Niccolò Scaffai
«Non so inventare nulla».
Appunti per un commento a «Farfalla di Dinard» di Eugenio Montale

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
Il sistema delle prose
Montale e Clizia: short story e romanzo mancato
Un genere "in negativo"
Racconto, articolo, autobiografia: organizzazione e stile nella «Farfalla»
Memoria privata e racconto della Storia


 

§ II. Montale e Clizia: short story e romanzo mancato

I. Il sistema delle prose

Nel suo più importante autocommento, l'Intervista immaginaria del '46, Montale afferma che non «bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologica determinata, un'occasione».1 L'avvertimento, prezioso come cifra del "lavoro" poetico di Montale, perde attinenza se esteso alle sue prose. Nella produzione non lirica, infatti, Montale è un autore che si è ripetuto moltissimo, recuperando a distanza figure già descritte ed episodi già narrati o trasferendo da una prosa all'altra immagini, locuzioni, interi brani. Ciò sia detto non tanto per confermare la giustificata preminenza di un genere sull'altro entro l'opera montaliana, quanto per stabilire la differenza tra due sistemi, quello lirico e quello narrativo (o saggistico-narrativo).
È ovvio che i lettori e gli interpreti delle prose di Montale debbano aver presenti i suoi versi: le une contribuiscono spesso alla decifrazione degli altri, ricevendone in cambio un surplus di senso.2 Forse, come ritiene Marco Forti, «se anche Eugenio Montale, paradossalmente, non avesse scritto e pubblicato un solo verso, il prosatore, il critico, il traduttore, e infine il giornalista che egli è stato, non avrebbero mancato di lasciare una traccia anch'essa primaria»;3 ma i versi di Montale esistono e se ne deve tener conto anche in relazione alle opere non poetiche.
Tuttavia, per le prose, l'ufficio del commento non si limita alla cattura delle corrispondenze con la lirica (né alla conseguente ma parziale interpretazione dei racconti come smascheratura, contraffazione o rovesciamento delle poesie) ma implica altre incombenze che rendano possibile anche la comprensione del sistema in quanto tale, in una sorta di partita doppia tra dipendenza e autonomia di un genere rispetto all'altro. Tali incombenze riguardano principalmente la ricerca dei passi paralleli entro i confini degli scritti prosastici (da estendere, in molti casi, anche alle traduzioni e alle lettere, che delle prose condividono le une la forma, le altre certi riferimenti immediati al côté storico-biografico), la ricostruzione del contesto e in particolare la restituzione della profondità storica, la proposta di possibili modelli o precedenti (apprezzabili a livello interdiscorsivo più che intertestuale).4 A questi adempimenti si aggiunge il compito primario di ogni commento, cioè quello di offrire la parafrasi dei passi più densi, la spiegazione letterale di vocaboli e locuzioni difficili, la traduzione dei forestierismi qualora non possiedano (o abbiano perduto) corso regolare in italiano, l'illustrazione dei riferimenti «alla realtà pubblica o alla stessa realtà quotidiana»5 che rischiano di apparire affatto oscuri ai lettori presenti, non più contemporanei di Montale. Il compito è certo più urgente e impegnativo per la lirica di quanto non lo sia per la prosa; tuttavia, qui la maggior facilità della lettera si sconta almeno in parte con le più numerose integrazioni richieste dalla costante ed esplicita presenza del contesto storico, geografico, ideologico e culturale. Né alle citazioni palesi di luoghi, eventi o persone si può sempre far fronte con la stessa discrezione, talvolta un po' reticente, che l'autore stesso auspicava per il commento ai propri versi.6 «La poesia» scriveva del resto Montale «differisce dalla prosa perché essa non rimanda ad altro che a sé medesima: non può essere spiegata che nel proprio ambito».7
La ricostruzione del contesto si rivela spesso utile per fugare i travisamenti (più d'uno, ad esempio, ha sovrapposto gli eventi distinti che fanno da sfondo a La primavera hitleriana da un lato, al racconto Crollo di cenere dall'altro;8 per altri, l'Esterina di Falsetto coinciderebbe con la Donna Juanita dell'omonima prosa, e quest'ultima a sua volta con Annetta) e riportare al piano dell'attendibilità storica ciò che può essere erroneamente interpretato come frutto di invenzione simbolica (dal Buganza di Racconto d'uno sconosciuto agli Istituti di Mistica di Il colpevole). Quanto Montale scriveva a Glauco Cambon in merito alla propria lirica («Io parto sempre dal vero, non so inventare nulla»)9 vale a maggior ragione per le prose: «I haven't got the imagination of a born novelist, nor can I invent anything»10. Tale consapevolezza da un lato obbliga alla ricerca, fin dove è possibile, dei referenti, dall'altro sollecita l'interpretazione quando biografia e narrazione non coincidono (si veda, per esempio, In chiave di «fa»).
Per quanto riguarda l'individuazione dei passi paralleli all'interno dell'opera critico-saggistica e narrativa (talvolta il discrimine non è così netto),11 è da osservare come la ripetuta occorrenza di temi, personaggi e lessico contribuisca a rendere coeso e perciò relativamente autonomo il sistema delle prose. D'altra parte, la proposta di modelli o punti di riferimento (parlare di fonti sarebbe, nella maggior parte dei casi, eccessivo) può riflettere un'immagine del Montale lettore di prosa con gusti e orientamenti originali rispetto ai canoni che i critici dell'opera in versi sono disposti ad accreditare: Cecchi e Palazzeschi, Landolfi e Loria, Gide e Larbaud (cronologicamente preceduti da Aloysius Bertrand, più volte evocato in note, lettere e saggi montaliani) hanno inciso, probabilmente, più di Joyce e perfino di Proust, esponenti di «altre possibilità» narrative (così Montale, nel '57, in una lettera a Cecchi)12 cui l'autore della Farfalla non aderisce.13 Né stupisce che Montale, nella stessa lettera, definisca «maestri insuperabili» Maupassant, Turgenev, Čechov e Katherine Mansfield (delle cui opere Montale avrà avuto conoscenza diretta o, più probabilmente, mediata da Cecchi e Vittorini,14) già contemplati tra i capiscuola del racconto breve in uno scritto del '49 (Aggredisce mostri la ragazza di Aquila):

