Stefano Lazzarin
Il fantastico italiano del Novecento.
Profilo di un genere letterario, in cinque racconti di altrettanti autori

 

Scheda bibliografica Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni Togli testata Salva il frame corrente senza immagini Stampa il frame corrente Apri in formato PdF


Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
Preliminari sul fantastico
Alberto Savinio
Tommaso Landolfi
Primo Levi
Giorgio Manganelli
Antonio Tabucchi
Specificità del fantastico italiano


 

§ II. Alberto Savinio

I. Preliminari sul fantastico

Il titolo del presente saggio richiede qualche spiegazione preliminare: innanzitutto, sul significato della parola «fantastico»; poi, sulla fortuna di questo genere letterario in Italia; infine, sui testi di cui parleremo.

a. Sono oltre trent'anni - vale a dire dalla pubblicazione dell'Introduction à la littérature fantastique di Tzvetan Todorov,1 che lancia la moda universitaria del fantastico - che la critica medita su questa parola, e non è riuscita a venire a capo del concetto; tante e tanto diverse sono le teorie formulate, che diventa ormai indispensabile, prima di intervenire nel dibattito, prendere esplicitamente posizione. Cominceremo allora rifiutando di sottoscrivere le equivalenze frettolose che la lingua italiana suggerisce al teorico, come quell'assimilazione del «fantastico» alla «fantasia» su cui ha richiamato l'attenzione, fra gli altri, Italo Calvino:2 l'uso corrente delle parole ci interessa meno del significato che possono avere per la terminologia letteraria. Rifiuteremo perciò anche di convalidare la provocatoria affermazione di Borges e Bioy Casares, che ebbero a dichiarare:

«Bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica. Nessuno crede veramente che in un paese della Mancia il cui nome non volle ricordare l'autore visse un cavaliere che per l'abuso di libri di cavalleria si lanciò per le vie della Castiglia con armatura, spada e lancia. Così nessuno crede che in un'estate di Pietroburgo uno studente assassinò un'usuraia per emulare Napoleone».3

Io penso, al contrario, che non tutta la letteratura sia fantastica, e preferisco - utilizzando coordinate teoriche desunte dalla bibliografia francese - chiamare fantastici quei testi narrativi, soprattutto brevi, che mettono in scena il soprannaturale con finalità che si possono sbrigativamente definire «perturbanti». Così concepito, il fantastico diventa un fenomeno storico, relativamente recente: un genere o modo letterario la cui origine va cercata nei complessi mutamenti che accompagnano la svolta di fine Settecento nel sistema letterario europeo.4

b. La caratteristica del fantastico italiano è quella di essersi sviluppato con grande fatica: sorge nella seconda metà dell'Ottocento, quindi con circa mezzo secolo di ritardo rispetto alle grandi tradizioni occidentali (anglo-americana, francese, tedesca, russa). La prima opera che si possa ascrivere in tutto e per tutto al genere viene pubblicata nel 1869: si tratta dei Racconti fantastici di Igino Ugo Tarchetti. Un'occhiata alla cronologia dà risultati eloquenti: i racconti di Hoffmann erano usciti entro la prima metà degli anni Venti, quelli di Poe vengono pubblicati negli anni Trenta e Quaranta, in Francia il fantastico conosce una voga straordinaria a partire dal 1829, quando cioè vengono tradotti in francese i Contes fantastiques d'Hoffmann. A tale ritardo cronologico va aggiunto un ritardo che potremmo definire «culturale»: i testi italiani ottocenteschi pagano un forte tributo nei confronti dei modelli stranieri, spesso sono imitazioni o addirittura plagi sfrontati; e, a parte qualche eccezione, non reggono, sul piano estetico, il paragone con i capolavori inglesi, francesi, americani, tedeschi, russi.
Sono state avanzate varie interpretazioni per spiegare questo duplice ritardo, cronologico e culturale: lo sviluppo asfittico del fantastico ottocentesco italiano è stato collegato ai caratteri atipici del romanticismo e alla vitalità della tradizione classica in Italia,5 o anche all'azione concorde della pedagogia risorgimentale e dell'ortodossia cattolica, che furono solidali nel negare ogni dignità letteraria al soprannaturale superstizioso.6 Ma quali che siano le cause, le conseguenze sono cristalline: la specificità del fantastico italiano, se esiste, va cercata nel Novecento. In effetti, la tradizione italiana sembra essere quella che meglio giustifica l'antinomia tra un fantastico ottocentesco e uno novecentesco, più volte formulata dai teorici e raramente con argomenti convincenti; anche senza entrare nel merito di tale complessa questione, e limitandoci a osservare la letteratura italiana, è innegabile che esista un divario netto fra narratori come i due fratelli Boito, Remigio Zena, il citato Tarchetti, il Capuana fantastico da una parte, e scrittori come Alberto Savinio, Tommaso Landolfi, Dino Buzzati, Giorgio Manganelli o Antonio Tabucchi dall'altra. La qualità media del fantastico italiano del Novecento è una delle più alte fra tutte le tradizioni occidentali.

c. Una puntualizzazione, infine, sul corpus testuale della mia indagine: ho deciso di passare in rassegna cinque autori, analizzando per ognuno di essi un testo [a] significativo e [b] rappresentativo. L'intento è di cogliere ciò che ogni autore ha di emblematico rispetto alla storia del genere e alle trasformazioni novecentesche del paradigma «classico», attraverso l'esame di un testo significativo sul piano estetico: vale a dire bello e memorabile, degno di essere letto. Quanto al numero di autori, cinque si è imposto quasi da sé, in relazione allo spazio circoscritto di un articolo su rivista.7 Il nostro piccolo canone comprende: le pagine finali del romanzo La casa ispirata (1925) di Savinio; Ombre (1954) di Landolfi; Quarantuno, uno dei raccontini di Centuria (1979) di Manganelli; Calore vorticoso (1981) di Primo Levi; Any Where Out of the World (1985) di Tabucchi. Tutti questi testi hanno la caratteristica di essere racconti brevi; quello di Savinio è l'unico frammento romanzesco, ma frammento di un romanzo breve: la scelta riflette le caratteristiche del genere fantastico, che preferisce, appunto, le forme narrative brevi.
Di che cosa sono emblematici i testi e gli autori prescelti? Rinunciando a ogni effetto di suspense, lo rivelerò fin d'ora, perché credo possa contribuire alla chiarezza del mio discorso. Dunque: l'opera di Savinio si situa nel cuore di quel cambiamento epocale che è costituito dall'avvento della psicanalisi; Landolfi rappresenta la transizione dal racconto fantastico al racconto «meta-fantastico», e l'approdo finale alla coscienza dell'«impossibilità» del fantastico; il fantastico di Levi, pur nascendo da una ricerca sul linguaggio, risponde a una funzione etica e conoscitiva; Manganelli è lo scrittore travagliato dalla Grande Tradizione, che la riscrive incessantemente, accumulando i topoi letterari uno sull'altro, sempre alla ricerca della «variazione sul tema»; Tabucchi, infine, è lo scrittore postmoderno, che si avvicina alla tradizione con un atteggiamento misto di ironia e nostalgia.

