontempelli, diciamo quelli in verso [...] non soltanto ci si toglierebbero utili elementi per capire i suoi più vari sviluppi, ma anche gli si farebbe torto», poiché «non esiste poi fra quei libri e i successivi, fra il vecchio e il nuovo Bontempelli, lo stacco che si suol dire, anzi una continuità di atteggiamenti e di modi, tutt'il contrario del trasformismo che, come assume rilievo in quel [suo] rifiuto, così dimostra per alcuni l'inconsistenza dello scrittore».8 Pensiamo infine allo stesso Piscopo che, in anni più recenti, dedica un lungo sguardo, di fatto tutto il secondo capitolo del suo libro su Bontempelli,9 al suo «lungo noviziato», soprattutto di narratore, sostenendo l'importanza di includerlo a pieno titolo nel ritratto critico dello scrittore.
Scriveva Cecchi:

«Non furono davvero perspicaci quelli che, tra le odi magre e tormentate del Bontempelli classicista di dodici anni fa, e i racconti e i viaggi del Bontempelli del 1922, credettero di aver vista una contraddizione insanabile; tanto insanabile da dover inferirne che il Bontempelli era stato insincero, aveva scritto a freddo, a vuoto, tutte e due le volte. La verità è che il Bontempelli delle Odi si attaccava a una materia soltanto colturale e scolastica, mentre il Bontempelli dei racconti si applica, ormai, sulla materia di un'esperienza originale; ma il metodo dell'attaccamento è compagno e, invece di incoerenza, converrebbe piuttosto parlare, non diciamo in tutto a titolo di elogio, d'una volontà costante e d'una abilità instancabile nel portare e giustificare, nell'economia dell'ode, e ora del racconto, i più difficili e pericolosi sviluppi».10

Perché in lui, ribadiva il critico, vi è sempre un fondo «di tristezza lirica sincero», che egli si sforza di celare;11 in lui «sovrabbonda la grazia: nella varietà delle trovate; nella lievità dei procedimenti; nell'uso di una lingua, in apparenza agevolissima e trascorrente, ma tutta soppesata e invigilata; riportando, s'intende, la parola "grazia" nel senso caratteristico ch'essa deve assumere per questo autore, arido, irritato e magari irritante».12 In più, sottolineava felicemente Cecchi, Bontempelli sin dagli esordi

«ha reso il più possibile scabrose le condizioni del suo patto col pubblico. Negato, per temperamento, ad ogni impiego descrittivo e volgarmente sentimentale, di questa incapacità si è fatto un ornamento, ma tanto difficile da portarsi che si può considerarlo al tempo stesso un cilizio. Con ai lombi cotesto cilizio si è obbligato, su carta da bollo, a non presentarsi che sul filo di ferro all'altezza dei sesti piani, o danzando come un fakiro tra le lame dei coltelli».13