«Il racconto breve, la short story, la così detta novella, in Italia - malgrado una tradizione che va dal Novellino fino a Pirandello - sembra nascere e morire al momento del consumo, cioè sulle pagine dei nostri quotidiani. Il racconto breve, se è veramente artistico, è troppo conciso, intellettuale e formalmente perfetto per poter aspirare agli applausi del grande pubblico. Čechov, Verga, la Mansfield e il nostro quasi dimenticato Albertazzi hanno composto i loro racconti con un rigore che molti credono possibile solo nell'ordine della lirica».15

È forse anche per superare i limiti del «consumo» giornalistico che Montale, pochi anni dopo questo scritto, raccoglierà in volume i propri racconti brevi. Ma intanto, nel '50, i nomi della Mansfield e di Čechov tornano, paragonati stavolta alla scrittrice inglese Ivy Compton-Burnett: «La Compton-Burnett ha perfezionato quell'arte del dire e non dire che da Čechov alla Mansfield sino a certi racconti del genere "New Yorker" costituisce uno dei segreti della narrativa moderna».16 Se si tiene presente che proprio sul «New Yorker» erano apparsi, tra gli anni Trenta e i Quaranta, alcuni racconti brevi di Irma Brandeis17 (la Clizia di Montale) e di Dorothy Parker18 il riferimento appare più chiaro e suggerisce forse un ulteriore termine di paragone anche per le prose della Farfalla.
L'allusiva reticenza che distingue i dialoghi della Compton-Burnett non è distante dai sottintesi nelle battute di certi racconti montaliani, da Le rose gialle a Gli occhi limpidi. Nel '52, infine, il binomio Čechov-Mansfield torna, a proposito di Pavese, in un saggio di rilievo per uno studio sulla narrativa moderna secondo Montale, Il racconto puro:

«L'indirizzo a cui Pavese accenna muove almeno da Čechov, continua con Hamsun e con la Mansfield (e anche, in parte, con Hemingway), ma il nome di Stendhal, che crea personaggi e mitologizza a modo suo, lo lascerei da parte».19

D'altra parte, la vena metafisica e paradossale - del genere Italie Magique, l'antologia di «racconti surreali novecenteschi» allestita da Contini nel '4620 - che attraversa alcuni dei testi cruciali di Farfalla di Dinard, specie quelli in cui la dimensione del tempo perde linearità e il passato precipita nel presente, suscita il confronto con un'altra costellazione di autori, che Montale stesso disegna nella seconda Variazione (1959) di Auto da fé:

«L'angoscioso racconto [L'Aleph di Borges] sembra scritto a quattro mani da Tommaso Landolfi e dal Cecchi della Lettera di presentazione, ed è sostenuto da un sottile umorismo che invano chiederemmo ai più noti autori di racconti straordinari. Sono questi i primi nomi che vengono in mente leggendo il Borges; ad essi si possono aggiungere i nomi di Poe, di Hawthorne, di Villiers de l'Isle-Adam, di Unamuno, di Kafka e forse di Nerval».21

 

§ III. Un genere "in negativo" Torna al sommario dell'articolo

II. Montale e Clizia: short story e romanzo mancato

Ma, nel complesso, è al realismo autobiografico e all'umorismo discreto «stile "New Yorker"» che Montale guarda con più costante interesse, raffinando una vena narrativa che affiora privatamente già negli anni Trenta, intrecciandosi con i modi e i temi della scrittura epistolare e, specialmente, delle lettere a Irma Brandeis. Il ruolo avuto da Irma nel provocare gli esperimenti narrativi di Montale è testimoniato con chiarezza nelle Lettere a Clizia, finalmente leggibili.22 Se nel novembre del 1933 il poeta chiede a Irma di non scambiarlo «per un romanziere italiano» (p. 34), l'attenzione costante per le short stories di lei («Read Baggage, very interesting and nice. I like it, I like the literary woman mancata who has written it. Fortunately, it's not sublime - as Katherine is sometimes», lettera del 27-28 dicembre 1933, p. 43) induce presto Montale a diventare, da semplice lettore, suggeritore di spunti e situazioni. Le idee di alcuni tales usciti sul «New Yorker» sono di Montale, che si compiace con l'autrice (o forse è meglio dire co-autrice) dei risultati e della pubblicazione. Irma ricambia e riconosce il debito, arrivando addirittura a spedire al poeta il denaro guadagnato con i racconti. Tra questi, Nothing serious, frutto insigne della collaborazione a distanza tra Montale e Irma. La pubblicazione delle lettere ha permesso di ricostruire con esattezza una trafila che, fino ad ora, si riteneva avesse un unico senso: da Nothing serious a Sul limite. In realtà, la short story di Clizia è la rielaborazione di un episodio raccontato dal poeta per via epistolare e, anni dopo, da questi recuperato per comporre la prosa poi entrata in Farfalla di Dinard.
Irma, che valorizza gli spunti forniti da Montale, ne vuole forse portare a maturazione il talento narrativo, chiedendogli a quanto pare di scrivere un romanzo a quattro mani: «Cara, scrivere un romanzo con te? E diventare ricco? If I could! Se mi fornisci l'argomento posso provarmi; ma sai che non ho fantasia» (lettera del 12 marzo 1934, p. 63). Pur non accogliendo la proposta romanzesca, il poeta si lascerà convincere a scrivere per Clizia almeno un diario, in cui raccontare la storia del loro incontro: difficile non pensare all'insistenza del personaggio di Gerda che, in Le rose gialle, chiede al protagonista di scrivere un «piccolo racconto» da far apparire «contemporaneamente in venticinque magazines americani». «Farò il mio diario Luglio-Settembre 1934, assolutamente sincero, e te lo manderò»: così Montale nella lettera del 25 giugno 1935 (p. 155). Il diario, di cui le lettere contengono gli stralci, va avanti stancamente; assai maggiore è l'entusiasmo che il poeta dimostra nel regalare a Irma aneddoti di costume fiorentino. Cosicché, quando ormai il carteggio si avvia alla conclusione, e con esso la parte biograficamente più intensa della liaison, Montale potrà scrivere a Clizia:

«Vorrei fare, con questo mio 2° (?) stile ancora quattro o cinque cose per avere un 2° libro con circa una quarantina di poesie, da far pubblicare [...] entro il 1939, a tiratura piuttosto limitata. E poi vorrei provarmi a mutare stile, almeno entro certi limiti, dopo aver taciuto un altro po'. E se non riuscirò scriverò in prosa».23

 

§ IV. Racconto, articolo, autobiografia: organizzazione e stile nella «Farfalla» Torna al sommario dell'articolo

III. Un genere "in negativo"

Farfalla di Dinard, «un libro di prose a mezza via tra il racconto e il petit poème en prose»24 che include testi «quasi tutti autobiografici»,25 aveva, a detta dell'autore, un merito: «proiettare l'immagine di un prigioniero che è nel medesimo tempo un uomo libero».26 L'ossimoro, la contraddizione, la definizione in negativo sono le risorse retoriche cui Montale ricorre più spesso quando scrive del suo primo libro narrativo: «racconti-non racconti» sono chiamate, in Trentadue variazioni (n. 14), le prose della Farfalla. Ciò deriva in parte dal caratteristico understatement montaliano, ma dipende anche dalla coscienza letteraria dell'autore e dall'attenzione riservata alla narrativa contemporanea negli anni che precedono l'ideazione della Farfalla e in quelli che coincidono con il periodo della sua elaborazione. «Qualche approssimazione a pagine di ciò che potrebbe essere un mio romanzo (mai un antiromanzo) si potranno trovare nella mia Farfalla di Dinard, di cui uscirà presto da Mondadori un'edizione raddoppiata»,27 afferma Montale in un'intervista del 1960. Il 25 giugno dello stesso anno compare sul «Corriere della Sera» uno scritto dedicato appunto a Racconto e romanzo. La relazione tra il libro di prose e gli esiti del romanzo moderno è però meglio argomentata in un'intervista a Sandro Briosi:

«Premetto che la Farfalla di Dinard è quasi, e sia pure in modo frammentario, un mio romanzo autobiografico; tutto, in quel libro, è autobiografico, propriamente. Ho quasi scritto un romanzo, dunque; e un "nuovo" romanzo, non un romanzo tradizionale. Devo dire però che, quando leggo un romanzo (nuovo o vecchio) io mi meraviglio che un autore possa svolgere temi che in genere trovo troppo antiquati, ammuffiti, oppure puramente cerebrali, cervellotici, effimeri. Se io avessi saputo, potuto o voluto scrivere un romanzo "moderno", io lo avrei imbottito di fatti, situazioni, cose; con un risultato di fronte al quale un libro già tanto farcito, com'è I falsari di Gide, sarebbe ancora un libro elementare».28

Ai Faux-monnayeurs, "I falsari" (1925), di Gide Montale aveva dedicato una tempestiva e partecipe recensione, nell'ambito delle Note di letteratura francese pubblicate in «Il Quindicinale» del giugno-luglio 1926; il libro di Gide veniva lì definito una «contaminazione [...], un romanzo-saggio, dal seno del quale deve germinare la negazione di sé fino alla parodia».29 È in virtù della compresenza di saggio e invenzione, o di prosa e lirica, che Montale, nella sua attività di critico, mostra di apprezzare la narrativa contemporanea, da Carlo Linati a Emilio Cecchi, da Valery Larbaud ad André Gide, appunto.30 Quando Montale ha dato avvio alla propria attività di narratore, meditando in seguito la composizione di una raccolta di prose, l'incertezza e la parziale sovrapposizione tra generi diversi deve essergli parsa, perciò, opportuna e coerente in rapporto alle sue competenze e ai suoi gusti di lettore e critico.