E ora che abbiamo detto l'essenziale, possiamo incominciare per davvero.

 

§ III. Tommaso Landolfi Torna al sommario dell'articolo

II. Alberto Savinio

Il romanzo breve La casa ispirata di Alberto Savinio viene pubblicato nel 1920 sulla rivista milanese «Il Convegno», e nel 1925 in volume. La storia è la seguente: un narratore che crede o sembra credere a presagi, segni e auspici sta cercando una casa in cui traslocare; dopo qualche indagine, si decide per il numero 73 della via San Giacomo, dai Lemauzy: una famiglia singolare, che annovera fra i suoi componenti una vecchia alquanto sinistra e Marcello, il nipote adolescente e un po' isterico del capofamiglia. Un bel giorno Marcello scappa di casa e, al ritorno, narra il suo prodigioso incontro con «Dio». Nel frattempo è scoppiata la Grande Guerra: Marcello deve partire per il fronte; nel corso di una serata ricca di avvenimenti soprannaturali, gli abitanti della casa ricevono la notizia della sua morte ignobile.
Tutto qui; si direbbe una vicenda lineare: ma Savinio intreccia questi eventi apparentemente semplici fino a ottenere un arabesco intricato. Innanzitutto, una minutissima trama di manifestazioni soprannaturali copre tutta la superficie del romanzo, al punto che diventa quasi impossibile determinare i confini di ciò che è «reale» e di ciò che è «fantastico»: eventi, personaggi, discorsi contengono invariabilmente una mescolanza di entrambi gli elementi. Poi, e soprattutto, nella conclusione del romanzo l'ambiguità raggiunge il culmine: «Si può dire che per due terzi del romanzo non accade nulla d'importante; d'altra parte è difficile stabilire cosa accada nell'ultima parte».8 Il finale problematico della Casa ispirata servirà da campione per la nostra analisi; come ha notato un critico, infatti, da queste sei paginette9 dipende lo statuto generico del testo:

«Fino a questo punto, che è poi la fine del racconto, lo specchio della mimesi realistica rifletteva immagini riconoscibili [...]. Ora ci troviamo spostati nel fantastico, con la precisione e la rapidità dello scatto di un commutatore. Le ultime pagine del testo sono decisive per assegnare la Casa ispirata al fantastico, come sempre accade nelle narrazioni che formano il corpus di quel genere».10

Tempo e luogo del cinquantottesimo capitolo sono di per sé inquietanti: una tavolata lugubre, i cui commensali assomigliano a «un congresso di fantasmi intorno a un marmo sepolcrale», e si riuniscono nell'ora medesima in cui, il giorno prima, «il nano era venuto ad annunciare il funesto segno dell'alone».11 In tale quadro irrompono le apparizioni soprannaturali; proviamo a elencarle: una statua equestre - che è anche uno dei monumenti animati così frequenti nell'opera di Savinio - appare alla finestra; la vecchia Lemauzy, ospite sinistro della casa di via San Giacomo, Morte-in-Vita che terrorizza il narratore, esplode in una serie di ululati soprannaturali, «dopo anni e anni di mortale silenzio»;12 frotte di fantasmi diventano pazzi di terrore, e cercano di «soffocarne l'orrenda voce»;13 il pavimento si squarcia, mentre risuona nell'aria un latrato infernale proveniente dagli abissi; non manca neppure l'«oggetto mediatore di realtà»,14 testimone della verità inesplicabile del fantastico, ed esso stesso manifestazione soprannaturale: «L'ignoto cavaliere lasciò cadere un foglio sul davanzale, uscì lentamente dal quadro della finestra».15 L'appendice del cinquantanovesimo capitolo ci riserva l'ultima sorpresa; mentre ai deliri della notte subentrano la pace e il torpore dell'indomani, il narratore confessa di essere morto:

«Per il pudore che mi sentii addosso, per la sacra vergogna che mi colse di trovarmi io stesso nudo, capii che, morto anch'io al pari di ogni altra creatura o cosa, mi ero destato nel gelo del mio proprio cadavere».16

Scoperta assai sconcertante; infatti: «è un verosimile, realistico, convincente narratore quello che ci ha portato sino a questo punto. Adesso sappiamo - anche se non esiste alcuna colonna del nostro schedario mentale in cui sia possibile inserire il nuovo dato - che era morto».17
Ma il clou di questo fuoco d'artificio soprannaturale è rappresentato senza dubbio dalla statua equestre: un simbolo che è possibile interpretare ricorrendo a qualche modesto ausilio psicanalitico. Notiamo innanzitutto che il cavallo è considerato come un messaggero di morte in numerose tradizioni folcloriche, e nell'illustre tradizione letteraria che ne dipende (la quale comprende anche racconti fantastici come The Fall of the House of Usher di Edgar Allan Poe e L'Intersigne di Villiers de l'Isle-Adam, il romanzo fantastico Die andere Seite di Kubin, nonché testi meno noti di Arthur Conan Doyle e Gilbert Keith Chesterton, un capitolo - l'ottavo - di À rebours che racconta un sogno terrificante, e la visione metafisica, carica di significati fatali, di un racconto buzzatiano, Eleganza militare).18 Come capita spesso, la saggezza popolare e il linguaggio del sogno si servono degli stessi simboli, dello stesso linguaggio: Carl Gustav Jung nota come il cavallo frequenti gli incubi dei malati la cui fine è prossima.19 Il cavallo di Savinio pone insomma la questione dell'origine psichica delle immagini letterarie: che si tratti, dopo tutto, di un vero e proprio archetipo? Facciamo un passo avanti, e leggiamo il brano più impressionante del capitolo LVIII:

«dentro il vano della finestra aperta contro il muro nudo e inanimato della casa nuova, apparve una statua equestre. [...] Nessuna voce né lì né altrove, salvo di tratto in tratto il risoffio greve del cavallo, che insinuata la testa attraverso la finestra, spandeva per la sala il suo occhio irrequieto, rosso di sangue e senza sguardo. [...] Dall'ombra che riempiva il fondo della sala, gli occhi terribili della vecchia trafiggevano l'occhio insanguinato e vagabondo del cavallo».20

Impossibile sbagliare: questa statua è un omaggio a un genere di pittura fra le più «letterarie» che esistano, quella di Füßli. E assieme a Füßli, è l'Incubo che fa irruzione nella Casa ispirata: l'incubo, e il fondo oscuro di questa visione allucinata di un cavallo che guarda con occhi infiammati l'interno della camera. C'è un saggio di Alberto Castoldi, sulla straordinaria fortuna figurativa del quadro di Füßli, che cerca di spiegarla ricorrendo al suo contenuto «profondo» e per così dire «meta-artistico». Füßli avrebbe rappresentato in modo paradigmatico la camera nella quale ha luogo «la violenza della scena primaria, o della sua mimesi pulsionale»:21 vale a dire la violenza a carattere sadico che determina la rimozione ed è all'origine dell'angoscia tipica dell'incubo. Secondo Castoldi - ecco il significato «meta-artistico» cui alludevo - l'arte, tutta l'arte, consisterebbe nella messa in scena di questa camera, di questa scena di violenza, di questa angoscia, e nell'incrociarsi di due sguardi: quello dello spettatore che osserva, inosservato, la scena, e quello del soggetto che si trova sulla scena. Per questa via, Füßli e i suoi seguaci si avvicinerebbero alle «ragioni stesse dell'arte»;22 ma senza andare, nella fattispecie, così lontano, e senza dover supporre in Savinio la forma mentis di un teorico dei fenomeni artistici e culturali, possiamo formulare l'ipotesi che la sua scelta sia stata dettata da ragioni prossime a quelle che risvegliano l'interesse del teorico. L'incubo di Füßli è stato, per generazioni d'artisti, l'emblema dell'arte come teatralizzazione dell'inconscio; Savinio, scrittore-pittore, si inserisce in questa tradizione: solo, il medium che gli permette di formalizzare le sue ossessioni è la pagina scritta.
Tocchiamo qui anche la ragione dell'importanza storica del racconto fantastico saviniano. L'opera di Savinio si situa al centro di una mutazione epocale: l'affermarsi della psicanalisi come teoria scientifica prestigiosa. Freud e Jung ridanno un significato al soprannaturale, cui il paradigma scientifico positivista ottocentesco aveva risolutamente negato ogni legittimità: esso non è nient'altro che il travestimento di fenomeni psichici di cui non era stato possibile, fino ad allora, valutare correttamente lo statuto. Il soprannaturale, come scrive Freud già nel 1901, è «psicologia proiettata sul mondo esterno»:

«L'oscura conoscenza (per così dire la percezione endopsichica) di fatti e rapporti psichici inerenti all'inconscio si rispecchia [...] nella costruzione di una realtà sovrasensibile, che la scienza deve ritrasformare in psicologia dell'inconscio».23

Certo, nelle sue vesti di narratore Savinio non si abbassa mai al rango di semplice trascrittore delle scoperte dello psicanalista; ma, lui che era al corrente di psicanalisi, opera nel medesimo senso: un'analisi esaustiva mostrerebbe come nei suoi racconti possa diventare fantôme (fantasma: creatura soprannaturale) solo ciò che, precedentemente, è stato fantasme (fantasma in senso psicologico). Savinio insomma sostituisce il soprannaturale della tradizione ottocentesca - che a sua volta aveva raccolto l'eredità del merveilleux delle leggende, dei miti e delle superstizioni, cui allude Freud nel passo citato - con un soprannaturale nuovo, tutto «psicanalitico» e «freudiano»; e crea dei fantasmi che sono, al tempo stesso, simboli dell'inconscio: per usare di nuovo la comoda distinzione fornitaci dalla lingua francese, egli incarna i (suoi) fantasmes in fantômes. Ed è il primo a far questo: non soltanto in Italia, ma probabilmente il primo in assoluto.

 

§ IV. Primo Levi Torna al sommario dell'articolo

III. Tommaso Landolfi

Tommaso Landolfi è l'autore italiano che mostra nel modo più impressionante una delle grandi tendenze del fantastico contemporaneo, quella alla fantomatizzazione della realtà. Ogni cosa diventa fantasma:

«Per chi come Landolfi sia persuaso che nulla esiste, che credere nell'esistenza del mondo fenomenico sia il più abbietto gradino a cui possa abbassarsi il pensiero [...], le differenze tra realtà e fantasma tendono a farsi meno ovvie e più labili di quanto non vorrebbe il bempensante (grafia landolfiana)».24

Ma se la frontiera che separa il fantasma dalla realtà diventa incerta o addirittura insussistente, che cosa può mai significare, al giorno d'oggi, scrivere un racconto fantastico? Nel 1963 Landolfi sostiene che la qualità di narratore fantastico è il blasone di una nobiltà anacronistica:

«Su una rivista italiana, a nessun proposito, giudizio sommamente lusinghiero sulla mia "opera"; e tra l'altro vi son definito, con lodi da fare il viso rosso, "autore di racconti fantastici". Sommamente lusinghiero, cioè inteso come tale: come mi dispiace, al contrario, e come è anacronistico. Ma se avessi voluto essere uno scrittore di racconti fantastici... Che cosa invece ho voluto essere o sono? E chi lo sa: come sempre la mia comprensione è stata ed è soltanto negativa [...]».25

Da un altro punto di vista, siccome il fantasma è dappertutto, un titolo come Ombre (1954) risulterà particolarmente significativo: si sarebbe tentati di assumerlo come emblema dell'intera opera di Landolfi, questa fantasmagoria di oggetti dalla consistenza dubbiosa e di ombre che talora si rivelano sorprendentemente solide. Se il titolo è emblematico, il racconto non è men degno della nostra curiosità. Fin dall'inizio viene posto, con ammirevole lucidità, il problema di fondo: che cos'è un fantasma? (E in altri testi di Landolfi: che cos'è un lupo mannaro? e un porrovio?).26 L'immagine popolare di questi esseri, e l'immagine che la tradizione del fantastico classico ci ha consegnato, sono veridiche?