Per Cecchi, insomma, il fattore segreto e nascosto di questa continuità starebbe da una parte in certi dati di temperamento: un fondo malinconico e "freddo", il tratto elegante, aristocratico e "leggero", l'intelligenza critica, la ripulsa verso ciò che è troppo facile e risaputo, l'attrazione per la sfida e, in primo luogo, in una «incapacità» di aderire agli aspetti più banali del realismo illustrativo e psicologico; dall'altra, in una inclinazione della volontà e dell'intelligenza tutte volte a mantenersi fedeli a se stesse, che precludono a Bontempelli gli usi intermedi delle proprie capacità di scrittore. Noi concordiamo con questa interpretazione; tuttavia - e non si tratta solo di sfumature - pensiamo che detta «incapacità» sia da interpretare piuttosto, sin da questo primo decennio del secolo, come una deliberata ripulsa, come il frutto di una consapevole tensione volta ad escludere, dall'esercizio dell'arte, ogni elemento soggettivo ed accidentale, conseguenza di una adesione al classicismo inteso come padronanza delle forme, come aulico distacco e magistero di equilibrio.
In questo senso illuminante, ma da leggere in senso antifrastico nelle conclusioni, è il giudizio espresso da una voce secondaria, malevola e certo di parte, che pure vorremmo ancora segnalare tra la "compagna picciola" dei fautori della continuità. Si tratta di un articolo di Alberto Bairati che, su «Il secolo fascista», si affannava nel 1933, a tratteggiare, di Bontempelli, un giudizio niente affatto lusinghiero, incentrando il suo ritratto al negativo su alcuni requisiti che la critica odierna non potrebbe che sottoscrivere in positivo. Secondo Bairati, Bontempelli non si è mai veramente liberato dalla sua vena professorale, sin dai tempi dei fallimentari esperimenti di versificazione. «Oggi - scrive - si rimproverano molte cose all'elegante professore ma soprattutto noi l'accusiamo di mancanza assoluta, nei suoi scritti, di ogni corrispondenza tra l'espressione e il sentimento, e d'ogni aderenza tra lo stile e l'ispirazione: direi quasi che in Bontempelli c'è tutta e sola espressione e nulla di sentito»; egli è «tutto lindo, profumato, rifinito [...] nello stile», «un azzimatissimo della letteratura nostra».14 Spiace al Bairati, in tempi che reclamano la giovinezza per la giovinezza, che Bontempelli, già avanti con gli anni, pretenda di dettare i canoni dell'arte nuova; soprattutto condanna in lui lo «spirito protestantico» che domina «in ogni sua produzione: piccole beghe di principi, ripicche di giudizi, contraddizioni di pareri [...] e specialmente la manìa della riforma per la riforma, della novità per la novità, della modernità per la modernità, come l'arte per l'arte». Insomma, i tratti che Bairati condanna, ravvisandoli come costanti nella produzione di Bontempelli, sono la cifra iperletteraria dello stile e la vigilanza critica - o meglio: l'ingerenza della vigilanza critica in sede creativa e l'attitudine sperimentale e "fredda" che ne deriva sul piano dei contenuti e della lingua. Che era proprio quanto il Nostro andava in quel torno di tempo teorizzando a chiare lettere, sostenendo l'idea classicista di un'arte che ha «abolito ogni elemento sentimentale, passionale, interpretativo di atteggiamenti umani».15
Alcuni di questi tratti caratteristici erano stati tuttavia intravisti, con molto anticipo, anche dai primi recensori di Bontempelli, che, pur apprezzandone la levità e la perizia, rimasero spesso perplessi, e in fondo come delusi, dalla sua attitudine olimpica. Nel 1908, ad esempio, Ercole Rivalta, collega di Massimo sulla pagine della «Rassegna Contemporanea», dopo l'uscita del Socrate moderno, dimostra già di apprezzare nel narratore la capacità di restare «lieve in soggetti lievi», lasciando in sottofondo, «sapientemente velato», «il palpito nascosto della sofferenza, l'amarezza degli ideali che precipitano [...], l'abbrutimento dell'intelletto»16; lamenta però tra le righe che «l'argutissima forma di cui il Bontempelli seppe servirsi», così impregnata di «ironia» finisca per livellare i contrasti: così che «i soggetti che Bontempelli tratta non hanno né gagliardie enormi né debolezze profonde: sono della tinta del grigio». 17 Nelle Odi, plaquette inaugurale della nuova collana «Poeti italiani del XX secolo» di Angelo Fortunato Formiggini,18 lo stesso Rivalta ammira il sapiente verseggiatore, il «poeta temprato a le più robuste eleganze del verso», che «sa contenere entro freni sicuri ogni più gagliarda espressione».19 Solo, gli sembra che sulla raccolta gravi una freddezza di ispirazione, una «mancanza di palpito». E, pur elogiando i versi della plaquette, conclude la sua breve nota affermando: «Dinanzi a queste odi, che ognuno deve lodare e apprezzare, io ammiro, ma non mi sento commuovere quasi mai».20 Significativi, invece, nel senso di una più profonda comprensione della musa algida e pindarica che muove la migliore ispirazione di Bontempelli, sono poi gli ammonimenti di Vincenzo Picardi, direttore della «Rassegna», il quale, nel recensire (insieme a La vita nuda di Pirandello) gli Amori,21 si rammarica che «quell'umorismo che era il fine del Socrate moderno [sia] in questo volume più un motivo ornamentale che non una vera finalità artistica» e sottolinea come questo cedimento alla cronaca, alla verosimiglianza del racconto, finisca per confliggere con la vena ironica, generando effetti di fastidiosa «prolissità».22 Un insegnamento, questo, di cui Bontempelli saprà fare tesoro, abbandonando d'ora in poi la via dell'umorismo esornativo, semplice "condimento" o pimento della prosa, per tornare invece (certo nelle intenzioni anche se non sempre con piena felicità nei raggiungimenti), a quella dell'ironia strutturale, motore della narrazione.

 

§ III. Un nuovo poeta: il saggio di Checchia su Bontempelli Torna al sommario dell'articolo

