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Non riesco ad aprire gli occhi per il riverbero. Sento di piombo il mio corpo steso sul lettino. Provo a muovermi, ma è come se il busto e le gambe non mi appartenessero. Qualcosa si appoggia sul mio ventre, pesante e minaccioso, come una persona seduta a cavalcioni. Alzo leggermente la testa e mi accorgo che non c'è nessuno. Sto sudando. Mi rendo conto che stavo dormendo e una voce stridula che parla delle sue gambe bruciate dal sole mi ha svegliato. Da stamattina quella voce mi disturba. Copre il canto dei merli, il suono delle cicale e il silenzio dell'estate. Si è alzato un refolo di vento che mi appiccica i capelli bagnati di sudore sul collo. I raggi del sole mi feriscono come lame là dove sono più rossa. Non posso più sopportarne la subdola violenza. Devo difendermi. Mettermi all'ombra. Riposare lo sguardo in mezzo al verde che ho di fronte, fissando le stecche di bambù dell'ombrellone.
Guardo la vicina che, dopo il bagno, ha preso possesso dell'asciugamano con compiaciuta felicità e nel frattempo continua a gracidare con il suo ragazzo su cosa sia l'amore. Mi domando dove trovi la forza di pontificare su un argomento così liso e smunto e in fondo inesauribile. E lei invece si agita, alza la voce, gesticola, sostiene, sviluppa e giunge a dimostrare la sua tesi. Lui replica innervosito chiamando a testimoni della sua credibilità gli anni di psicoterapia e l'età avanzata. Lui, dice, ha alle spalle una storia dolorosa e sofferta che la giovane età della ragazza non prevede, gli conceda almeno il beneficio del dubbio.
Squilla il cellulare e lei d'un balzo si allontana, raggiunge la riva, si accuccia con le caviglie in acqua e rimane là fino a farmela dimenticare. Finalmente si respira e si può riposare.
Finalmente posso riprendere il mio discorso. Quello che mi accompagna come un cd tutto il giorno e a volte anche la notte. Come gli uccelli. Che si ripassano le melodie mentre dormono. Metto la prima traccia, poi la seconda. Alcune le risento col repeat, una, due, tre volte, le fermo, le dilato, le arricchisco di particolari. Ora mi va di partire dall'inizio, con ordine. Me la voglio raccontare tutta la storia, da capo. Da quando lui ha cominciato a parlare della sua nuova amica. Non è stato subito, no. Ha cominciato molto tempo dopo che l'aveva conosciuta. Me ne sono accorta perché si telefonavano e stavano a chiacchierare anche un'oretta, pure se c'ero io ad aspettare e a fingere di non ascoltare. E poi quelle domande strane, sgorgate dal nulla, sull'universo femminile, sulle donne, a me che gli ero al fianco da anni. A me che ora servivo come sportello di informazioni sul genere, quasi senza farne parte. Se le mestruazioni possano provocare tanto dolore da costringere una donna a mancare a un impegno, a me lo chiedeva che non ne avevo mai sofferto. O se quello che si dà sulle ciglia si chiama mascara o rimmel. E perché ce l'avevo tanto con le ragazze che escono di casa in tuta, che non è sciatteria, a lui piacciono.
E' tornata la chiassosa e segue, come previsto, una lite sul motivo per cui si è allontanata per rispondere al cellulare. Era un'amica, sì certo, ma non voleva che lui sentisse le confidenze che l'amica faceva a lei o piuttosto viceversa. Non riesco ad occuparmi della pellicola che scorre davanti ai miei occhi finché i miei vicini non arrivano a una conciliazione a proposito di quel nuovo diverbio. Lui è geloso, è chiaro. Lei è giovane, carina, un po' petulante e molto sfacciata, ma si vede che a lui piace così.
Mi metto di spalle, guardo le onde del mare. Seconda traccia. Quando cambiano i suoi gusti e vorrebbe che anche i miei cambiassero, per avere regolare certificato medico che non si è rimbecillito. Sono, d'un tratto, troppo severa nei miei giudizi. Anche la nuova narrativa di questi giovani scrittori va rivalutata. Non tutti, eh, per carità, ma qualcuno, De Luca per esempio, non l'hai mai letto? Bè neanch'io, ma voglio provarci. Non bisogna avere pregiudizi. E la scena di quando ne parla di fronte agli amici e tutti scoppiano a ridere, spietati, e io, dentro, gioisco e mi godo la sua umiliazione e lo stupore di tutti. Che misera vittoria, poverina, sapere che tuo marito ha perso la testa per un'altra. Idiota, per giunta.
Ho caldo. Vado al bar a bere un succo d'arancia. Non posso continuare a pensare ossessivamente a questi dialoghi. Li logoro, li sfibro, e rischio di consumarli. Così quando mi servono, non li posso più usare. Un uomo seduto accanto alla sua compagna mi squadra dalla testa ai piedi pieno di desiderio, neppure celato. Lo odio. Lo fulmino con lo sguardo e compiango lei. Compiango me. Sfoglio il giornale, la cronaca locale mi stanca presto. Mi affeziono alle famiglie che osservo, me ne sto ferma a guardare quelli che arrivano con borse e passeggini, ascolto stralci di conversazione, studio gli atteggiamenti. Vorrei almeno riconoscere negli altri quello che non ho visto in noi. L'assenza d'amore, per esaurimento, per omicidio, per distrazione. Sarebbe bello se, come accade che all'inizio, al nascere di una passione, due si sentono attratti, così al termine di un amore, si respingessero, per una forza repulsiva, via, lontano, lontano. Perché tutto quello che fanno poi insieme, quello che si dicono, è veleno. E' inutile, e anzi nocivo. E quando torno all'ombrellone, i due stanno litigando. Quale seduta di psicodramma, dice lui, quello ti vuole solo portare a letto. Ma è sposato, replica lei. Cosa conta, domanda sarcastico lui. Già, cosa conta?
