Eleonora Conti
Intervista ad Alessandra Neri

 

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Alessandra Neri, romagnola, insegnante di Lettere al liceo classico, classe 1970, ha esordito quest'anno col romanzo Nove mesi, edito dalla casa editrice sarda Il Maestrale. Di cosa parla questo romanzo?

È la storia di una giovane donna malata di cancro che viene ricoverata in una clinica per curarsi, un ricovero che diventa per lei un momento di presa di coscienza della realtà del malato, della condizione di "diversità" rispetto alla vita di prima, di cui comincia un inesorabile bilancio.


Titolo ingannevole e un po' crudele, sia per il personaggio-protagonista sia per il lettore ignaro... Spiegacelo.

Il titolo è effettivamente crudele, perché costringe al confronto tra due eventi della vita antitetici, la gioia della gestazione e della nascita di un figlio e il dolore di una malattia che può essere così fulminea da condurre alla morte in pochi mesi. Volevo rimarcare quanto possa essere beffarda a volte la sorte. C'è una scena in particolare che mette davanti come in uno specchio due donne, la ginecologa che dà il responso positivo dell'ecografia al seno e la protagonista che la ascolta. Il caso vuole che la dottoressa sia incinta e quindi porti la vita dentro di sé, come la protagonista porta invece "la morte addosso", come nel dramma pirandelliano.
Inoltre l'idea della gestazione era congeniale per un altro motivo. Il romanzo, infatti, si presta ad una lettura meno realistica, può essere visto come la storia di una crescita mancata, quello che in psicanalisi si chiama il "processo di individuazione". La protagonista non riesce a prendere commiato dal suo passato, dalla sua infanzia, dall'affetto protettivo e stringente dei genitori, dal rapporto d'amore ormai sfibrato a cui non riesce a mettere la parola fine. Il ricordo diventa il solo rifugio cui abbandonarsi per fuggire dal presente, come una condanna a vivere sempre con la testa girata indietro. Mi viene da pensare all'Inferno dantesco e alla punizione degli indovini della 4° bolgia che scontano la presunzione di aver voluto vedere troppo in là nel futuro.


Il romanzo è diviso in tre parti, la prima delle quali di gran lunga più ampia delle altre. Questa tripartizione coincide con gli spostamenti della protagonista e c'è una sorta di accelerazione man mano che ci si avvia verso il finale. Una specie di inesorabile crescendo o un rotolare verso il basso, verso l'abisso, sottolineato da parti sempre più smilze in termini di pagine. È così che l'hai concepito o c'è dell'altro? Illustraci la struttura della vicenda.

Il racconto procede attraverso una sorta di impoverimento di particolari e di descrizioni, verso la fine, perché la capacità della protagonista di "vedere" al di fuori di sé diminuisce e si acuisce invece la percezione interna; la donna smette di lasciarsi catturare da eventi esterni e si concentra sul suo male, sulla sua sofferenza. Rispetto all'inizio - penso alle passeggiate in città o ai dialoghi con le altre degenti -, la ragazza si chiude in un silenzio e in una parsimonia di gesti che coincidono con un ritmo più accelerato verso il finale. L'idea di un rotolare verso l'abisso è calzante, anche qui penso alla struttura a "cono" dell'Inferno dantesco.
Se devo dire la verità avevo pensato ad un lungo e unico monologo, ma l'editor del Maestrale mi ha suggerito di spezzare il racconto in tre parti per dare una scansione temporale e per consentire al lettore di prendere fiato, dato che la lettura potrebbe essere dura, impegnativa sia per il tema trattato che per lo stile, che è volutamente secco, tagliente.


La vicenda è narrata in prima persona. Se ti sei ispirata a una vicenda reale, però è vero che nella realtà vestivi i panni di chi assisteva la malata, mentre nel romanzo scambi i ruoli: tu che scrivi metti in scena una malata che dice "Io". Come hai lavorato per poter scrivere dal punto di vista rovesciato non di chi guarda ma di chi vive la malattia?