II. La corrispondenza con Giuseppe Checchia

Ma torniamo al Bontempelli poeta, al verseggiatore cui si rimproverarono ai tempi - e si rimproverano tutt'ora - la mancanza di calore, di vera e "sentita" ispirazione e persino la perfezione tecnica della strofe; al classicista delle Egloghe, di Verseggiando, di Settenari e sonetti, delle Odi; al "carducciano", insomma, come un po' troppo sbrigativamente lo si è classificato, trascurando il fatto che molti di questi «studî di versi»23 mirano ad una eleganza e pastosità sonora che trascende il modello e, come è stato notato, si appoggia piuttosto alla tradizione stilnovistica, ai parnassiani e a D'Annunzio24 e trova persino, nelle Egloghe, accenti di sapore bernesco in cui sembra già di udire - davvero come in "anticamera" - l'insinuante pispiglio del daìmone.
Per completare la nostra difettiva antologia di interpretazioni critiche, torna ora opportuno ricordare un ampio studio uscito nel 1912, il più antico e il più minuzioso profilo sul Bontempelli poeta. Lo si deve a Giuseppe Checchia, singolare figura di letterato di provincia e di critico, oggi pressoché dimenticato (se non, forse, per i suoi studi pascoliani), con il quale Massimo, allora redattore delle «Cronache Letterarie», intrattenne tra il 1911 e il 1912 un breve rapporto epistolare. Nato nel 1860 a Biccari, in provincia di Foggia, Checchia fu professore di liceo e quindi ispettore ministeriale, ed ebbe, come il professor Bontempelli, una travagliata carriera, che lo portò a girare l'intera penisola in seguito ai diversi incarichi che rivestì col passare degli anni.25 Fu autore di numerosi saggi pubblicati su diverse testate,26 critico e traduttore di Pascoli,27 assiduo collaboratore della fiorentina «Rassegna nazionale» e acceso ammiratore di Carducci,28 scrisse di storia locale ma soprattutto sulle glorie maggiori delle patrie lettere: su Petrarca, su Dante e Leopardi, su Manzoni e su Francesco De Sanctis. La maggior parte dei suoi ritratti critici uscirà, raccolto in volume, nel 1900, con il titolo: Poeti, prosatori e filosofi nel secolo che muore.29
Alcuni anni prima, poco più che trentenne, Checchia si era fatto già notare dal mondo letterario nazionale per un articolato saggio intitolato Del metodo storico-evolutivo nella critica letteraria.30 Con questo scritto, pubblicato sulla «Rivista di Filosofia scientifica» di Enrico Morselli, Checchia si proponeva di corroborare i metodi della critica con «la teorica dell'evoluzione [...] che è la più bella ipotesi scientifica di questi ultimi anni».31 Era un lavoro ambizioso, che, pur ispirandosi ad altri autori che avevano tradotto in Italia il pensiero di Taine,32 aveva suoi specifici tratti di originalità. Si presentava infatti come un trattato di estetica evoluzionistica, che, considerando la letteratura come un campo in cui «i fenomeni [...] seguono le leggi darwiniane», 33 aspirava a dare saldo fondamento teorico e metodo scientifico all'approccio critico - ma che, nonostante la calda adesione al pensiero e, soprattutto, alle metodiche del positivismo, introduceva, non sempre coerentemente, diversi correttivi. Nell'aspirazione ad oltrepassare i limiti dell'orizzonte positivista, Checchia faceva tesoro della lezione della scuola storica torinese e guardava all'opera di critici come Arturo Graf e Rodolfo Renier. Senza rinnegare la lezione desanctisiana, sosteneva innanzitutto l'esigenza imprescindibile dell'indagine storica; sposava l'idea, in qualche modo romantica (e in linea con la sua ammirazione per Graf), che le opere letterarie siano l'espressione più alta e compiuta di una civiltà; asseriva che le manifestazioni estetiche, spinte dall'evoluzione al progressivo miglioramento, avevano trovato il loro apice nel classicismo, cui la legge della «adattabilità» delle forme letterarie consentiva di incarnarsi in epoca moderna in configurazioni nuove, popolari e adatte ai tempi. Campione ed esempio di questo classicismo vitale e "positivo" era, secondo Checchia, Giosuè Carducci, in cui egli vedeva felicemente attuato un difficile innesto: quello di un classicismo «contiguo ad un nazionalismo letterario di stampo risorgimentale, il quale sembra non poter comunque fare a meno dell'idea romantica di poesia popolare».34
Primato della letteratura e dell'arte, classicismo moderno e "popolare", ammirazione per Carducci e per Graf: sono tutti elementi che avrebbero favorito la stima di Checchia per Bontempelli, per il quale, d'altronde, alcune di queste idee costituiranno una suggestione su cui meditare, un germe destinato a svilupparsi e a fruttificare in un futuro ancora lontano, quando diverranno capisaldi della sua militanza novecentista.
Al momento, siamo agli inizi del 1911, la conoscenza tra i due si avvia proprio sulla base della querelle carducciana: Checchia invia alle «Cronache Letterarie» un suo saggio su Giosuè Carducci e Francesco De Sanctis, con l'intenzione di inserirsi nella polemica. Prende così avvio una corrispondenza che si concluderà nel giro di pochi mesi ma che varrà a Bontempelli un saggio critico a lui interamente consacrato, il primo che si ricordi. Le lettere dello scrittore comasco andranno nel frattempo ad aggiungersi al ragguardevole epistolario dello studioso pugliese, il quale, nel corso della sua carriera, ebbe cura di mantenere una vasta rete di rapporti ed ebbe tra i suoi corrispondenti nomi di grande prestigio nella cultura nazionale35 (il suo epistolario, conservato in un fondo della Biblioteca Comunale «Ruggero Bonghi» di Lucera - peraltro ricca di numerosi e preziosi manoscritti - è oggi in attesa di pubblicazione).36
Al saggio su Giosuè Carducci e Francesco De Sanctis presentato alle «Cronache letterarie», Checchia si vide opporre però nel gennaio del 1911, un cortese rifiuto: la nota polemica che dalle pagina della «Nuova Antologia»37 e delle «Cronache»38 era dilagata su quelle della «Critica» e del «Giornale d'Italia» , avevano assunto toni roventi. Nell'articolo del «Giornale d'Italia» del 22 dicembre 1910, altri si era intromesso nella disputa, trascendendo dal piano letterario a quello personale e sviando dall'argomento che stava a cuore alle opposte fazioni: il valore della critica carducciana in se stessa, in rapporto con la valutazione che ne dà Benedetto Croce e perfino con l'impostazione critica crociana.