«Quello che vidi mi fece sul primo momento rizzare i capelli in capo.
Da una porta laterale dell'edificio era uscito qualcosa che, a non chiamarlo fantasma, ci sarebbe stato da passar per pazzi; qualcosa, dico, che riproduceva punto per punto l'immagine di questi enti cara alla fantasia popolare; e che traballando si avviava, sotto i miei occhi esterrefatti, verso le fitte ombre del parco. Vanamente io cercavo di aguzzare lo sguardo su quella gran sagoma bianca: la notte era illune e nuvolosa, la villa (colle sue adiacenze) completamente buia, tanto che si sarebbe detta disabitata».27

Il seguito fornisce una risposta; se non alla domanda originaria, per lo meno alla domanda: «che cos'è questo fantasma?». Ceci n'est pas un fantôme: il fantastico è ridotto a una rappresentazione complicata, assai tonitruante, cui sono indispensabili «tutti gli accessori della messinscena, quali strascinii di catene, mugolii, lamenti, schiocchi di sudari».28 Il soprannaturale è solo apparenza:

«Dunque la spiegazione era facile e allegra: quei signori stavano solo facendo uno scherzo a qualche loro amico un po' sempliciotto. Dovevano avergli fatto credere che la villa fosse abitata dai fantasmi, e seguitavano a divertirsi alle sue spalle».29

Uno scherzo: e forse tali sono tutti gli sfondi gotici e fantastici così frequenti nell'opera landolfiana... (La casa infestata del Racconto d'autunno30 non sarà, forse, una burla ingegnosa, orchestrata dall'autore ai danni del lettore ingenuo anzichenò?) Ora, il primo paradosso di Ombre è che a forza di scherzare, qualcosa di inquietante insorge per davvero; a forza di parlare di spettri, sembra essercene uno di troppo rispetto al censimento ufficiale:

«"Ebbene, vuoi saperlo? Anch'io avevo avuto la stessa impressione. Insomma, a me pare che ce ne sia uno di più, dico dei fantasmi".
"Ma che immaginazioni sono queste!".
"No, no, è proprio vero. Ho contato bene. Cioè, non sapevo con precisione quanti fossero, e quindi non potevo proprio contare, ma, così, a impressione, mi sembra... Anzi ne sono sicurissima. [...] E infine, vuoi che ti dica? Questi scherzi, io mi ci son tanto divertita, ma pure... Questi scherzi da ultimo non mi piacciono. Non si può tanto scherzare coi fantasmi, non si sa mai: queste cose possono attirarli davvero. Vorrei che riaccendessero la luce"».31

Analogamente - e per continuare il parallelo con Racconto d'autunno - a forza di percorrere i tetri corridoi di una vecchia dimora labirintica, abbandonandosi al flusso dei ricordi, un'apparizione finisce fatalmente per levarsi sul nostro cammino... La morale della storia potrebbe essere che il fantastico ridiventa «possibile» a forza di essere «impossibile» (sono, queste, due parole chiave del secondo Landolfi); a forza di lavorare su quella costruzione fittizia e arbitraria che chiamiamo linguaggio, il linguaggio suscita una realtà perturbante: fantasmi o porrovi o veranie, o un'apparizione maligna evocata con grande spiegamento di formule magiche (siamo ancora nel Racconto d'autunno). Che non si possa indagare sul fantastico in Landolfi senza imbattersi a ogni istante nella problematica del linguaggio è un'ovvietà; ma il fantasma supplementare di Ombre, in verità, è ben noto al lettore. Si tratta del narratore in persona, di professione ladro, il quale confessa fin dall'inizio il suo interesse professionale per lo scherzo fantasticheggiante che le sue future vittime hanno messo in piedi:

«E ora [...] dirò subito che quella scoperta bastò per far passare il mio interesse generico e di mera curiosità, in personale e ragionato. Difatto, quale miglior occasione avrei potuto trovare per esercitare la mia attività [...] di questa?».32

Insomma, il lettore è obbligato a inseguire il perturbante da un elemento all'altro del racconto, e da una frase alla seguente, un po' come il barone burlato insegue gli pseudo-fantasmi da una stanza all'altra, e forse con altrettante possibilità di successo... All'inizio, si crede quasi alla visione del primo fantasma; in seguito, si crederebbe volentieri, insieme ai burlatori, che un fantasma in carne e ossa (o in lenzuolo e catene) si sia introdotto nella villa infestata; alla fine, è giocoforza constatare che un cadavere reale, e non una messinscena di cadavere!, è rimasto sul pavimento: mistero inesplicabile per tutti, salvo tre che non lo racconteranno a nessuno (l'assassino, il narratore e testimone, e naturalmente il lettore). E anche il paradosso del fantastico migra, in modo del tutto simile: non è, o non è esclusivamente, dove credevamo di averlo individuato. Il vero paradosso investe probabilmente la finzione narrativa in sé, e il personaggio che dice «io» all'interno del racconto. Il ladro vorrebbe raccontare un episodio della vita di un ladro, dal momento che negli ultimi tempi «rison di moda le memorie dei ladri»;33 ma finisce per raccontare una storia fantastica che non è tale, dato che il fantasma è ridotto, razionalizzato, fin dalla sua apparizione sulla scena del testo; e quando codesto ladro-narratore ha deciso che, dopo tutto, non sarebbe una cattiva idea quella di raccontare una storia di surnaturel expliqué, proprio allora la narrazione gli prende la mano e lo trascina verso il poliziesco: vale a dire più o meno il contrario del genere iniziale, appunto le «memorie di ladri», e per quanto riguarda la logica narrativa, esattamente il contrario del racconto fantastico!34 Pare sia più facile fare il ladro che il narratore... Il fantastico non si lascia più raccontare, ecco il vero paradosso: non appena cominciamo a dirlo, diventa altro.
Ombre segna una svolta nella produzione letteraria di Landolfi. Gli anni Trenta e Quaranta erano stati contrassegnati dalla pubblicazione di due grandi trilogie narrative: quella dei racconti lunghi La pietra lunare (1939), Racconto d'autunno (1947), Cancroregina (1950), e quella dei racconti brevi contenuti nelle raccolte Dialogo dei massimi sistemi (1937), Il Mar delle Blatte e altre storie (1939), La spada (1942). Queste narrazioni erano ancora relativamente prossime ai modelli ottocenteschi, pur innovandoli con una cospicua dose di ironia e consapevolezza quasi epigonistiche; ma a partire da Ombre, Landolfi approfondisce la ricerca metaletteraria, e finisce per approdare alla convinzione che il fantastico - come tanti altri generi letterari classici e addirittura, forse, come la narrazione stessa in quanto modello coerente, compiuto, appunto «classico» - è diventato impossibile. Da qui un'opera come i Racconti impossibili del 1966, il cui titolo, proprio come quello di Ombre, risulta emblematico: racconti impossibili, cioè racconti intorno a un'impossibilità, teorica e narrativa. Ma lasciamolo dire a Landolfi:

«occorre avere una tal quale dose di follia per raccontare una storia, e forse il titolo di tutta intera la presente raccolta doveva essere, meno ambiguamente, Racconto: impossibile».35

 

§ V. Giorgio Manganelli Torna al sommario dell'articolo

IV. Primo Levi

Il nome di Primo Levi evoca non tanto il fantastico, quanto la cosiddetta letteratura concentrazionaria: Levi è, innanzitutto, l'autore delle grandi testimonianze sulla vita nei campi, da Se questo è un uomo (1946) alla Tregua (1963). Ma la sua opera comprende anche un certo numero di testi narrativi brevi, pubblicati a partire dagli anni Sessanta in quotidiani e periodici quali «Il Giorno» e «Il Mondo», e che formeranno più tardi tre raccolte: Storie naturali (1966), Vizio di forma (1971), Lilít (1981). Analizzeremo qui Calore vorticoso, uno dei testi di Lilít, cercando di rispondere all'interrogativo seguente: di che natura sono gli elementi primi del fantastico in Levi? Da dove inizia, in altri termini, la costruzione del racconto?
Calore vorticoso si apre con la descrizione di un'assemblea politica in una Roma estiva e soffocante. Fra conferenzieri chiacchieroni e discorsi inconcludenti, Ettore, tormentato dalla noia e dalla nostalgia - prima discreta, poi insistente - di una compagna lontana, si dedica al passatempo, per lui abituale, di inventare dei gruppi di parole che possono essere letti indifferentemente da sinistra a destra o da destra a sinistra: vale a dire dei palindromi. Il primo non è che un attacco, assai inelegante, nei confronti di una donna deputato che parla troppo; a poco a poco, però, l'immaginazione si scatena e ogni argomento diventa occasione di infinite variazioni. Alla fine il nostro eroe se ne va all'inglese, ma uscendo dal parcheggio innesca per errore la retromarcia e danneggia l'automobile vicina; piccolo incidente che, una volta rientrato a casa, lo impensierisce:

«Sentiva un disagio vago, come se il cervello gli friggesse dentro: forse aveva un pochino di febbre. Se no, non si sarebbe spiegato il fatto della marcia indietro: modestia a parte, era un guidatore abile ed attento».36

Un altro incidente, del tutto trascurabile, sopravviene l'indomani:

«Si sentiva la barba lunga, ma non aveva voglia di radersi. [...] Passò una brutta notte, popolata di sogni sgangherati ed angosciosi. Il mattino dopo si alzò, si lavò e prese il rasoio elettrico, ma poi si toccò le guance e le trovò lisce. Si sentì gonfiare dentro un'ondata d'inquietudine: ieri la marcia indietro, e adesso anche la barba...? O si era raso la sera avanti? Rimase perplesso davanti allo specchio, in maglietta, con le dita sulle guance [...]».37

Che cosa sta succedendo? Colpa del caldo, della cattiva notte trascorsa, o dell'abitudine, maturata con l'età («Quando uno passa i quaranta da scapolo»...),38 di scrivere frasi retrograde?

«[S]i avviò al comodino e guardò con timore l'orologio da polso che vi stava appoggiato: se avesse visto la lancetta dei secondi girare all'indietro, allora sarebbe stata finita. Ma no, tutto era in ordine. Non c'era niente di obiettivo, nessun sintomo concreto, doveva essere stata tutta colpa dell'afa e dell'umidità. O soci, troverò la causa, la sua: calore vorticoso. Ad ogni modo sarebbe stato più cauto, d'ora in avanti: non avrebbe più esagerato. Non era detto che anche quel vizio non presentasse qualche pericolo, ma del resto, in arts it is repose to life: è filo teso per siti strani».39

Questo piccolo testo di sole quattro pagine è uno dei racconti più riusciti di tutto Levi: il soprannaturale vi si insinua in modo progressivo e ambiguo, senza che si possa stabilire, in nessun momento, quel che è veramente accaduto. Come in certi racconti di Tabucchi (per esempio Any Where Out of the World, di cui parleremo fra breve), tutto comincia con un nonnulla, un gioco inoffensivo; ma se il soprannaturale ci sfugge per la sua tenuità, l'ipotesi razionalizzante - l'afa che stordisce Ettore, suscitando illusioni perturbanti - è lì, occultata ma presente fin dal titolo del racconto, come a sottolineare l'immanenza sorniona del modello classico, «todoroviano».40 Sembra quasi di leggere un testo di Julio Cortázar, un esempio di quel fantastico interstiziale che lo scrittore argentino teorizza a partire dagli anni Sessanta.41 Soprattutto, e proprio come nei racconti di Cortázar o di Tabucchi, Calore vorticoso mette in scena un soprannaturale - o l'ipotesi di un soprannaturale - che nasce dal linguaggio e dal gioco con il linguaggio, da quei palindromi che, tramite la loro struttura paradossale, possono svelare una verità nascosta, e appartengono, in fondo, alla stessa categoria delle formule magiche:

«Ricontrollò, leggendo da destra a sinistra: sì, era giusta. Ma giusta non vuol dire vera: guai se tutte le frasi reversibili fossero vere, fossero sentenze d'oracolo. Eppure... eppure, quando le leggi a rovescio, e il conto torna, c'è qualcosa in loro, qualcosa di magico, di rivelatorio: lo sapevano anche i latini, e le scrivevano sulle meridiane, Sator Arepo tenet opera rotas, In gyrum imus nocte et consumimur igni».42

