Due note sulla poesia di Paola Lovisolo

 

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Sommario
I.
II.
Demetrio Paolin, Lettura di «Minute dalla dura madre»
Raffaele Ibba, Inquietarsi di bellezza



§ II. Raffaele Ibba Scheda bibliografica

I. Demetrio Paolin
Lettura di «Minute dalla dura madre» di Paola Lovisolo

 

La poesia di Paola Lovisolo è un liberare le parole dalle costrizioni grammaticali, toglierle dal loro uso comune e darne un senso rinnovato. È tutto uno svuotamento di senso e di suono (il significante diventa significato e viceversa): è una poesia che vuole essere pulita che rappresenta un ritorno alle radici, alle scaturigini di sé. Non è un caso quindi che la raccolta abbia nel suo titolo "la madre" e buona parte dei versi vedano al centro la figura del "padre": un ragionare, quello della Lovisolo, su ciò che è all'inizio. Prima di tutte le cose, una nuova Genesi che dice "e fu sera e fu mattina":

«se c'è un mattino da carne, è questo.
la mia regia feroce da un luogo fasciato
lo sperma della rosa asfissiata d'essere
la mia camicia.
se c'è un mattino da carne, è questo.
spalla alle nostre culle, corvi illesi
- a matita -
suggeriti [...]».

È come in una genesi, una genesi laica, non religiosa, ma profondamente sensoriale, materiale, c'è il padre, che cammina che si muove in una solitudine profonda, toccato da qualcosa, così come lo è dio, segnato dalla consapevolezza di un progetto che è anche male, colpito da un profondo risentimento

«ombra che si fa crusca sul fuoco esasperato
messa finita per timidezza con la pioggia
mani piene di bottiglie sporche fino al tappo
lui cieco grande come un uovo dio mi parla
del sasso nero e del nilo d'ossa che lo lega
alla finestra e a me».

In questo a-paradiso, compare poi l'io lirico, che stranamente si nomina. C'è nei poeti una strana ritrosia a nominar se stessi, un divieto antico: si pensi solo a Dante nel Purgatorio che chiede scusa se per "necessità" si registra il suo nome, divieto antico quello di dire il proprio "io", che la Lovisolo rompe alla fine del brano più "narrativo" di questa silloge, quando scrive:

«mi spingevano dentro la stanza
come per vedermi meglio in piedi, alta e pallida
raccolta paola in irma anna albertina, ventenne
senza una lacrima»

Il suo nome, però, si fa nome di altri si mischia a quello di altri: nel momento in cui il poeta dice se stesso si confonde con i suoi consimili. E ad accomunarli è l'esperienza della cacciata. Siamo in una genesi, c'è un dio e ci deve essere un peccato e una cacciata.
Il peccato che si compie non si vede, ma ne vediamo le tracce come qualcosa di "bagnato" da asciugare e da pulire:

«esco dal bagno
asciugo il divano
asciugo l'apertura delle braccia
la risposta d'etuve sulle piastrelle
quelle più sollevate
e tiro via i volti
dalle mie tele
vuoti - i migliori -
da tornarci a parte».

Quindi la cacciata che è un entrare nella stanza del collegio, una segregazione una chiusura che non lascia scampo: «mi spingevano dentro la stanza chiudendo il baule / delicatamente come cosa provveduta per il mio bene».
La poesia della Lovisolo, quindi, sembra destinata a spazi chiusi, una condanna alla claustrofobia, invece inaspettata s'apre agli interminati spazi nel finale della silloge:

«facevamo i gatti sugli scambi abbandonati,
ragnatele bagnate esitavano tra noi più dei fantasmi.
in casa orsetti seduti, slavati e senza ciglia rovistavano il mondo
di anubi fatto a stanzette di piccole righe sguarnite nella somiglianza
a rampicanti secchi che in separate capedini da noi smisuravano
i giorni che ci venivano addosso fino a spegnersi nell'idea d'eco
amarena».

La poesia finisce, dopo una serie di immagini di costrizione, chiusura e morte, con un'immagine di libertà di gatti sulla ferrovia, portatori di una felicità piccola (l'idea di eco amarena) ma che rimane la possibilità unica per salvarsi.