Di rimando a Checchia,39 Bontempelli si dice perciò in attesa della risposta ufficiale di Croce, che arriverà, puntuale, pochi giorni dopo, il 20 gennaio, dalle pagine della «Critica».40 La speranza di riportare il confronto sul piano puramente estetico veniva però frustrata dallo stesso Croce, il quale, dall'alto del suo seggio, non scendeva nel merito della questio: si limitava ad affermare che Romagnoli è «buon traduttore», e perciò stesso «non ha ingegno critico, e per conseguenza nemmeno dottrina critica e, quando si prova a ragionare, riesce debole assai», mentre «i suoi conati artistici e il suo verseggiare, che non si elevano fino alla poesia, lo mantengono in quella moderata eccitazione che ci vuole per riecheggiare artisticamente il poeta che si traduce».41 A tanta offesa, non sarà Romagnoli a ribattere, forse proprio perché troppo colpito nel vivo. Lo farà Bontempelli in sua vece,42 facendo notare a Croce che la sua risposta «parla di tutt'altro», «non tenta di difendere alcuno dei punti che della sua teoria e della sua pratica [gli furono] mostrati fallaci»;43 e che i suoi avversari carducciani si sono limitati ad esprimere su di lui, Benedetto Croce, pur sempre tributandogli rispetto e ammirazione, alcune «limitazioni critiche», in modo analogo a quanto egli stesso ha fatto con Carducci. Se perciò Croce «se n'ha a male», bisognerà inferire che egli si crede al di sopra di ogni confutazione, libero e intangibile nell'empireo della poesia e della critica "pure". Per ribadire questa valutazione, vendicandosi del secco appellativo con il quale gli avversari solevano sminuirlo («Massimo Bontempelli, umorista», a sottolineare la sua inadeguatezza ad intervenire sulla materia del contendere)44, Massimo assumerà nei successivi suoi interventi la divisa, scanzonata e libertina, del goliarda, indirizzando verso il campo nemico esilaranti «notarelle» che culmineranno in quell'impareggiabile Saggio di critica filosofica sulla Vispa Teresa, nel quale il bersaglio polemico è immediatamente riconoscibile sin dall'incipit: «La Vispa Teresa. [...] C'è a chi piace, c'è a chi non piace. A me piace molto. Ma questo non importa. Importa studiarla criticamente. Adesso mi metto un momento dal punto di vista dell'autore, faccio l'analisi genetica della sua intuizione e sarà spiegato perché piace a me, e deve, quindi, piacere a tutti».45
Seguiranno altre "puntate" non meno accalorate e spesso esilaranti. Chi le vada oggi a rileggere in sequenza, anche soltanto sfogliando i numeri delle «Cronache» per completare il quadro con i numerosi "pezzi" rimasti esclusi dalla antologia pubblicata da Quattrini, non potrà non rilevare come gli interventi di Bontempelli, a confronto con quelli di Romagnoli, di Borsi e della controparte, risultino più liberi e penetranti, più consapevoli della presenza di un pubblico di lettori non necessariamente di specialisti, mai dimentichi della utilità della letteratura: tutti volti a tradurre in termini pratici, cioè di poetica, le questioni estetiche su cui si va dibattendo.
Nel frattempo, il saggio di Checchia su Carducci era uscito su «La lupa» (altra testata dell'editore Quattrini), e la corrispondenza tra Massimo e l'illustre professore di provincia, passata a toni più famigliari, aveva iniziato a comportare lo scambio delle rispettive opere e un maggiore, più attento, interesse. Nella lettera del 18 gennaio, Bontempelli ringrazia l'«egregio amico» per l'invio «dei suoi volumi»; e poiché parla di «volumi», sarà lecito supporre che si tratti proprio dei due libri che Checchia aveva allora dato alle stampe e nei quali riponeva le maggiori speranze di fama: Poeti, prosatori e filosofi nel secolo che muore e Del metodo storico-evolutivo nella critica letteraria, ripubblicato dai fratelli Dumolard in estratto. Dal canto suo, Bontempelli promette l'invio delle sue Odi, che Formiggini sta per inoltrargli, e di una copia di Settenari e sonetti. Tra la fine di gennaio e la metà di giugno, Checchia invia alle «Cronache» vari articoli e qualche proposta di intervento, e si reca a Firenze per incontrare Romagnoli e Quattrini. Si capisce che vorrebbe rientrare con qualcuno dei suoi scritti carducciani nel volume della Polemica, che è in preparazione, ed è probabile che ne abbia ottenuta una qualche assicurazione dal Romagnoli stesso: in una lettera dell'estate 1911,46 Bontempelli cerca di rabbonire il corrispondente deluso di non trovare il proprio nome nel libro appena uscito, declinando ogni responsabilità e dicendosi semplice esecutore agli ordini di Vincenzo Morello e di Ettore Romagnoli, che, nei rispettivi ruoli di direttore e condirettore delle «Cronache Letterarie», hanno autonomamente e per proprio conto operato le scelte editoriali relative al volume.
Bontempelli si adopera allora con diplomazia per rappacificarsi con il professore, sminuendo recisamente il proprio ruolo, che sappiamo non essere stato quello di un semplice esecutore (come è evidente anche da un suo lapsus nella lettera del 5 settembre 1911). Ma è pur vero che quasi tutti i comprimari vennero esclusi dal volume della Polemica carducciana e che, d'altra parte, Checchia sembra aver già iniziato il suo studio critico, al quale Bontempelli, naturalmente, tiene molto. Si evince dalle lettere che, nella primavera del 1911, i due devono essersi già incontrati, probabilmente a Siena, dove Checchia all'epoca risiede (si rivedranno probabilmente, tra giugno e luglio, a Firenze); e che Checchia progetta di pubblicare il suo profilo di Bontempelli, per ora non particolarmente esteso, sulla «Rassegna contemporanea», avvalendosi dei buoni uffici dello stesso Massimo, il quale alla «Rassegna» aveva collaborato prima di trasferirsi a Firenze e di diventare redattore capo delle «Cronache Letterarie». Bontempelli però, imbarazzato, si sottrae alla mediazione e risponde: «Io mi perito molto, trattandosi di un articolo che riguarda me. Non le pare? Per qualsiasi altro articolo sarei felice di esserle presentatore».47