Alcuni scrittori fantastici, o che hanno sperimentato generi vicini al fantastico, hanno lasciato interessanti testimonianze sulla maniera in cui componevano i loro racconti: Gianni Rodari lavorava a partire da ipotesi fantastiche, Ray Bradbury su lunghe liste di parole, Italo Calvino con immagini e concetti...43 Anche in assenza di dichiarazioni d'autore, i palindromi di Levi possono essere utilizzati per arricchire questo dossier. La risposta che cercavamo è insomma la seguente: in Levi il fantastico nasce dal linguaggio; il suo elemento primo è sempre una certa alterazione del rapporto che lega il significato al significante.
Ma appena enunciata tale conclusione, è necessario prevenire due possibili obiezioni. Innanzitutto, bisogna intendersi: «elemento primo» va preso in un senso rigorosamente strutturale; si tratta, come si accennava, del punto di partenza per la costruzione di un racconto. In Levi il fantastico non è, e non potrebbe essere, esclusivamente un gioco con il linguaggio, un'operazione di ingegneria letteraria, un esercizio cerebrale sui generi, i temi, gli stili; se il fantastico fosse solo questo, non varrebbe la pena di scriverlo. L'errore più grossolano, parlando di Levi, consisterebbe nel sottovalutare l'impulso etico e conoscitivo situato all'origine della sua scrittura: nel dimenticare che Levi è stato spinto alla letteratura dall'esperienza del campo di concentramento. La miglior conferma viene dalle parole dello scrittore il quale, in una sorta di auto-intervista che redige nel 1976, sotto forma di Appendice a «Se questo è un uomo», per rispondere alle domande che gli vengono rivolte sul suo romanzo d'esordio, dichiara senza ambiguità: «se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla».44 E ancora: «È stata l'esperienza del Lager a costringermi a scrivere».45 Perfino in un testo come Calore vorticoso, così sofisticato che ci ricorda il Cortázar più sofisticato, l'occasione affinché il soprannaturale si manifesti - un soprannaturale metalinguistico e ironico quant'altri mai - è fornita da una manifestazione politica: e il racconto si apre all'insegna della democrazia come impegno e «partecipazione dal basso».46
In secondo luogo, si potrebbe obiettare che non ci sono palindromi, né giochi di parole, negli altri testi fantastici di Levi. È vero che Calore vorticoso è un caso limite: ma proprio qui risiede il suo maggior interesse, perché ci permette di osservare allo stato puro, come in un esperimento di laboratorio, fenomeni che non si presentano altrove con la medesima chiarezza. Quel che accade in modo esibito ed eclatante in Calore vorticoso accade in tutti i racconti fantastici di Levi: all'inizio c'è sempre un'invenzione linguistica. Si tratta, talora, di una parola di formazione del tutto ortodossa secondo le norme della creatività linguistica, ma assurda sul piano semantico (assurda almeno a tutt'oggi, dato che la realtà si diverte spesso a letteralizzare i sogni più sfrenati della fantascienza): è il caso di testi come I mnemagoghi, Il Versificatore, Alcune applicazioni del Mimete. In altre occasioni, Levi lavora su una suggestione fonica, uno degli Odradek o degli Adbekunkus cui ci hanno abituati Kafka e Cortázar: appartengono a questa seconda categoria di racconti Vilmy e Knall. Spesso, poi, è un termine pseudo-scientifico che cattura l'attenzione dello scrittore, la voce fittizia di una falsa tassonomia alla Linneo: «Cladonia rapida», Versamina, ecc. Il «vizio di forma» (titolo della raccolta del 1971) è nel linguaggio, prima di essere nella realtà; è la faglia che separa il significante e il significato, o che corrompe dall'interno l'uno o l'altro, secondo alcune possibilità fondamentali: quella di un significato letteralmente inaudito, come nei racconti del primo gruppo; quella di un significante puro, che non significa nulla, come nei racconti del secondo; quella di un significante che simula la precisione univoca e senza ambiguità del linguaggio scientifico, come nei racconti dell'ultima categoria.
Interesse per il linguaggio e funzione etico-conoscitiva della letteratura: queste, che sono le caratteristiche fondamentali del fantastico in Levi, si ritrovano nelle opere di argomento concentrazionario. Non dobbiamo naturalmente stupirci se chi ha intrapreso una carriera letteraria allo scopo di esercitare un'azione concreta sulla realtà tende ad attribuire alle parole un peso notevole: quando il rapporto fra le cose e il linguaggio che le rappresenta subisce un'alterazione, in un senso o nell'altro, la strada è aperta verso qualsiasi aberrante mostruosità. La retorica ipocrita e menzognera dell'eufemismo ha preceduto e accompagnato l'ascesa del nazismo e l'istituzione del suo apparato di sterminio; il nazismo, vizio di forma per eccellenza, aveva bisogno di un linguaggio fondamentalmente viziato per esprimersi:

«la gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager [...]. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva "sterminio" ma "soluzione definitiva", non "deportazione" ma "trasferimento", non "uccisione col gas" ma "trattamento speciale", e così via».47

 