 

§ V. Memoria privata e racconto della Storia Torna al sommario dell'articolo

IV. Racconto, articolo, autobiografia: organizzazione e stile nella «Farfalla»

Ciò non esclude che tra le prose della prima parte vi sia una coesione nei temi, nei personaggi, nel lessico e nelle immagini che ne riduce notevolmente la frammentarietà, quasi a compensare la mancanza di un romanzo intimamente legato all'ambiente di Genova e della Liguria.31 Del resto, è stato osservato che «il racconto assume una particolare importanza nel Novecento perché diventa la struttura di base del romanzo formalmente più innovativo».32
Inoltre, l'organizzazione definitiva del libro tende a ripercorrere, pur senza acquisire la continuità vera e propria di un romanzo, le tappe e soprattutto i luoghi cruciali nella biografia dell'autore. Nella prima sezione, tra La busacca e Laguzzi e C., avviene ad esempio una significativa svolta, cioè il passaggio dall'ambiente marino a quello urbano. L'avvicendarsi della città al mare suggerisce anche un percorso biografico: Monterosso è il luogo dell'infanzia di Montale, colorata dalle tinte mitiche del ricordo; Genova è il luogo dell'età più matura e cosciente.
Il genere dei racconti montaliani risente anche, spesso in modo determinante, dell'occasione giornalistica. I primi articoli sul «Corriere della Sera» e sul «Corriere d'Informazione» risalgono al '46; nel 1948 il poeta è assunto come redattore. L'esercizio continuo e ufficiale del «secondo mestiere» acuisce la sensibilità per la società e il costume ed intensifica l'attenzione per il contesto; talvolta presenti ma implicite nella poesia montaliana (divengono esplicite soprattutto da Satura in poi), tali qualità hanno ben altra incidenza nelle prose e ne spiegano la componente critica e commentativa apprezzabile anche nei testi in cui prevale la rievocazione privata: si vedano, nella prima sezione, La donna barbuta o Il bello viene dopo.
La consuetudine giornalistica e la stessa differenza istituzionale tra il genere lirico e il narrativo contribuiscono, inoltre, a variare il repertorio montaliano sul piano della forma. I numerosi contatti lessicali tra poesia e prosa33 da un lato mostrano la persistenza di molte immagini e confermano l'identità di certi referenti (per esempio, il paesaggio ligure nelle prose della prima sezione è spesso descritto con termini uguali o analoghi a quelli già impiegati in poesia, specialmente in Ossi di seppia), dall'altro denunciano la diversa attitudine dell'autore nella pratica dei due generi: Montale poeta tende, almeno nelle prime tre raccolte, alla difficoltà o alla densità nelle scelte lessicali; Montale prosatore è, più di frequente, incline alla chiarezza esplicativa. Nel testo prosastico, più esplicito e discorsivo rispetto alle poesie, anche i medesimi vocaboli appaiono infatti più intelligibili, vuoi per la maggior immediatezza dei riferimenti al contesto, vuoi per la preoccupazione didascalica dell'autore. Accade di frequente, ad esempio, che Montale spieghi, subito dopo averle usate, le forme dialettali o ne fornisca l'equivalente in lingua; lo stesso vale, nella Farfalla e in Fuori di casa, per diversi vocaboli stranieri di cui viene data la traduzione in italiano. La diluizione della concentrazione lessicale, necessaria anche in risposta alle esigenze del vasto pubblico dei lettori di quotidiani, è almeno in parte compensata dall'estensione del vocabolario ad ambiti non ancora raggiunti, o marginalmente toccati, nella poesia prima di Satura: la culinaria, la pubblicità, il turismo, la tecnologia, la politica, la musica, il cinema, i mezzi di comunicazione (la radio e, più tardi, la televisione). Nel complesso, il lessico delle prose, ulteriormente arricchito dall'impiego fitto e costante dei nomi propri di persona (dai famigliari alle figure di rilievo storico-politico, dagli artisti, gli attori e i cantanti ai personaggi letterali e teatrali) e di cosa (dalle marche di automobili alle denominazioni dei vini), sembra riflettere un interesse diretto e talvolta polemico nei confronti della contingenza, presente con discrezione assai maggiore nella contemporanea produzione in versi (dove anche l'immissione di elementi lessicali da ambiti originali, come quello della tecnologia, ha comunque un effetto che non si ottiene nelle prose: riscattare dalla provvisorietà le parole e gli oggetti che ne vengono definiti, favorendone l'ingresso nel campo del dicibile lirico).34
Coerente con le scelte lessicali è il livello sintattico delle prose, medio ed equidistante «tanto dagli estremi della semplicità colloquiale, quanto da quelli della ricercatezza letteraria».35 La tendenza a limitare la subordinazione e la scansione in periodi brevi sono i fattori che più degli altri contribuiscono a differenziare lo stile dei racconti montaliani dai canoni del genere «prosa lirica» o «poesia in prosa»36 (cui appartengono, semmai, il breve testo eponimo e conclusivo37 o, fuori dalla raccolta, «Il lieve tintinnìo del collarino...», tredicesima delle Trentadue variazioni).
È possibile che all'origine della medietà formale e dell'aggiornamento lessicale apprezzabili nelle prose vi siano le riflessioni sul ruolo dell'arte nella società contemporanea che Montale viene elaborando proprio negli anni in cui si fa intensa la sua attività di narratore. In Tornare nella strada, uno scritto del maggio '49 incluso in Auto da fé, Montale scrive:

«[Gli artisti] lavorano come i castori, traforando il visibile e l'invisibile, spinti da un impulso automatico o da un'oscura urgenza di sfogo o dal bisogno di costruirsi un riparo buio, sempre più buio, sempre più nascosto. Ma non si salveranno mai se non avranno il coraggio di tornare alla luce e di fissare in volto gli altri uomini; non si salveranno se, usciti dalla strada e non dai musei, non avranno il coraggio di dir parole che possano tornare nella strada».38

 

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V. Memoria privata e racconto della Storia

Certo è che Montale approda alla narrativa in un periodo cruciale, in Italia, per il rapporto tra lirica e romanzo; complici la guerra (che non a caso fa da sfondo a diverse prose montaliane, a cominciare dal Racconto d'uno sconosciuto che inaugura la Farfalla) e la conseguente «smania di raccontare» di cui parlava Calvino,39 negli intellettuali italiani matura una certa insoddisfazione nei confronti della lirica, con cui devono misurarsi innanzitutto i poeti.40 Montale da parte sua, oltre a progettare un terzo libro cui dà il titolo provvisorio di Romanzo,41 si volge alla scrittura di racconti in cui il piano della memoria privata interseca quelli della storia e della società più di quanto non avviene nella sua poesia.
Ma tra quei piani non vi è coincidenza bensì conflitto. Se in Farfalla di Dinard esiste un tema di fondo o un «basso continuo», che peraltro sottolinei la distanza rispetto agli esiti cui approdava negli stessi anni o poco prima il Montale poeta, questo consiste proprio nel cozzo tra la vivida presenza del ricordo privato e la sua marginalità rispetto allo sfondo storico, ai grandi eventi pur costantemente rievocati. Personaggi e fatti trascurabili rampollano spontaneamente dalla memoria dell'autore: artisti bohémiens di una Genova primo Novecento che tanto devono all'immaginario melodrammatico dell'autore, snob anglofili che vivono seminascosti in remoti abitati del centro di Firenze, improbabili dame dedite a strani culti mondano-esoterici. Niente a che vedere con i tiranni in parata della Primavera hitleriana e, ancor meno, con la creatura più che umana (tra la Beatrice di Dante e il Cristo dei Vangeli) che nella Bufera si fa carico dei destini dell'umanità intera, dominando la Storia fino ai limiti della significatività. Appunto: tra Bufera e Farfalla, pur così prossime cronologicamente, la Storia per Montale sembra aver esaurito il suo significato. Dopo la catastrofe bellica, la Storia vista dall'alto come traccia orientata verso un esito lascia il posto alla Storia osservata dal basso. In questo, la prosa anticipa la poesia: occorreranno infatti ancora alcuni anni perché, in Satura, anche i versi montaliani registrino pienamente tale presa di coscienza. Ciò non è segno del disinteresse dell'autore verso i fatti del suo tempo, ma riflesso di una presa di posizione abbastanza netta contro ideologie e visioni massificanti della Storia, secondo le quali ognuno deve essere parte di un inesorabile meccanismo. Non a caso, l'avversione all'uomo-ingranaggio è motivo ricorrente nella Farfalla (si veda La donna barbuta) e in altre coeve prose montaliane.
La questione della memoria permette da un lato di accostare - certo problematicamente e con prudenza, dopo aver letto i pronunciamenti al riguardo dello stesso autore - la narrativa montaliana alle strutture del romanzo modernista europeo (che pare talvolta emulato anche nella complessità dei livelli narrativi e nelle dinamiche tra le diverse voci dell'autore, del narratore e del protagonista: si veda, ancora una volta, Racconto d'uno sconosciuto), dall'altro di cogliere la continuità tra le sezioni del libro, sfuggita ad alcuni tra i primi interpreti della Farfalla.