 

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III. Un nuovo poeta: il saggio di Checchia su Bontempelli

Nel giro di poco tempo, tuttavia, il progettato articolo lievita, sino a diventare un vero e proprio saggio48 e Bontempelli pensa di avvalersi dei buoni uffici dell'amico Emilio Bodrero.49 Ma la «Rassegna contemporanea» (che d'altronde aveva già recensito le Odi non molto tempo prima),50 vuoi per l'estensione dello scritto, vuoi per la condizione appartata del suo autore, vuoi per la fama ancora modesta del poeta, non lo accoglie. Agli inizi di settembre, Bontempelli dà segni di inquietudine:

«...E del suo studio, grazie e poi grazie. Io son confuso davvero e sono impaziente di leggerlo, che è la prima volta che la mia poesia è studiata così amorosamente. E poiché fo gran conto del Suo acume critico, mi riprometto di far tesoro per l'avvenire, di tutte le osservazioni che Ella avrà potuto fare su' miei versi».51

Il saggio di Checchia su Bontempelli poeta uscirà solo nel 1912, sulla rivista «Aprutium. Rassegna mensile di lettere e d'arti», suddiviso in due successivi fascicoli.52 Massimo ne riceve l'estratto in aprile e, servendosi ormai del più intimo "tu", ne ringrazia commosso l'autore:

«Ricevo l'Aprutium, col tuo bellissimo studio; del quale arrossisco, perché non credo di meritare tanto. Tu molto amorosamente hai penetrati tutti i miei ideali di poesia, come nessuno ha fatto di chi non mi conosce di persona. Tu molto benignamente hai voluto sorvolare sulle mancanze, che io ben mi riconosco. Il tuo giudizio m'incuora a far meglio, spero, e a meritarmi davvero tutto quello che tu hai scritto di me. Grazie di cuore».53

E invero lo scritto di Checchia: Un nuovo poeta. Massimo Bontempelli, rivela uno studio paziente e meditato: consta di diciannove, fitte, pagine, suddivise in tre sezioni e varie sottosezioni: I. Anime e forme della Poesia (suddivisa in: Studi dell'Autore e suo svolgimento artistico e Carattere intimo dell'ode lirica e raffronto con la poesia del'Autore); II. Divisione e disamina delle Odi (suddivisa in: Odi affettive ed intime, Odi morali, Odi storiche, Odi descrittive): III. Temperamento poetico dell'Autore e carattere particolare della sua lirica. E' un saggio che ha le proporzioni di un omaggio ma che non si limita ad espressioni elogiative; è talvolta verboso e pedante, soprattutto nella II sezione, di «disamina delle Odi» ma non manca di intuizioni illuminanti, capaci di far presagire il futuro percorso del nostro poeta. Sin dall'incipit, Checchia avverte che

«Questa del Bontempelli non è lirica che possa piacere al vulgo sciocco, il quale non ama, non gusta, non sente che vuoti suoni o disperse armonie con il solo aiuto delle orecchie: perché essa ha una intimità tutta sua e un così ascoso e pur riverberante senso della vita e delle cose, che non può essere intesa se non da quelle anime che dalla natura e dagli studi sono disposte alla secreta commozione e penetrazione del mondo interiore».54