§ VI. Antonio Tabucchi Torna al sommario dell'articolo

V. Giorgio Manganelli

Fino a oggi, Giorgio Manganelli non ha suscitato particolare entusiasmo da parte degli specialisti del fantastico; è stato studiato per altre ragioni: la sua scrittura barocca, il gusto per l'iper-letteratura, i rapporti con il grande modello Gadda, la partecipazione al Gruppo 63, il rifiuto argomentato del romanzo, ecc. D'altra parte, l'immagine più corrente della sua opera non evoca il genere che ci interessa, ma il trattato, o il commento, o l'invenzione metafisica, o il paradosso. Beninteso, si tratta di un'immagine pienamente giustificata: basta pensare a opere come Hilarotragoedia (1964), Nuovo commento (1969), Agli dèi ulteriori (1972), per constatare come queste etichette generiche siano appropriate.
Eppure, esiste anche un Manganelli fantastico: quello di Centuria (1979). Il sottotitolo di quest'opera recita: Cento piccoli romanzi fiume; si tratta, in effetti, di una raccolta di racconti brevissimi, quasi dei racconti-sonetto (l'immagine è dello scrittore),48 fra i quali, appunto, numerosi appartengono al genere fantastico. Qui ci occuperemo dei testi dedicati ai fantasmi, vale a dire Quarantuno, Quarantasei e Cinquantaquattro, e analizzeremo in dettaglio il primo di essi.
Come si comportano i fantasmi di Manganelli? Quarantuno è un vero e proprio trattatello di teoria dei trapassati. Essi abitano castelli in rovina: «Naturalmente abita in un castello, in condizioni men che mediocri, e desolato. Ci sono topi, civette, pipistrelli»;49 castelli che sono, per sovrammercato, situati in regioni inaccessibili: «l'itinerario per raggiungerlo è lungo, tortuoso, e include un ponte pericolante».50 Tali dimore sono destinate ad andare lentamente in rovina, fino all'inevitabile crollo finale: «È del tutto probabile che il castello sia destinato ad una continuata decadenza, fino al disfacimento totale».51 Chiusi nei loro manieri, i fantasmi si dedicano di tanto in tanto alle attività acustiche che erano prerogativa dei loro colleghi ottocenteschi: «Un fantasma può meditare, leggere, camminare, e se è abbastanza stupido o annoiato, fare rumori e scuotere le tende; questo, naturalmente, se c'è qualcuno da spaventare».52 Inoltre, i fantasmi di Manganelli sono soggetti a regole innumerevoli e minuziose, che limitano in ogni modo il loro raggio d'azione: «Un fantasma può lasciare il castello che gli è stato assegnato solo per una settimana dopo il primo secolo, due dopo il secondo, e così via: una faccenda abbastanza burocratica».53 Codesta burocrazia dell'aldilà si rivela addirittura paradossale nei suoi esiti: «Desidera incontrare per qualche giorno, per qualche ora un altro fantasma? Si chiede di che mai parlerebbero; formali come sono i fantasmi, dovrebbero passare la maggior parte del loro tempo nelle presentazioni. Finite le presentazioni, dovrebbero cominciare le cerimonie di congedo».54 I fantasmi, infine, hanno orrore della vita in città: «Sa che ci sono fantasmi anche in città, ma l'idea di recarsi laggiù, dopo un secolo di solitudine, gli fa orrore».55
Fin qui, niente di sorprendente, anzi: questi materiali appartengono a un repertorio ben noto al lettore di ghost stories. Che il fantasma abiti fatiscenti manieri, e sottolinei la sua presenza scuotendo tende e catene, è talmente ovvio da rendere superfluo il rinvio a esempi più o meno illustri. Il castello che cade a pezzi, fino al catastrofico disfacimento conclusivo? Ma è gotico della più bell'acqua! Pensiamo alla lunga tradizione che da The Castle of Otranto (1764) arriva fino al Château des Carpathes (1902), passando attraverso The Fall of the House of Usher (1839) e Metzengerstein (1840); e chi desideri esempi italiani, li troverà facilmente, per esempio in Buzzati, e nel racconto Eppure battono alla porta (I sette messaggeri, 1942). Tutti i testi che ho elencato si chiudono, direi fatalmente, sullo stesso crollo tonitruante. La rigidissima etichetta cui sono sottoposti i trapassati è ancora un luogo comune: il fantasma compare a mezzanotte e a scadenze fisse, il fantasma non può rispondere a chi gli rivolge la parola, il fantasma può frequentare solo i luoghi che sono predisposti ad accoglierlo, ecc. Chi vorrà meravigliarsi, infine, che gli spettri non amino le città moderne? Il fantastico, il perturbante, l'orrido, hanno bisogno di luoghi adatti, altri, per manifestarsi: luoghi che siano capaci, per così dire, di contenerli. Così, nel secondo capitolo di Dracula (1897) di Bram Stoker, il Conte dice di non poter risolversi a vivere, lui che discende da un'antica schiatta nobiliare, in una casa moderna.56
Insomma, Manganelli sceglie materiali ben codificati, o addirittura ciarpame del più trito, per poter condurre con maggior sicurezza il suo gioco parodico: che in Quarantuno, lo si è visto, prende di mira la burocrazia dell'aldilà, o la stupidità del fantasma scuoti-tendaggi («i soliti stronzi scherzi dei fantasmi», come si legge in Hilarotragoedia).57 Perfino la strategia non è nuova; la tradizione parodica del romanzo gotico, e quella della ghost story, si comportavano esattamente nello stesso modo: utilizzavano i più scontati luoghi comuni, li accumulavano in un catalogo, per deridere il genere presentandone una versione iperbolica e paradossale. Così avevano fatto, fin dal secondo decennio del secolo diciannovesimo, Jane Austen (Northanger Abbey, 1818), Thomas Love Peacock (Nightmare Abbey, 1818), Charles Dickens (A Christmas Tree, 1850), Hermann Melville (The Apple-Tree Table, or Original Spiritual Manifestations, 1856), Oscar Wilde (The Canterville Ghost, 1887), Jerome Klapka Jerome (Told After Supper, 1891), e chi più ne ha più ne metta. Manganelli aggiunge alla ricetta tradizionale il gusto per la casistica che lo contraddistingue: si legga, sempre in Quarantuno, la minuziosa, estenuante successione delle ipotesi su un'eventuale visita del fantasma a un altro fantasma.
Il riuso di un repertorio topico in Quarantuno - e negli altri testi che descrivono, per usare una bella formulazione di Ambrose Bierce, il comportamento dei fantasmi - consente a Manganelli la più efficace delle soluzioni di aggiornamento: quella che costruisce il nuovo a partire da ciò che è vecchio, e vecchio a tal punto, da apparire ovvio. Il fantasma fa tutto ciò che gli viene prescritto dalla tradizione, nulla di più; è molto meno audace dell'unicorno che prende l'autobus, del basilisco che dissimula il suo sguardo micidiale indossando «occhiali neri molto spessi», o dell'anfesibéna in bicicletta (tutti e tre questi allegri compari figurano in un altro dei raccontini di Centuria, Novantacinque).58 Ma, proprio per questo, il fantasma si annoia:

«Il fantasma è annoiato; è difficile, per un fantasma, non provare, per gran parte del tempo, un profondo, lento senso di noia».59

Wilde l'aveva anticipato: non è facile la vita dei trapassati... Ecco allora che la principale occupazione dei fantasmi manganelliani diventa la ricerca di un contatto: non tanto con i vivi - il fantasma non ha vero interesse per loro, solo un po' di curiosità egocentrica -60 quanto con altri trapassati. Forse per questo il fantasma di Quarantasei sta affacciato alla finestra: nell'attesa vaga di un'apparizione soprannaturale (pensiamo a The Turn of the Screw di Henry James, dove le finestre di Bly, e i prati circostanti, sono teatro di apparizioni memorabili, per esempio quella del capitolo X). Ecco il passo manganelliano:

«Il fantasma è affacciato, svagatamente, alla grande, logora finestra del castello; è notte, ed egli guarda i ripidi pendii, le valli anguste, dominate dalle rovine del suo castello».61

Una conferma di questa interpretazione può venire dal paragone con gli altri due raccontini di Centuria dedicati ai fantasmi: in entrambi compare il tema della «sommessa conversazione» dei morti,62 che viene utilizzato del resto anche altrove, e per altre creature immaginarie (il doppio, il drago, il diavolo).63

 