La persona che ho assistito, una mia zia, aveva, quando ha vissuto quegli eventi, pochi anni più di me e quasi l'età che ho io oggi. Il processo di identificazione è perciò scattato da subito. Ho sempre pensato che poteva essere successo a me e a come avrei reagito. Diciamo che mi sono fatta portavoce della rabbia che immagino provasse e che in realtà provavo io standole vicino e vedendo quello che poi ho descritto. Una signora mi ha chiesto se avevo fatto un'operazione di trascrizione di confidenze che mia zia mi aveva fatto o se mi ero inventata tutto. In effetti non so se vivendola in prima persona, avrei scritto lo stesso libro. Probabilmente no. Ho dato voce, ripeto, a un sentimento di rabbia e di disillusione che a volte viene sopito per la speranza che le cose non siano così, che vadano diversamente, che il destino non si accanisca così crudelmente.
Ho adottato la prima persona perché mi sembrava più efficace, più intima, più introspettiva e perché ho cercato di vestire i panni di qualcuno che non nutre più speranze e si sente braccata dalla vita, come se avesse scommesso con la vita e avesse perso.
All'inizio avevo pensato a un dialogo con un misterioso personaggio, di cui è rimasta traccia nella prima visita che la protagonista riceve in ospedale, che era poi la morte come ne Il settimo sigillo di Bergman, un'entità superiore che vinceva dialetticamente. Poi ho abbandonato il progetto.


L'io narrante fa un bilancio della sua vita, registra il presente, si chiede cosa gli riserva il futuro, fino all'ultima riga, tragicamente risolutiva. Si definisce spesso come un personaggio irrisolto e non solo a causa della malattia. Chi era la tua protagonista prima della malattia?

Sì, la malattia è solo qualcosa di esterno, di obiettivo, per una malattia più profonda dell'anima, una sorta di incapacità a vivere, a bagnarsi nello scorrere della vita. Personaggio irrisolto perché non riesce a esaudire i suoi sogni, a sbocciare, a crescere, a emanciparsi da un passato che diventa sempre più idillico nella misura in cui non può più far male. Il passato come rifugio consolatorio perché è un "presente" ormai lontano, che si può aggiustare, edulcorare e intrappolare come fa il ragno con la mosca, che la avviluppa nella sua bava finché non ha più la forza di dibattersi.
Lei parla di un varco, di un fosso che non è capace di oltrepassare, di un vetro dietro il quale vede gli altri vivere e che la separa anche dagli affetti e soprattutto dall'amore. Una condanna a uno stato di solitudine e di anossia di affetti.


Nella sua vita mi sembra centrale il rapporto con la madre...

È proprio il mancato distacco dalla madre, il mancato taglio di separazione di un rapporto simbiotico che porta la protagonista a non crescere e a non essere in grado di affrontare la vita. Questo amore troppo stretto e soffocante che impedisce a un'altra vita, quella della figlia, di svilupparsi, senza nuocere a quella della madre. La notizia di cronaca delle due sorelle siamesi iraniane che scelgono di rischiare, affrontando un intervento che tenti di dividerle, colpisce la protagonista perché loro dimostrano un coraggio che lei non ha avuto.
Il tema della maternità è una delle mie ossessioni. Ho letto molto in proposito sulla maternità negata, inadeguata, ed è anche l'argomento del romanzo che sto scrivendo ora.


La vicenda è ispirata a un'esperienza personale, vissuta, tragica. Ma dietro a un libro, specialmente se appartiene a un genere letterario, come nel caso di questo, che comunque chiami "romanzo", ci sono anche altri libri: modelli, fonti, origini. Il primo che mi pare si percepisca, fin dalla prima pagina, è Se questo è un uomo: vuoi per l'evidente parallelo che istituisci fra ospedale e Lager, vuoi per lo stile asciutto, tagliente, lucido che riflette lo sguardo di chi vorrebbe capire perché gli sta capitando tutto questo e la consapevolezza che non c'è spiegazione. Anche il tema della dignità umana da conservare ad ogni costo mi ricorda Levi. Altri libri sottesi al tuo romanzo?

