Stefania Ricciardi
Intervista a Simone Barillari - Iperfinzionalità del mondo e autentificazione del reale

 

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Simone Barillari1, nella sua attività editoriale e critica si è occupato, tra le altre cose, dell'intersezione tra fiction e non-fiction. Si sente di dare una definizione di fiction e non-fiction?

Non lo so. Credo sarebbe facile e insufficiente darne una distinzione che si appoggi solo ai contenuti. Penso cautamente che a distinguere queste due categorie, enormi e incerte, sia per esempio un diverso percorso tra la realtà e la pagina: in narrativa la pagina muove spesso dalla realtà, nella non-fiction verso la realtà.

Il progetto di Alet guardava all'intersezione tra fiction e non-fiction. Perché questa scelta?

Perché è una regione letteraria sottoposta a una febbrile esplorazione. A lungo, in letteratura, sono stati abitati, in modo parallelo e distinto, i territori della finzione e della non-fiction, ossia del romanzo - chiamiamolo così - e di generi invece come la saggistica, l'autobiografia classica, il reportage di viaggio, il diario. Certo, è sempre esistita una regione di confine dove si appanna ogni distinzione tra queste due categorie, ma fino a non molto tempo fa non sembrava annoverare molti esempi, mentre si direbbe ormai evidente anche a un rapido sguardo che da un certo periodo le opere in questa regione di confine - forme narrative che modellano contenuti di non-fiction, ibridazioni di saggistica e romanzo, e così via - stanno particolarmente crescendo in numero e complessità.

In un'intervista di qualche tempo fa2 a proposito di Ben Marcus e Philippe Forest, due autori che aveva scovato per Alet, lei ha parlato anche di autofiction cioè non la riproduzione di sé, ma la diversa produzione di se stessi.

Sì, e proprio questo ha a che vedere con la verità così come viene percepita. «Si commette l'errore di credere», ha detto una volta Ben Marcus, «che a comporre la vita siano le cose che succedono. Forse la vera vita è fatta di ciò che non sappiamo, delle idee e degli stati d'animo che non abbiamo ancora confermato o nemmeno immaginato». Spesso infatti, nel formarsi di una coscienza, il possibile è come un'escrescenza del reale, che pesa e preme come altra realtà in uno stato di dolorosa quiete.

È opinione diffusa far coincidere la nascita della non-fiction moderna con A sangue freddo (1966) di Capote. È d'accordo? Cos'ha apportato di particolare quest'opera?

Quell'ossimoro di Truman Capote, «romanzo non di finzione», è un epicentro importante del fenomeno. Non era la prima volta che un sanguinario fatto di cronaca - una famiglia sterminata da due giovani assassini psicopatici - veniva narrato in modo in tutto e per tutto vero e documentato proprio come avrebbe fatto un giornalista: eppure era diventata un'opera di grande letteratura. Il suo procedimento, spiegò Capote, era una sorta di nuovo incrocio tra l'"orizzontale" oggettività dei fatti nel giornalismo e la soggettività "verticale" della letteratura. E se da una parte Capote pretese di aver inventato un genere e di battezzarlo, vi fu chi cercò di ridurre tutto a un bell'articolo lungo quattrocento pagine: alla fine può essere anche vero che altri avevano già fatto qualcosa di simile, ma nessuno dovrebbe negare che Capote lo fece con consapevolezza, perfezione e clamore senza precedenti. L'entità di un'opera sono anche le opere di altri autori a dimostrarla, e quello che dopo Capote scrissero Mailer, Wolfe o Plimpton smentisce che si sia trattato solo di un enorme e bellissimo articolo.

Quali le sembrano gli autori più interessanti che si muovono in questa particolare zona grigia?

