Julio Monteiro Martins
L'ansa duodenale

 

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Era il sabato di Carnevale, le due del pomeriggio. Geraldo si stava mettendo il suo camice e i guanti per incominciare il turno all'obitorio. Era arrivato al lavoro prima del dovuto per mangiare la feijoada che tutti i sabati il ristorante Cantinho da Saudade faceva, preceduta da una caipirinha di vodka, la capirovska, e con contorno di riso, farofa e verza a fettine. Dopo si sentì strapieno, con il corpo pesante, sonnolento e la lunga digestione tipica della feijoada in corso, perfetta per chi può darsi al lusso di schiacciare un pisolino dopo pranzo. Geraldo avrebbe tanto voluto stendersi in uno di quei cassettoni vuoti, se non avesse avuto tanto lavoro da sbrigare. Ma sapeva molto bene com'era il Carnevale e sapeva che presto sarebbero cominciati ad arrivare decine di cadaveri prodotti dalla più grande festa popolare del pianeta.
Già dal tavolo del ristorante, mentre divorava le carni di maiale e i pezzi di salciccia della feijoada, Geraldo aveva visto il Carnevale impossessarsi della città e trasformare lo spirito delle sue strade. Un bloco de sujos era passato davanti al ristorante, circa cento persone, che battevano padelle e latte vuote, ballando e saltando tra le automobili posteggiate. Indiani, pagliacci, travestiti barbuti, persecutori fanatici con cappucci bianchi a punta, vecchi vestiti da bebè con il ciuccio in bocca, diavoli, una mummia di carta igienica, un lupo mannaro, molti uomini, donne e bambini con la maschera del Presidente Lula, conigliette di Playboy e una pimpante maschera della morte che aspirava etere da un fazzoletto rosso.
Geraldo sentì un movimento nella stanza accanto, rumori metallici strusciando il cemento. Erano arrivate le prime casse di festeggianti spappolati. Una giovane vestita da indiana sembrava fosse stata investita da un autobus. Il lato sinistro del suo corpo, scuro e deformato, sembrava che non c'entrasse niente con il destro, perfetto e intatto, il piccolo seno sudato luccicante di brillantini, la coscia dorata, le dita lunghe e al polso un braccialetto di piume colorate. Geraldo legò un'etichetta numerata all'alluce del suo piede e trasferì la giovane indiana nel cassetto gelato. Prima di chiuderlo, però, si accovacciò accanto al lato destro, con lo sguardo all'altezza del corpo della ragazza per riuscire a vederla senza le deformazioni, così com'era prima di essere manomessa dal paraurti.
Geraldo si accese una sigaretta. Il fumo lo aiutava a tollerare la puzza di formolo della prima ora di lavoro. Dopo non sentiva più alcun odore. Guardò la grande sala dell'obitorio, con le sue lampade al neon e le pareti di piastrelle bianche, macchiate di sangue secco e altre sostanze non ben identificabili. A Geraldo sarebbe piaciuto un giorno o l'altro vederle pulite, ma non voleva fare di più di quello che gli spettava. Fosse lo Stato ad occuparsi della pulizia... Ma chi, oltre a lui, avrebbe notato le piastrelle sporche di fronte a quel deposito di corpi morti e numerati? Quelle cose nei cassettoni. Erano cose. Ci conviveva, tutte uguali, grigie, silenziose, come pezzi di lamiera o gomme usate. Erano nati già così. Ma di fronte ai visitatori, soprattutto se erano parenti della cosa, doveva fingere un certo decoro e sfilare il cassetto lentamente per non disturbare il silenzio.
Sentì nuovamente il rumore metallico. Gli uomini della macchina mortuaria avevano depositato nella stanza accanto un'altra cassa. Questa volta era un pagliaccio. La figura solitaria di un pagliaccio stesa dentro una cassa, sul pavimento di una stanza vuota. Sembrava che da un momento all'altro il pagliaccio sarebbe saltato fuori con un balzo e avrebbe proseguito il suo numero. Ma il numero adesso era quello dell'etichetta che Geraldo gli stava legando attorno al dito. Il pagliaccio era incinto. Era morto di un male misterioso che gli aveva fatto gonfiare il ventre fino a strappargli i gancetti del gilè di raso e irrompere fuori come se fosse al nono mese di gravidanza. Anche il suo ombelico si era rovesciato in fuori e formava un monticello sul grande monte. La pelle della pancia, da tanto stirata che era, sembrava che fosse sul punto di scoppiare. Era buffo il pagliaccio con quella panciona. Geraldo levò la pallina dalla punta del suo naso e staccò la parrucca dalla testa, scoprendo sorpreso che sotto c'era una pelata quasi uguale a quella finta.