Terza traccia. Ormai sono cambiati i palinsesti del divertimento. Adesso lui ama i giovani comici bolognesi che si esibiscono nei teatri sperimentali e conosce a memoria tutte le date degli spettacoli in tutta la regione. Io mi rifiuto di seguirlo in questa nuova passione. A volte andiamo a cena in qualche osteria aperta da poco di cui ignoro l'esistenza, ma non faccio domande. Mi succede solo di criticare ogni piatto di portata e di trovare il luogo volgare, finto e troppo di moda, per quel genere di avventore in cui noi non ci siamo mai riconosciuti. Noi, non so neppure perché continuo a parlare al plurale, quando dovrei dire io, perché ora lui, lui è diverso, è cambiato.
Un giorno attacca con la litania di volermela far conoscere, che mi piacerà. E questo a suprema prova del fatto che è un'amica e io sono la solita santippe gelosa e ombrosa. Andremo a vedere una mostra insieme, perché a me piacciono le incisioni. Non so perché accetto. Per curiosità forse, perché mi sento forte, perché siamo nel mio campo, perché voglio sbattergli in faccia quanto siamo coppia noi, quante affinità ci legano, come ci completiamo i discorsi a vicenda. E lui infatti, dopo una veloce presentazione, passa ad illustrare i quadri alla sua allieva, usando frasi del mio repertorio e mi abbandona tra le vuote parole dell'amica che l'ha accompagnata. Naturalmente io non sento niente di quello che mi dice e rispondo annuendo, ma piano piano, con arguzia, mi avvicino alla coppia noncurante per carpirne gli scambi di battute. Quando la sento dire che l'incisione esprime un senso di solitudine perché il pittore ha disegnato solo la brocca sul tavolo e lui la guarda estasiato, mi viene voglia di vomitare. Accampo una scusa e andiamo a casa. In macchina ha anche il coraggio di chiedermi se mi sono divertita.
Mi spalmo la crema. Davvero la pelle mi brucia e non solo quella. Anche gli occhi, con quel misto di sudore e di lacrime. Mi asciugo con il telo e lascio una striscia di quel maledetto mascara che mi ha rovinato. No, non compro niente. No, niente tatuaggi, né cavigliere, né bandane colorate. Ah sì, ti piacciono le donne italiane, perché sono pulite fuori e dentro? Perché lavorano, invece le senegalesi fanno solo dei figli? Ma va' via, va'! Che discorsi del cazzo! Maschilista! Prima gli fanno fare venti figli e poi si lamentano! Forse ho esagerato, la vicina mi guarda. Ora sono io che do spettacolo. Però mi sorride e dice hai fatto bene e che le mie treccine sono belle. Le sorrido anch'io e tiro un sospiro. Do un'occhiata al cellulare. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Sfilo dalla sacca un libro, Una donna spezzata di Simone de Beauvoir, una lettura a caso, una scrittrice a caso. E' dalle righe delle prime pagine che parte la traccia quattro, la più triste. Quando io gli dico che credo si stia innamorando di lei e che io non ce la faccio più a stare a guardare il nascere di una passione. Quando lui nega e, tra le lacrime, dice che è confuso, che mi ama, che però non può rinunciare a lei. E io capisco che siamo già a questo punto. E che non spetta più a me fare qualcosa, che non posso pretendere di cambiare il mondo. Ora è il momento di aspettare. Ma non rinuncio a dirgli che una passione può anche spegnersi sul nascere, prima che bruci, basta non alimentarla. Gli affido il viatico di questa riflessione, quando vedo che sta uscendo di casa, di considerare i tanti anni insieme e tutto quello che c'è tra noi. Quello che c'è tra noi. Quello che c'è stato tra noi.
Sono stanca. Dovrei andare a casa. Anche i vicini iniziano il rituale del congedo. Stranamente mesti, silenziosi. Ripiego l'asciugamano, metto a posto le cose, mi rivesto con una lentezza esasperante, godendomi la brezza che si è alzata, fissando il mare e imprimendo nella mente il grido dei gabbiani. Non posso venire al mare quest'estate, ho troppo lavoro, non è vero che non ne voglio parlare, ci sto pensando, ho le idee confuse. La crema abbronzante nella borsa, il libro letto da giovane quando non mi serviva, la bottiglietta dell'acqua, non è vero che non ti amo più, è che paradossalmente amo due donne, infilo le ciabatte da spiaggia, ormai sono pronta. Mi scrollo di dosso un po' di sabbia, non chiedermelo, non lo so neanch'io come andrà a finire, mi incammino per la passerella, in ogni caso niente cancella quello che siamo stati noi due, mi passo una mano fra i capelli, scompigliati dal vento e do un'ultima occhiata alle onde arrabbiate.

Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2009
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Giugno-dicembre 2009, n. 1-2
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