Per restare agli ultimi dieci o quindici anni, autori come W.G. Sebald o William Vollmann hanno creato oggetti letterari a se stanti - come definire testi come Austerlitz, Gli anelli di Saturno, Storie di farfalle o il ciclo dei Sette sogni? - e soprattutto sempre più autori di fiction e anche di non-fiction scrivono opere che ricadono in questa regione intermedia. David Foster Wallace, forse il più dotato narratore americano, ha scritto uno strano saggio scientifico - una storia del concetto matematico di infinito - che ha strutture da romanzo. Nelle Ore di Michael Cunningham, una parte biografica su Virginia Woolf viene come accresciuta e commentata dalla vicinanza alle vite di altre due donne mai esistite, e nessuno definirebbe quel libro una biografia letteraria malgrado la ricostruzione rigorosa degli ultimi giorni della scrittrice. Così come, d'altra parte, è inutile chiedersi se quelli che va scrivendo da tempo un autore come Oliver Sacks siano saggi di neurologia o racconti.

Lei ha citato molti autori stranieri senza mai pronunciarsi sugli italiani. Può farci qualche nome?

I nomi della non-fiction che mi sembrano più importanti sono quelli di Moresco, Mari, Trevi, Affinati e Albinati, ma so di non avere una conoscenza dello scenario letterario italiano sufficiente a esprimere valutazioni approfondite. Sto leggendo con grande interesse Dies Irae di Giuseppe Genna e considero Le variazioni Reinach di Filippo Tuena una delle opere italiane più notevoli e trascurate degli ultimi anni. È un libro in cui due indagini procedono in parallelo: quella dello scrittore e al tempo stesso la saga dei Reinach, una famiglia ebrea deportata durante la seconda guerra mondiale. Si colgono quindi i movimenti di Tuena stesso, che parla di sé alla terza persona come "lo scrittore", ma anche il lento scivolare dalle altezza della più agiata e colta borghesia parigina fino alla deportazione nei campi di concentramento.

Negli scritti recenti che muovono dalla realtà si nota un taglio per lo più autobiografico. Come spiega questo fenomeno?

Intanto direi che il concetto di memoir sta subendo profonde mutazioni. La prima cosa da notare è che al memoir, che un tempo era quasi sempre un sigillo nell'epilogo di una carriera, si sono dedicati in quest'ultimo periodo romanzieri tra i trentacinque e cinquant'anni, ossia all'apice delle loro forze creative. Autori che hanno alle loro spalle opere di fiction importanti. Penso a nomi come Martin Amis, Hanif Kureishi, James Ellroy, Rick Moody, Donald Antrim, Sherman Alexie, solo per restare nell'area angloamericana. Spesso aleggia al centro di questi memoir una figura spettrale, un padre o un antenato che viene cercato, e dalla cui ricerca sembra procedere anche la conoscenza che l'autore passo dopo passo fa di sé. Si ha la sensazione, leggendo questi libri, che dalla memoria famigliare che mettono a nudo avrebbero potuto essere attinti infiniti personaggi di finzione e che quel materiale intimo avrebbe potuto essere moltiplicato e nutrire ancora più storie e pagine di quanto abbia fatto, ma che ci sia stato questa volta pudore e riluttanza ad agire così, a sottoporsi al rito di storpiare i fatti riconoscibili, mescolare le identità, modificare i nomi. Che ci sia stata perfino della stanchezza, e sfiducia se non fastidio per il romanzo, per l'idea di levigare in una finzione elegante il nucleo più antico e incandescente delle proprie memorie - «dovrei fondere i figli di mia sorella in uno solo, oppure invertire le età, dovrei far diventare marito il fidanzato, dovrei romanzare il tutto, fare in modo che l'artificio creasse una superficie elegante, dovrei disporre ordinatamente gli eventi, dovrei rendere la morte di mia sorella armoniosa e persuasiva», così scrive Rick Moody alla fine di Demonology.

Il memoir come fuga dal romanzo, dunque?

Sì, credo proprio che si tratti di quello, di un ripiegamento nella memoria come in una sorta di rifugio. «Fiction comes from the front of your mind, memoir comes from the back of your mind», ha detto Martin Amis. Non è del tutto traducibile, purtroppo. È un po' come se dicesse: «la finzione nasce davanti agli occhi, il memoir nasce dietro le spalle».

Oppure: dal retro della mente.