Nella poesia di Bontempelli, infatti, non c'è un «folgorare e lampeggiare di sensi e parole» né in essa, come invece in molte altre, «lontanamente si avverte come l'eco ripercossa di un rombo sotterraneo».55 Checchia ritiene in particolare che le ultime poesie, «di molto superiori ai precedenti motivi che a poco a poco le vennero preparando»,56 benché costituiscano il frutto più maturo della ricerca bontempelliana, non si possano veramente chiamare «odi», per via del loro carattere, più vicino alla «poesia parenetica e discorsiva del fenomeno morale, o visione meditativa del fatto storico, critico e artistico che tengono insieme della didascalica».57
A suo parere, quella di Bontempelli è una poesia «meditativa, perché di concezione ferma e raccolta: non addobbo, non pompa, non lenocinio di frasi e di suoni, ma nel lento pulsare del ritmo anche se monotono, nel rigido ricamo della costruzione anche se involuta, nella stringatezza della forma anche se scabra, ha una nota sua propria, personale, distinta, con un ben chiuso germe di pensiero atto a fruttificare dentro anzi che al di fuori».58 Gli sembra, anzi, che Bontempelli si compiaccia «di evitare studiosamente ogni effetto acustico di parole e di armonie, pur di veder errare lo spirito del fantasma lirico nella più severa semplicità della locuzione», sempre «lucida e corretta».59 Rileva in questi versi «la grande nobiltà del pensiero e dell'ispirazione, un signorile decoro nella espressione, una rigida purezza nella scelta della materia e degli argomenti, e un concetto sempre alto della vita e degli ideali di essa»;60 una «grandissima cura dello stile, fino e squisito magistero della tecnica, purissima lingua anche se arcaica talvolta, flessuosa ed elegante, secondo l'uso classico» e, infine, «la concinnità della strofe». Ma soprattutto, a questo sensibile auscultatore, sembra vi sia, in questi versi, «come un programma» di un'arte «serena, acuta, penetrante, e, nella stessa quiete, animosa». A questa arte, il poeta «si venne preparando con un lungo studio e grandissimo amore, tentando e ritentando, con prove molteplici, i più vari strumenti»,61 i quali sembrano talvolta mortificare «la pienezza della sua naturale vitalità»: a Checchia pare «strano» o perlomeno «singolare», «che in queste Odi e nei Settenari e Sonetti che le precedono, non pure non si respiri la più lontana aura di sensualità, ma non vi apparisca mai, nemmeno nella sua più candida purezza, il motivo di amore».62 Il fatto, osserva lo studioso pugliese, è che la poesia di Bontempelli «trae alimento di idee e di forme» proprio dagli studi: egli «ha da natura la facoltà di concepire il fantasma del vero molteplice, e dagli studi l'esercizio e l'addestramento a elaborarlo e colorirlo, per mezzo dei più forbiti strumenti della parola»;63 «ha un proprio e diretto fondo di pensieri e di osservazioni, le quali però pel troppo lungo esercizio del meditare che gli è naturalissimo, attenuano o inaridiscono talvolta la vena dell'ispirazione. Egli insomma ha un modo tutto suo di vagheggiare il vero, ma particolarmente i più segreti motivi dei fatti morali, a cui i ridenti aspetti della natura esteriore non sono che fregio o piccolo contorno».64 Nonostante le eccezioni che solleva, Checchia vede tuttavia in «queste Odi assai più che una promessa»: «la rivelazione schietta di una sana e nuova vitalità artistica».65

 

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IV. Grande e piccola critica