 

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II. Raffaele Ibba
Inquietarsi di bellezza. Piccola sponda accanto a Paola Lovisolo

«Vento soffia dove vuole e lo Spirito d'Intelligenza d'Amore corre su barche inattese»

Essendo anch'io uno che fa poesia, non ho l'ambizione di farmi la domanda su chi è - o - cosa sia il poeta, ma pure non facendomela mi è capitato di darmi una risposta tra le minime possibili.
Una risposta trovata o avanzata; una riposta da davanzale e da balconcino; una risposta da apostrofe casuale, da «ehi tu!» o da carezza al viso, una risposta lasciata fiorire in strade di periferia; una risposta scortese [...]
L'ultima volta che ne ho lasciato in giro una di questo genere è stato con Paola Lovisolo. Perchè Lovisolo è un poeta e lo è sempre stata. Non è l'unica, lo ammetto, ma lei è diversa: ha un demone che la guida e lo dico con stupore, perchè non sapevo fosse ancora possibile avere ancora un demone guida. Lo si capisce subito perchè è nelle cose che scrive. Se leggo Paola sento che ho trovato un nervo, un dolore insistito tra la pancia ed il cuore, un osso che fa male e non smette: qualcosa che hai, che ti brucia, ma che non vuoi che smetta.
Un reuma del cuore.
Paola sa dire dell'umano come una donna, capace anche del paesaggio di essere madre. Una delle chiavi di questo che scrivo su di lei è che, con Paola, ci somigliamo: anche per lei poesia non è arginabile, ma qualcosa che tracima ed è prezioso, come le mestruazioni.
Qualcosa che non si può arrestare, ed è il suo corpo.
Il flusso di parole che pare un continuum di suoni senza senso, eppure ti avvolge e ti costringe a quest'ateismo colmo di Dio, a questa volontà di amore priva di oggetto.
Un "senza senso" che trova il suo senso in quel ritmo, anche contro l'ateismo del poeta; un poeta che è anche madre e sa che le figlie devono crescere da sole ed amare chi vogliono loro.
Così le «generose carezze come equilatere» della Lovisolo ti colgono alla sprovvista, ti spiazzano e ti costringono a fermarti ed a rileggere, a rileggere, a rileggere fino a che non ti metti nella postura dell'ascolto e non t'acquieti nell'amore. Amore che Paola sembra rifiutare.


Questa è la storia di una poesia che non ti passa accanto, ma ti chiede di passarle accanto, di starle vicina, di starla a sentire. Chiede ascolto e tu lo vuoi essere questo ascolto e ritrovarti nella condanna della bellezza d'un fiore che cresce in un campo selvatico, alto e riconoscibile nella sua condanna.


«Quando le stelle tutte insieme rideranno», allora anche Paola Lovisolo riderà, vagando finalmente libera dal suo dolore scostante, come un amore infermo, come un precipizio che ti guarda chiedendoti attenzione; e solo allora per lei i colori non saranno più offerte obbligate, com'è adesso e come sarà almeno finché il mondo sarà il mondo.
Perchè non c'è accettazione nella sua poesia e questa è la cosa più difficile da accettare: ma del resto la poesia non vuole tenerezze, laddove sia vera poesia.
La poesia vuole coraggio. Questo coraggio la Lovisolo lo tiene tutto e ben protetto, talvolta pure ossessivamente, dentro al suo favo.
Non c'è speranza nei suoi versi, eppure sono così pieni d'amore.
La sua poesia è un deserto, ma un deserto che nasconde acqua.
Si vedono dune oscillate dal vento, piccoli animaletti misteriosi e forse velenosi, scure ombre di un sole che non è amico ma nemico ed a cui bisogna contrapporre una notte amica: notte che in Paola Lovisolo è sempre priva di stelle.
Dunque luogo inospitale ma pieno d'acqua - acqua che vive di contrasti, di mutamenti improvvisi, di perdite di sapore e lucentezza -, che bisogna andarsela a cercare e, una volta trovata, occorre fare la fatica vecchia delle braccia e del secchio per tirarla su piano piano e solo dopo dissetarsi. Bisogna conoscerla la fatica, una fatica di e da fare: antica e che comprende soprattutto il lavoro dell'ascolto e della domesticazione: un lavoro che chiede imperiosamente il silenzio, perchè è poesia e tutta la poesia è voce del silenzio.

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2007

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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