Esatto, mind in inglese ha vari significati: davanti agli occhi della mente, davanti allo sguardo razionale, ma anche alla consapevolezza, all'essenza di sé... È una frase molto bella, perché è davvero come se si potesse scrivere di sé soltanto ad occhi chiusi. E a questo genere di confessioni snudate si può credere, si sente di poter credere - in fondo c'è sempre qualcosa di disperato in chi accetta di parlare di sé. È il cosiddetto patto autobiografico con il lettore, come l'ha definito Lejeune, no? Si crede in modo istintivo, naturale, senza dover intimamente sospendere l'incredulità.

Bella quest'espressione della sospensione dell'incredulità. Si riferisce al willing suspension of disbelief di Coleridge?

Sì. La sospensione dell'incredulità, che nell'Ottocento era la grande prerogativa del romanzo - creare uno spazio in cui abbandonare la diffidenza necessaria a sopravvivere - è diventata ormai una sorta di oppiaceo, perché troppe volte siamo costretti durante la nostra giornata a credere attraverso narrazioni continue, al di là di quello che forse possiamo sopportare. C'è una frase di Breton, in uno dei diari, mi pare, che ha una sua violentissima bellezza: «Se l'uomo ha bisogno di menzogna, dopo tutto è suo diritto!... Ma io non dimenticherò mai ciò che comporta di violento e di meraviglioso la volontà di aprire gli occhi, di vedere in faccia ciò che succede, quello che è». Così come, d'altra parte, questa fiducia che sottende il patto autobiografico è stata anche l'oggetto di interessanti mistificazioni.

A proposito di patto autobiografico, mi viene in mente un libro che ha fatto molto discutere: Lunar Park (2005) di Bret Easton Ellis. Cosa ne pensa?

Penso che Lunar Park sia il meno noto, eppure forse segretamente più ambizioso, dei libri di Bret Easton Ellis. Lo ha scritto a poco più di quarant'anni, innestando una rievocazione in prima persona del suo passato e della sua carriera di scrittore alla descrizione diaristica di una serie di eventi a cavallo tra l'ottobre e il novembre di qualche anno fa. Quando ho preso in mano il libro, conoscevo abbastanza bene la letteratura di Ellis, mentre della sua vita avevo quel genere di conoscenza grigia e imprecisa, quella sorta di risciacquo di informazioni pubbliche e aneddoti lievemente falsi che ristagna intorno a qualsiasi nome internazionale di qualche notorietà. In questo caso: l'esordio giovanissimo, quando era ancora all'università, l'amicizia con il gemello letterario Jay McInerney ai tempi del brat-pack, della generazione anni Ottanta dei giovani scrittori da jet set, e i problemi con l'alcol e la cocaina. Tutto questo, con dettagli, ferocia e grande eleganza, occupa anche le prime quaranta pagine del libro. È una confessione incalzante, a cui si crede - o almeno a cui io ho creduto - senza riserve: da lì invece, a piccoli passi e sempre in prima persona, il libro diventa abilmente una storia dell'orrore, cui è stato però premesso che «tutto ciò che leggerete è realmente accaduto, ogni parola è vera». Questo è anche quello che mi sono ripetuto per un po', ed è solo intorno a metà della storia che non ho potuto fare a meno di mettere giù il libro e andare a cercare informazioni sulla vita dell'autore. Ho così scoperto in fretta, per esempio, che Ellis non è mai stato sposato con un'attrice di nome Jayne Dennis - che non è mai stato sposato e che non esiste nessuna Jayne Dennis - e che nemmeno ha mai avuto un figlio, e questo è stato sufficiente a cancellare la verità di due dei tre protagonisti del libro. All'improvviso quel che di vero restava del terzo, ossia di Bret Easton Ellis stesso, era diventato impossibile dirlo, e mi sarebbe stato ancora impossibile, dopo altre ricerche, deciderlo con sicurezza alla fine del libro, perché come nelle prime quaranta pagine più autobiografiche Ellis aveva inserito più volte Jayne Dennis e il figlio, così anche nel corso della storia dell'orrore, sfacciatamente falsa, sono sempre frequenti ricordi e riferimenti al passato che hanno invece sembianze plausibili. Era chiaro a quel punto che Bret Easton Ellis aveva tentato un esperimento quasi botanico: unire il memoir, genere letterario in cui è più alta la fiducia, se non la remissione, del lettore al narratore, con il genere horror, dove invece aleggia una costante sensazione di irrealtà e un codice già prescritto di figure e situazioni - Ellis fa impunemente uso, per dire, anche di un bambolotto assassino. L'intero ammontare di fiducia cumulato nella prima parte viene così investito per rendere il resto del libro più inquietante, perché è più difficile scegliere cosa non credere. Perfino quando la finzione si fa scoperta e anche ostentata, sopravvive nel retro del pensiero l'istinto di questa domanda: quanto di vero ci sarà sul fondo? Ecco allora il grande tema letterario tentato da questa autobiografia impura: una riflessione sull'attendibilità del narratore: forse non a caso, il grande tema morale di Lunar Park è la responsabilità dei padri.