Letture sulla sofferenza e il dolore, sulla diversità, mi hanno sempre colpito. Sono i libri cui sono più affezionata. Penso a Il diario di Jane Somers o a Il quinto figlio di Doris Lessing che è una scrittrice che amo molto, o a Una donna spezzata di Simone De Beauvoir, o a In riva al mare di Veronique Olmi; alla malattia mentale ne Il male oscuro di Giuseppe Berto o all'handicap in Nati due volte di Giuseppe Pontiggia.
Senz'altro Primo Levi è stato il nutrimento principale, soprattutto I sommersi e i salvati e, come dicevi giustamente, non solo per la condizione del Lager che ho messo a confronto con quella dell'ospedale, e di tutti i centri di segregazione mi verrebbe da dire, ma soprattutto per la lingua, la scrittura, così lucida e se vuoi impietosa, analitica e secca. Come avrei voluto fosse, senza fare paragoni presuntuosi, la lingua di Nove mesi, con una corrispondenza totale tra l'argomento e la scrittura, entrambi duri.
Una lettura illuminante è stata invece Asylums di Ervin Goffman sulle istituzioni sociali, gli ospedali psichiatrici in particolare, che, secondo l'autore, portano ad un processo di svilimento e degradazione dell'essere umano come accadeva per i Lager.


E poi c'è la cultura classica, la tragedia greca...

Ci sono molti riferimenti classici perché quella è la mia formazione. Ma alla tragedia in particolare perché in effetti si tratta di una tragedia dove, come nel teatro greco, lo spettatore conosce già l'esito degli eventi, ma assiste anche all'impotenza dei personaggi di fronte al Fato. Solo il personaggio è ignaro della sua sorte e precipita passo dopo passo verso la fine. Credo che nel mio romanzo si capisca subito quale sarà il finale, anche se qualcuno mi ha domandato se non ho avuto la tentazione di "salvare" il mio personaggio.


Il corpo nella malattia è un tema centrale del romanzo. E soprattutto il corpo di una donna che la tradisce nel fiore degli anni e proprio in una parte che è strettamente legata alla femminilità, il seno. Un tema molto duro e trattato, mi sembra, senza mai cedere alla compassione, al sentimentalismo. Senza cadere in distinzioni di gender - a cui credo poco - c'è tutta una produzione letteraria al femminile che si è confrontata col corpo delle donne e ha offerto della donna un'immagine diversa da quella tradizionale, che l'ha ancorata al corpo senza scadere in stereotipi (la mamma tradizionale, la moglie, la buona figlia): penso, in anni recenti, senza arretrare fino al femminismo, a Elena Ferrante, alla poetessa cesenate Mariangela Gualtieri, per restare all'Italia e a sguardi lucidi e a una scrittura misurata o spietata ma mai esibita, come mi pare possa essere definita anche la tua. Mi convince meno Margaret Mazzantini, dove la durezza a volte mi pare appunto esibita, fin dal romanzo d'esordio, Il catino di zinco. Tu ti senti vicina a qualche scrittrice in particolare, ti inscrivi in un filone, riconosci qualche debito nel trattare questo tema?

Scrittura al femminile, sguardo al femminile, annosa questione. Ti risponderei che ci sono i maestri, gli autori che si prediligono, i modelli e che non importa se siano uomini o donne. Anche se il maggior debito di riconoscenza ammetto di averlo nei confronti delle due scrittrici che citavo prima, Simone De Beauvoir e Doris Lessing. Ne Il diario di Jane Sommers c'è una scena in cui la protagonista, Jane, una giovane donna elegante, lava il corpo di una vecchia sporca e abbandonata da tutti, Maudie, sulle prime con un sentimento di ribrezzo e quasi di schifo, poi sempre più di rispetto e di affetto per la nudità e l'intimità violata di quella vecchia arrabbiata.