La suddivisione in quattro parti corrisponde in effetti a una scansione tematica abbastanza netta: la prima parte «è riempita di ricordi d'infanzia o di gioventù (o comunque, come con Le rose gialle, da memorie domestiche) [...]»; la seconda «raccoglie in prevalenza ritratti di quegli snob che per Montale rappresentano gli estremi e disperati episodi di sopravvivenza di una civiltà moribonda [...]»; la terza «è dedicata alle "reliquie", vale a dire agli animali e agli oggetti intorno a cui si coagulano le sole possibilità di resistenza, di ancor vitale scatto della memoria [...]»; la quarta e ultima «si articola in una serie di quadretti complementari, vere e proprie tessere del mosaico-Montale, in cui Montale stesso ci si presenta alla luce dei suoi vari tic esistenziali».42 Vi è da aggiungere come la successione delle parti rifletta anche, in modo paradigmatico, le fasi cruciali nella biografia dell'autore e l'avvicendamento delle sue dimore: Genova e Monterosso, Firenze, Milano (cui rimandano anche le prose di viaggio, originate dalle "missioni" giornalistiche per conto del quotidiano milanese).
Tale articolazione, non così evidente e forse non ancora nei progetti dell'autore all'epoca della prima stampa (1956),43 più che mettere in luce l'eterogeneità del libro, sottolinea la varietà nella declinazione di temi che mutano poco, o non mutano affatto. Lo spaesamento esistenziale che il protagonista avverte dinanzi al ricordo degli affetti infantili ormai scomparsi e il rimpianto per la dissoluzione della cultura del melodramma e dell'operetta, celebrati nella prima parte, preludono alla commemorazione, nella seconda parte, della civiltà degli snob stranieri a Firenze, degli ultimi umanisti allontanati, emarginati o straniti dalla guerra e dalla conseguente banalizzazione della società, cui Montale reagisce con un atteggiamento, definito efficacemente «conservatorismo apocalittico».44 Anche se le prose nella terza e quarta parte rielaborano, talvolta in forma indiretta e cifrata, un'esperienza più complessa e sfaccettata, molte sviluppano lo stesso filo conduttore delle altre sezioni, ora precisando le ragioni storiche (il fascismo, innanzitutto) del crollo dei valori e dei costumi fin de siècle, ora trasferendo la condizione di outsider e sopravvissuto dagli interlocutori al protagonista, ritratto in uno stato di costante straniamento ed eccentricità che ne rendono gli atti incomprensibili ai più (L'uomo in pigiama, Farfalla di Dinard) o letteralmente fuori dal mondo (Sul limite). Ne risultano spesso situazioni delle quali il narratore sottolinea l'elemento grottesco e umoristico, che Montale ha in seguito ricondotto a modelli anglosassoni:

«Ma essendo un grande ammiratore dei saggisti inglesi ed essendo dotato di quel sense of humour di cui raramente mancano i liguri [...] pensai che avrei forse potuto parlare di me e delle mie esperienze, senza annoiare troppo i lettori con la vera e propria autobiografia di un uomo comune - un uomo che ha sempre tentato di muoversi attraverso la storia del suo tempo come un clandestino».45

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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