Sì, senz'altro. Ma un altro "grande tema morale" potrebbe essere quello di prendere per i fondelli il lettore facendogli credere cose aberranti poi sistematicamente smentite alcune pagine dopo. In Francia è successo un po' questo con Christine Angot. Crede che in letteratura tutto sia permesso o c'è comunque un limite?

Non ho letto Christine Angot, ma credo che in letteratura non ci sia mai nessun limite se non la riuscita dell'opera. Ancora meno, dunque, limiti morali o etici. Al tempo stesso, però, ecco il rischio - rischio morale ed estetico - di abusare dell'autorità che l'autore detiene, di mentire al lettore per potergli consegnare la menzogna, di farne soltanto una sfida, un gioco esangue, una geometria troppo sottile. C'è facilmente il pericolo di un'intelligenza che ricama nel vuoto - e forse si può insegnare davvero solo quello che si è sofferto, non quello che si è capito.

Crede che queste scritture spurie siano dettate da diverso modo di porsi dell'autore rispetto al passato?

Sì, anche. All'origine di alcune opere importanti e recenti di non-fiction, mi pare spesso di intravedere una posizione malferma dell'autore rispetto alla materia di cui scrive, un'autorità minata e incerta, una cautela dello sguardo. Si aprono faglie nella memoria, la conoscenza non è stata colmata e non potrà esserlo, sono insufficienti i documenti, il loro numero e la loro affidabilità. È un autore debole, congetturale. Rimargina la memoria con ipotesi, si contraddice, dichiara la propria insufficienza e la vaghezza nel contorno dei suoi ricordi. Confessa con imprecisione, suppone a suo rischio. Così dunque la posizione di chi scrive non è quella di chi sa, ma di chi scopre: spesso lentamente, a fatica, e quasi a tentoni. Ed è segno di una forza particolare essere deboli, saperlo, e lasciarlo venire fuori. Questo genere di autore espone un'indagine più che una teoria, e il corso dell'indagine più che i suoi esiti. A mano a mano vengono presentate le tracce, riprodotti brani autentici, fotografie, disegni, che spesso però lasciano non meno di prima interstizi, dubbi e lacune. Scrivere diventa anche fare buon uso di quelle lacune, di quelle discontinuità ammaliatrici che esortano il lettore a immaginare in modo non molto diverso da come immagina da parte sua l'autore. E a tratti il libro sembra formarsi e avvenire davanti agli occhi dell'uno come dell'altro.

Cambia anche la posizione del lettore, dunque?

Sì, anche il ruolo del lettore risulta modificato, perché la sua partecipazione aumenta quanto più l'autorità dello scrittore diminuisce. Gli vengono posti di fronte dei dati, e gli è richiesto di mettere alla prova ciò che è scritto, di decidere cosa credere, di formulare giudizi di possibilità. È una sorta di lettura creatrice, perché spesso non esiste una storia, ma fatti o momenti isolati che, come punti su un piano, possono essere uniti tra loro in trame diverse. Ci si può spingere a dire per questo tipo di letteratura qualcosa di simile a quanto si è detto dell'arte moderna, dove il pubblico viene esortato a creare significato intorno all'opera, ad attribuirle un senso che provenga dall'esterno dell'opera stessa - certe opere sembrano chiedere a chi guarda il loro significato.

Qual è il percorso della non-fiction tra realtà e ricordo?