Nove mesi è il tuo romanzo d'esordio, è uscito da pochi mesi ma lo hai scritto cinque anni fa. Hai lavorato o stai lavorando a qualche altro progetto? Puoi parlarcene? Hai già in mente una sorta di tuo percorso di scrittura, temi su cui cimentarti o qualche altro interesse o qualche altra costante? Da cosa parti per scrivere?

Ho scritto qualche racconto e un altro romanzo che parla di una madre separata dal marito che a causa della depressione post partum cade in una china di comportamenti inadeguati e negligenti nei confronti del figlio fino a perderne l'affidamento. Un'altra "tragedia" di cui non svelo il finale ma che in sostanza riguarda tutte quelle forme di maternità negata o inadeguata di cui si legge continuamente sui giornali. Mi sono molto documentata per questo libro, su saggi di psicologia, giurisprudenza, sociologia.
E poi ho intenzione di scrivere una storia d'amore finita ma non so bene dove mi porti la trama. Finora ho raccolto delle pagine scollegate fra loro, delle scene, che non so ancora come montare.
Per Nove mesi la stesura del nocciolo del racconto è avvenuta in breve tempo, quasi in stato febbrile. Mi sono isolata e ho scritto continuativamente le pagine salienti, poi piano piano le ho limate e ho aggiunto il resto un po' alla volta. In seguito è avvenuto il lavoro di editing che ha portato modifiche strutturali (la tripartizione) e formali (la scelta di certi vocaboli, il taglio di alcune parti ecc.) in un'operazione di negoziazione e compromessi reciproci tra me e l'editor.
Per il romanzo sulla madre si è ripetuto il susseguirsi tra una prima fase in cui sostanzialmente mi racconto la storia e una seconda in cui aggiungo delle parti, aggiusto, taglio e ricucio, come in una sartoria. Nell'ultimo caso ho solo scritto scene di contorno, ma mi manca la trama principale, non ho ancora chiarito come voglio raccontare la storia anche se i personaggi li ho già in testa. A volte non si sa bene dove condurrà la trama, è un filo che si dipana nel tempo e che prende forma quasi autonomamente.


Come lettrice, nel panorama internazionale contemporaneo, chi sono gli autori che tieni d'occhio?

Ho letto tutti i romanzi di Patrick McGrath, dove il tema della follia, della malattia mentale è dominante, ma il mio preferito è Spider, uno dei rari casi in cui la trasposizione cinematografica è quasi più bella del romanzo. Aspetto con ansia l'uscita dei libri di Agota Kristof che, alla prima lettura, fu una vera e propria rivelazione sia per come "monta" la trama sia soprattutto per la voce narrante che è di una ferocia terribile, pur mantenendosi sempre lucida, quasi asettica. Riesce a raccontare eventi dolorosissimi con uno stile quasi impersonale, a volte sembra persino incattivirsi contro i suoi stessi personaggi. La lettura dei suoi romanzi ti annienta come una ferita inferta col ghiaccio.
Per il resto sono una lettrice disordinata, vado anche a caso. Da poco ho letto dei racconti, Le incurabili, dal sapore pirandelliano, di un'autrice siciliana che di lavoro fa il medico, Luisa Stella, e che mi hanno colpito per lo stile, perché raccontano eventi straordinari, assurdi, come se fossero la cosa più normale del mondo. Anche questi riguardano la malattia.
E l'ultimo libro letto è Io me ne vado di Philippe Claudel, molto intenso e coinvolgente e nello stesso tempo sferzante nella critica alla società di oggi. Quando l'ho finito, ho pensato che avrei voluto scriverlo io.

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2007

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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