Il lungo studio di Checchia su Bontempelli si chiudeva proprio su queste parole decisamente elogiative. Dal canto nostro, più che sulle conclusioni (in certo senso scontate, viste le premesse del rapporto Checchia-Bontempelli), vorremmo attirare l'attenzione su alcune osservazioni di questo studioso appartato, che coglie con singolare acume, nei versi delle Odi e dei Settenari, taluni tratti che costituiscono il primo bandolo di quel filo di continuità che ordisce la ricerca bontempelliana: l'attitudine "cerebrale" dell'ispirazione (fonte di quel lirismo che, si legge nel Neosofista, deve nascere, «in modo costantemente riconoscibile», «dal contatto d'una realtà con un pensiero»);66 la vena attica e l'intento militante (il «programma» di un'arte «serena, acuta, penetrante, e, nella stessa quiete, animosa»); lo studio nel conseguire un nitore «lucido» nell'espressione; una politezza formale che si rivela calco di un'attitudine morale; e persino quella tendenza a «concepire il fantasma del vero molteplice», la forma ideale e archetipale delle cose che sarà alla base dei maggiori raggiungimenti del «realismo magico»: un realismo depurato, astratto, privo di partecipazione, che, come accade in queste poesie, mostra il sentimento, ne fa motivo d'arte con un minimo di personale ingerenza: come infatti ancora annoterà Bontempelli nel 1936: «Può ottenersi una grandezza poetica anche con la non partecipazione del poeta alla materia di cui tratta.[...] Petrarca non partecipa. Al Petrarca non importa di Laura, e nemmeno a noi importa; e così non ci importano i sentimenti di lui, non prendiamo parte appassionata al suo amore, perché neppure egli la prende: l'importante, per lui e per noi, diventa il mondo di immagini e di musiche e di movimenti che nascono da quel tema, del quale mondo il tema è pretesto. L'importante è la costruzione, che ha valore autonomo».67
E che Bontempelli, fin dal 1908, volesse dir «basta con l'estetismo, basta con lo psicologismo, basta col verismo, basta con le pezzenterie intimistiche», considerandole, come chiarirà parlando di «Novecento», «ribiascicature dell'800 esausto»,68 risulta chiaro da uno dei suoi scritti "smarriti" di quell'epoca, un ampio saggio intitolato Grande e piccola critica, comparso sulla «Rassegna contemporanea»69 al tempo in cui ne era collaboratore e si occupava con regolarità della rubrica «Cronache di Poesia».70 Qui, ragionando dei metodi e della funzione della critica, Bontempelli riflette, tra le righe, sul senso e sul valore della propria ricerca poetica. Egli inizia con l'affermazione che la poesia è «un'energia in movimento continuo, che richiede variabilità di mezzi e di intenti a chi voglia esaminarla criticamente», e suddivide la critica in «grande critica» («quella che si atteggia a scienza o ad arte di largo volo o di indagine sicura e profonda», che «si rivolge di preferenza al passato») e in una «critica minore, spicciola, quotidiana; che è in qualche modo contemporanea con l'opera d'arte perché séguita così immediatamente ciascuna espressione artistica di un autore che può talvolta operare sulle successive».71 Della prima, afferma Bontempelli, si è parlato sin troppo, tanto che si può sorvolare o quasi sulle numerose "questioni" sulle quali essa è andata via via polemizzando: spende perciò solo qualche parola anche sull'ultima "questione", che ha visto opporsi i metodi della scuola estetica a quelli della scuola storica, osservando che, come per altre querelle del passato, anche per questa si è finito per proporre una mediazione, e che in molti - Torraca, Graf e Carducci tra i primi - stanno da anni lavorando tal senso.
Si propone quindi di rispondere a due domande, che gli sembrano essenziali: «questo metodo storico-estetico che si venne imponendo in Italia tra il'70 e la fine del secolo, a quale altro indirizzo critico generale si oppose? E a che mira e conduce?».72 Anche per chi conosca le successive linee conduttrici del novecentismo bontempelliano, la risposta suona un po' sorprendente: «se vogliam trovare, avanti la moderna, una compagine completa, un indirizzo vasto e sicuro, di linee decise e precise, dobbiamo riferirci alla critica del Rinascimento. La quale, più che l'aspetto di disamina esercitata come operazione mobile e vigile del pensiero sui fatti letterari, ebbe quello di "Poetica": una congerie di osservazioni ingabbiate in categorie, una costruzione esatta e immobile di norme per un numero determinato di generi letterari».73 Da questa osservazione inattuale, Bontempelli dipana un lungo ragionamento, volto a dimostrare che è poeta compiuto colui che sa padroneggiare la forma dell'espressione in maniera tale da imprimere una coerente «armonia» a tutte le membra dell'«organismo» poetico, una armonia che abbraccia le singole parti, «se ne nutre, le fonde, le illumina, e - qui sta il punto - può dare un valore anche quelle che, prese singolarmente, il critico ha dimostrato manchevoli».74 Non è questa la sola frecciata che Bontempelli, come vedremo, già invia all'indirizzo di Croce (uno di quei filosofi i quali «dimostrato che i generi, le grammatica, la stilistica, la metrica, il comico, il patetico, le figure, ecc., non hanno esistenza categorica, sono portati a diffidare di qualunque osservazione o ricerca si faccia, anche con intenzioni semplicemente empiriche, con quelli o su quelli argomenti»).75 Secondo Bontempelli, la grande svolta ermeneutica fu impartita, alla critica, da Giordano Bruno, il quale, affermando che «le regole derivano dalla poesia, e però tanti sono generi e specie di vere regole quanti son generi e specie di veri poeti», «pose un germe da cui si svolgerà, a superare la Poetica, la estetica o filosofia dell'arte».76 Tuttavia, anche la critica estetica, in qualche modo, si è esiliata dai suoi fondamenti, perché «si è limitata anch'essa a sola una parte dell'esame necessario, [...] a una indagine psicologica sulla condizione del poeta», è diventata «un sovrapporre un'opera d'arte ad un'altra», si è assimilata a un «metodo divinatorio» e finisce «come ogni arte, per produrre compiacimenti senza dare una persuasione logica di ciò che espone».77 Perciò, occorre oggi reintegrare nella critica «qualcuno dei modi che furono propri alla critica del Rinascimento»:78 occorre «ritornare allo stile, ricordare che l'arte è espressione [...] e che essa espressione ha strumenti e mezzi suoi propri»79 che la qualificano. Troppo spesso sulla scia di una mal compresa e mal esercitata critica estetica, si muove tutta una schiera di orecchianti, che «soglion farsi teoria di qualche principio abbracciato senza troppo esame e senza dubitazioni e studi profondi»; codesti critici cercano «per ogni canto la ispirazione, l'empito, la "giovenilità" [sic]; e si illudono di trovarne ove non è che vanno gridìo senza numero».80 Questi pseudo critici, che cercano nei componimenti il «materiale poetico», il contenuto emotivo, condividono un pregiudizio che, osserva Bontempelli:

«li fa diffidare di tutto ciò che nell'arte [...] è finitezza, è studio accurato dello strumento, è decorosa ritrosia di spirito avveduto, che non si avventa a gran volo con poche forze, ma incomincia a provarle e ad esercitarle cauto, e reprime in sé le aspirazioni più vaste perché possano nel lavorìo intimo farsi più sicure, più dense, tormentose infine sì da potere un giorno, nella sicurezza di strumenti ben destri a soccorrerle, rompere alla espressione loro ultima e più perfetta».81

Traluce qui, tra le righe, il senso del lungo e meditato apprendistato di Bontempelli, fin da giovane ostile alla naïveté del poeta e ad ogni ideale di immediatezza espressiva, canoni verso i quali egli si esprime già qui con parole molto dure: «Il "materiale poetico" non esiste se non come stato mentale anteriore all'espressione. Se esce senza prender forma di vita organica sua, è qualcosa di paragonabile - sia detto con sopportazione - alla materia del rècere, che non ha saputo assimilarsi e torna fuori corrotta e nauseabonda».82 Lo ripeterà ancora nel 1930, con il tono più lieve di una raggiunta maturità:

«In certi periodi sarà forse necessaria a una generazione letteraria fare una cura di realtà. Oggi sarebbe piuttosto da insegnare agli scrittori a liberarsi da ciò che vedono e toccano, visto che non sanno farlo diventare fantasia (la realtà quando è arte, è pura fantasia) anzi non vi trovano che un impaccio, e l'incentivo a una prudente mediocrità. Il male è così grave che proporrei di fare una legge che proibisca per cinquant'anni agli scrittori di parlare di ciò che hanno veduto [...] La vera norma dell'arte narrativa è questa: raccontare il sogno come se fosse realtà, e la realtà come se fosse un sogno. Spesso la mancanza di "cuore" (per servirmi della fraseologia dei filistei) non è che tendenza al sublime. Ottenere gli effetti che si chiamano "cuore" è abbastanza facile: può bastare mettere in scena un poco di umanità piagnucolante, e fingere di intenerircisi, perché nessuno abbia il coraggio di dirvi niente. Il tendere al sublime è molto più rischioso: se non ci si arriva, si cade in terra e ci si sfracella. [...] Sento dire spesso dai soliti nostalgici, che il nostro tempo è tutto cervello, mentre quello dei nostri padri, dei nostri nonni, era tutto cuore: oh, come essi sapevano piangere e sospirare, mentre noi anime aride, schiave della raffinata nostra intelligenza etc. etc. etc. [...] Quelli che dicono in quel modo confondono l'intelligenza con un non so che lambiccata casuistica, e il cuore con l'ombelico».83

Avverso all'esaltazione della spontaneità, del "fuoco" poetico, dell'impeto dell'espressione, Bontempelli si richiamava invece, già nel 1908, allo stile, alla padronanza consapevole dei propri mezzi espressivi, al culto della "letterarietà", al possesso, saldo e sicuro, degli strumenti specifici della professione: convinzioni che nutrono già da adesso il suo lavoro:

«Letterario è [...] sempre l'avviamento all'arte dello scrivere; voglio dire che se il poeta maturo scrive per la necessità di esprimere, di liberarsi da un soverchio di impressioni e di pensiero, il primo movente di lui giovine fu l'ammirazione per chi espresse le proprie, il desiderio di far come loro. Si veggan gli studi iniziali del Leopardi, del Foscolo. Fino a qualche decennio fa si traduceva o si imitava da altri per molti anni prima di esprimere se stessi [...]. Oggi si vuol essere originali subito: creare. Oggi il critico impone al giovine la foga, e lo dirige alla sciattezza e al disordine, nel quale, per l'arte, non può essere che il vuoto. Incominci il giovine a vedere, pensare, vivere non altro che versi belli. Quando la maturazione dell'età e dell'osservazione lo avranno nudrito, allora il suo pensiero, la sua vita si esplicheranno e si esprimeranno naturalmente in forma adeguata, cioè saranno essi stessi più pieni, più "poesia"».84

Rivelandosi apertamente nemico della critica psicologica e critico della estetica e della storica, Bontempelli conclude il suo saggio su Grande e piccola critica ricordando ai colleghi che non si dovrebbe, dalla critica «intera e perfetta», escludere un poco di quella «Poetica» cara ai critici del Rinascimento: «una poetica variabile, con qualcosa di soggettivo più che nell'antica; un mezzo termine fra il minimum di soggettivismo necessario al metodo storico e il maximum concesso dal metodo estetico».85
Insomma, il richiamo al rigore stilistico, principio cui la critica non può non attenersi nella valutazione dell'opera, risuona qui forte e chiaro, sostanziato dall'ammonimento a recidere ogni coesione servile con la quotidianità della vita. Bontempelli, antirealista convinto, scoperto il valore di antidoto dello stile, incline ad aderire all'ideale classico come revulsivo contro l'ipertrofia romantica, scoprirà di qui a poco le potenzialità antigravitazionali dell'ironia, esercizio, anch'esso, di stile, che presuppone un punto di vista "superiore", éloigné: distaccato, appunto, da un'aderenza troppo minuta all'aspetto più caduco ed episodico del contingente. Di qui al «realismo magico» il passo sarà breve: non è, l'ironia, «un primo movimento di reazione contro l'interiorismo impoverito della scorsa generazione»? non è esso «la forma artistica del pudore al cospetto dei [...] sentimenti»?86 «Uscendo da un periodo dispersivo, di passionalismo balordo, di impressionabilità, di sentimentalismo morbido e di enfasi artefatta, periodo eminentemente impudico», l'ironia apparirà a Bontempelli come «una cura purificatrice», capace di controbilanciare «i nostri più nudi abbandoni», di «consumare [...] le minute adesioni realistiche» alla parvenza delle cose e di creare «un'atmosfera purificata e lucida [attorno] alla loro forma e fondamentale sostanza, quella che l'arte deve affrontare e attuare».87 «Avviamento a una lucidità superiore», «legittima transizione» dalla cronaca al mito, l'esperienza dell'ironia, quella che va dai Sette savi alle Avventure verrà ricordata da Bontempelli come il suo «primo tirocinio magico»: un «"fumismo"» che preludeva alla «"metafisica"», termine che, aggiungeva con un sorriso, non era poi «trovato male».88 Ancora negli ultimi anni, ripensando alla sua esperienza di narratore, ribadiva: «Quando il romanzo diventa un genere corrente, di consumo quotidiano, arriva a dover scegliere quasi esclusivamente il suo materiale della vita contemporanea, fino a tendere a un puro documentarismo». A Bontempelli invece era ben chiaro che «mira unica del poeta» dovrebbe essere la «soprarealtà»: «partire dall'uomo per credere nell'eroe, dalla storia per tessere la leggenda; e il tutto avvolgere in un'atmosfera euforica e sopra lucida: muovere dalla terra per arrivare a un'aura ideale che la realtà umana di ogni giorno è impotente a suggerire».89

 

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Giugno-dicembre 2010, n. 1-2