Questo genere di non-fiction, proprio per la sua natura frastagliata, digressiva, mista di fatti e impressioni, riproduce meglio di qualunque altra forma narrativa l'andamento della memoria, la struttura scheggiata dei ricordi. Se si spinge allo spasimo questa considerazione, si può perfino pensare che il romanzo realista cerca di essere fedele alla realtà essendo fedele allo spazio - alla veridica ripetizione dei luoghi, dei volti, degli oggetti - mentre l'autofiction arriva a essere fedele alla realtà soprattutto essendo fedele al tempo. Questo riporta anche a quello che diceva già Truman Capote - l'oggettività orizzontale dei fatti, la soggettività verticale della loro rievocazione. Niente come una narrazione realista convoglia la storia in una struttura temporale, e qualsiasi ordine cronologico è solo una convenzione, una necessaria falsificazione del procedere del tempo. Una delle caratteristiche più felici della scrittura di sé è la capacità di riguadagnare l'istante della scoperta: non solo il lettore ma l'autore stesso sembra assistere parola dopo parola al farsi di una consapevolezza che prima non esisteva, al delinearsi di una rivelazione nel momento in cui avvenivano la scrittura e il ricordo. Non c'è mai niente di vero in ciò che si vede per la prima volta, in ciò che non si è ancora ricordato. La realtà, ha scritto Proust, non si forma che nella memoria. E forse è proprio così, non c'è mai niente di vero se non nel ricordo.

Secondo lei, si è più liberi scrivendo fiction o non-fiction?

In un saggio dei primi anni Cinquanta dedicato ad alcune corrispondenze giornalistiche di Henry James, W.H. Auden scrive che nel reportage «l'artista viene privato del suo più prezioso privilegio, la libertà d'invenzione; riuscire a trarre un significato da eventi di storia personale senza mai distaccarsene, con la sola libertà di scegliere e mai di modificare o di aggiungere, richiede un'immaginazione assai superiore». Ecco dunque i tre gradi di libertà rispetto all'uso del ricordo in letteratura: scegliere, modificare, aggiungere. Ed è innegabile quello che sostiene Auden: chi rinuncia alla finzione, deve rinunciare a modificare e aggiungere. Dunque, a due gradi di libertà. In realtà, mi sembra che, cinquant'anni dopo questa frase di Auden, l'intensificarsi di sperimentazioni letterarie nella non-fiction dichiari una sensazione di prigionia che porta ormai con sé il romanzo. Una sensazione che nasce, almeno in parte, dall'onnipresenza della narrazione romanzesca nella vita contemporanea, sotto qualsiasi specie. Oltre che da un sentore di sfinimento delle possibilità, di esaurirsi delle combinazioni. Aumenta ogni giorno la quota di realtà che conosciamo già sotto forma di finzione, dopo che è già stata narrativamente trattata. Anche questo, io credo, dà ad alcuni autori un'impressione di claustrofobia e forzatura negli atti di modificare e aggiungere al ricordo. Il problema, ha detto qualcuno di loro, non è imitare: è imitare inconsciamente. Fermarsi a quell'unico, fondamentale gesto di scegliere, e perfezionarlo, contiene qualcosa di solido ed essenziale, e «richiede un'immaginazione assai superiore». È una sorta di costrizione liberatoria. Dopo aver scritto A sangue freddo, Truman Capote disse in un'intervista: «Mi piace che la verità sia la verità, in modo tale che io non possa cambiarla».

Concludiamo con uno dei paradossi della non-fiction: perché una storia vera rischia spesso di passare per fittizia?

È vero. Il fatto è che la finzione dev'essere sempre verosimile, la verità no. «Fiction is obliged to stick to possibilities, truth isn't», ha detto una volta Mark Twain - la finzione dev'essere perfettamente credibile, è nella realtà che può ancora succedere qualsiasi cosa. Per paradosso, quanto più un evento viene piegato ai canoni del realismo, tanto meno sembra reale. Niente di vero accade in tre atti. Nella nonfiction di cui parliamo, invece, l'impiego di tecniche della finzione intende riprodurre non la verità, ma la percezione della verità. Aspira non a essere verosimile, ma veridico - a offrire non tanto l'idea quanto il sentimento della verità.

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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