Qualche minuto dopo, gli uomini di un'altro furgoncino arrivarono accompagnati da una vettura della polizia militare. «Un pesce grosso per te», disse uno degli uomini con un sorrisetto ironico, mentre la macchina evacuava dal retro la cosa. Era un mulatto di circa trent'anni, capelli corti e con addosso solo un paio di calzoncini attillati, era bucato di pallottole dappertutto. Doveva essere stato molto temuto per meritare cento spari in più di quelli che bastavano per ucciderlo.
Geraldo aveva letto sulla prima pagina di un giornale popolare dell'assedio al trafficante Escadinha, nella favela Juramento. Era già da settimane che tentavano invano di prenderlo, questo perchè godeva dell'appoggio della gente della favela. Escadinha regnava su varie favela, distribuendo ai più bisognosi parte dei proventi del traffico. Così, ogni bambino era diventato una spia al suo servizio e lui riusciva ad essere informato immediatamente di qualsiasi movimento sospetto nella zona. Alla fine, per ucciderlo c'era stato bisogno di due elicotteri e più di un centinaio di poliziotti armati di fucili, mitragliatrici e addirittura bazuca, in una operazione-lampo, che continuò con due giorni e due notti di sparatorie, prolungandosi nella festa di Carnevale.
Uno dei poliziotti più giovani rimase ancora un po' in piedi accanto a Geraldo, osservando deluso il corpo di Escadinha dentro la cassa. Ma com'era possibile che fosse quel mulatto magro e secco il bandito che era riuscito a togliergli il sonno? Che ridicolo! I compagni lo chiamarono dall'automobile e lui ancora esitò un momento prima di lasciare il bandito alla cure di Geraldo (aveva paura che resuscitasse?), ma poi se ne andò.
Era il sabato di Carnevale. Geraldo avvicinò una sedia al bandito. Mulatto magro con pantaloncini stretti e corpo tutto forato di pallottole: bandito. Sarebbe stato infilato vicino alla indianina e al pagliaccio. Etichettò l'alluce e strascinò la cassa fino alla sala dei cassetti gelati.
Geraldo sapeva che durante la notte il movimento si sarebbe intensificato. Si accese un'altra sigaretta e si sedette sul davanzale di marmo della finestra. Da lì poteva ascoltare il samba che rimbombava frenetico da tutte le parti, annaffiato da molta birra e molta cachaça. Poco dopo sarebbero cominciati ad arrivare cataste di festeggianti sfatti, che sarebbero stati dovutamente etichettati e messi nei cassetti.
La feijoada gli pesava sullo stomaco come un macigno. La sonnolenza era diventata una specie di letargo doloroso che forzava Geraldo a stirare le gambe e la schiena. Rivoltò due casse vuote e tentò di rilassarsi lì sopra. Guardò il muro di cassetti chiusi e le piastrelle bianche, che quasi non si vedevano più con l'avanzare del buio. Geraldo ormai non si impressionava più con quello scenario, era cosciente del suo mestiere di archivista, che esercitava all'obitorio, ma che avrebbe potuto esercitare in qualsiasi altro magazzino. Non faceva parte veramente di tutto quello. Non aveva nessuna relazione con quelle cose che arrivavano, se non il dovere di numerarle e nasconderle. Geraldo sudava freddo. La testa gli girava. Cercò di alzarsi senza riuscirci. Il ventre gli faceva male e da dentro l'organismo gli veniva su un sapore acido e nauseabondo. Geraldo si prese la testa fra le mani con ancora i guanti in dosso e cercò di ragionare. Era possibile che la feijoada fosse stata lì da qualche giorno? Era davvero possibile? Dalla stanza vicina arrivava il rumore monotono e incessante del metallo trascinato sul pavimento.

Lucca, 1 e 2 aprile 2007

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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