Specificità del fantastico italiano Torna al sommario dell'articolo

VI. Antonio Tabucchi

I termini «postmoderno» e «postmodernismo» cominciano a circolare «all'inizio degli anni Settanta»,64 e ben presto si trovano al centro di un appassionato dibattito cui partecipano storici e filosofi, teorici della cultura e della letteratura, critici militanti e storici della letteratura. Non è possibile, qui, prendere posizione sulla questione teorica; dobbiamo accontentarci di una definizione per così dire «minima», eppure utile da un punto di vista pragmatico: chiameremo allora «postmoderna» l'epoca che comincia grosso modo negli anni Cinquanta del Novecento, e ci limiteremo a sottolineare, fra le caratteristiche della letteratura dell'età postmoderna, il suo atteggiamento al tempo stesso ironico e nostalgico nei confronti della tradizione. Tale miscuglio di nostalgia e ironia caratterizza anche molti testi fantastici, e già ne abbiamo visto qualche esempio: non è più possibile - sembrano dire gli autori «postmoderni» - scrivere racconti come si faceva nell'Ottocento, quel modello è invecchiato e troppe cose sono cambiate, è necessario adottare un filtro che consenta un'assunzione meditata e non ingenua del codice. I racconti di Antonio Tabucchi forniscono esempi interessanti: essi recuperano i luoghi comuni del fantastico ottocentesco, i Grandi Temi ma anche le procedure stilistiche e retoriche, per sottoporli a un trattamento ironico. Le raccolte che contengono racconti fantastici sono tre: Il gioco del rovescio (1981), Piccoli equivoci senza importanza (1985) e L'angelo nero (1991); qui analizzeremo Any Where Out of the World, che fa parte della seconda.
Preliminarmente, non è inutile osservare che lo stesso Tabucchi ascrive questo testo al genere che ci interessa, nella Nota che apre la raccolta: «Non avrei niente da obbiettare se Gli incanti e Any where out of the world fossero considerati due racconti di fantasmi».65 Eppure, il racconto si apre in tono dimesso, senza nessuno dei segnali sinistri che tanto spesso compaiono negli incipit ottocenteschi, senza edifici in rovina, o narratori che dichiarano di esporre fatti misteriosi e incomprensibili sui quali l'ultimo verdetto spetta al lettore... C'è, in compenso, un ammicco ironico al problema di cominciare - di questi tempi! - un racconto fantastico:

«Come vanno le cose. E cosa le guida. Un niente. A volte può cominciare con un niente, una frase perduta in questo vasto mondo pieno di frasi e di oggetti e di volti, in una grande città come questa, con le sue piazze, e la metropolitana, e la gente che cammina frettolosa uscendo dagli impieghi, i tram, le automobili, i giardini, e poi il fiume placido sul quale scivolano al tramonto i battelli verso la foce, là dove la città si allarga in un suburbio basso e bianco, sbilenco, con grandi pozze vuote fra le case come occhiaie scure e una vegetazione rada e i piccoli caffè sporchi, ristorantini dove si può mangiare in piedi guardando le luci della costa oppure seduti ai tavolini di ferro rosso [...]».66

La città, come spesso in Tabucchi, è Lisbona; il personaggio che la osserva si trova in uno stato d'animo di tranquilla indolenza: passeggia senza mèta, legge il giornale «per pura apatia», progetta una serata al cinema perché - dice a se stesso - «domani è il tuo giorno libero, puoi permetterti di far tardi».67 La lettura degli annunci economici del giornale, e poi di quelli personali, sigilla (con la prevedibile banalità che li contraddistingue) il carattere ovvio e quotidiano della scena; ma a questo punto, una volta consolidato il quadro, ecco l'apparizione che viene a perturbarlo, se è lecito usare un termine così «ottocentesco» per il passo che segue:

«E poi, all'improvviso, il cuore comincia a batterti a precipizio, tum tum tum, te lo senti in gola, ti sembra che possano sentirlo perfino gli avventori degli altri tavoli, il mondo perde i contorni, tutto entra in un'opacità sorda, [...] guardi meglio la frase, la rileggi, senti uno strano sapore in bocca, non è possibile, pensi, è un'orribile coincidenza; e poi valuti la parola "orribile" e pensi: è solo una coincidenza, è solo un caso, un piccolo caso fra i miliardi di casi che ci sono a questo mondo, una cosa che sta succedendo. [...] Rileggi la frase per la decima volta, questo non è un normale annuncio, è una frase clandestina pubblicata a pagamento su un giornale della sera, non indica caselle postali, indirizzi, nomi, imprese, scuole, niente. Solo questo: Any where out of the world».68

Questa frase è il titolo di uno dei poemi in prosa baudelairiani, come già si premurava di ricordare al lettore la Nota citata («sarà forse superfluo specificare che il nume tutelare [del racconto] è Le spleen de Paris di Baudelaire e in particolare il poema in prosa del cui titolo mi sono impossessato»).69 Mentre nel racconto fanno irruzione le citazioni, parte in francese, parte tradotte, private di virgolette, riassorbite dalla scrittura di Tabucchi, veniamo a sapere attraverso successivi flashback memoriali che quattro anni prima il protagonista aveva incontrato e amato una donna già legata a un altro uomo. Entrambi appassionati conoscitori del poeta francese, i due avevano deciso di evadere dalla loro vita «normale» seguendo l'invito a fuggire di alcuni grandi testi baudelairiani (uno di essi, per inciso, è intitolato L'Invitation au voyage, 1855):

«Via da qui, da questo spleen, cerchiamo una città bianca fatta di marmo a fior d'acqua, cerchiamola insieme, una città così o un'altra analoga, non importa dove, da qualche parte, fuori del mondo. Non posso. Puoi, basta volerlo. Ti prego, non mi costringere. Ti manderò un messaggio, io parto, sono già partito, non ce la faccio più, se vuoi mi raggiungerai, compra questo giornale, sarà il segnale, ti dirà dove trovarmi, lascia tutto, non lo saprà nessuno».70

Il messaggio in codice doveva essere appunto Any Where Out of the World; ma qualcosa, certo, non funzionò: già all'inizio del racconto il protagonista si trova da solo e come in incognito a Lisbona («sono qui e nessuno mi conosce, sono un volto anonimo in questa moltitudine di volti anonimi»);71 già all'inizio, egli cerca di allontanare un rimorso («E poi penso anche: nessuno lo sa, nessuno sospetta niente, nessuno potrebbe incolparmi, sono qui, sono libero, posso persino immaginare che non sia successo niente, se lo voglio»).72 Con il titolo di Baudelaire e con i «detriti» e i «rottami di parole»73 dei suoi testi poetici ritorna adesso tutta «quella girandola di sotterfugi, di rimandi, di imbrogli che fu quella storia»:74 inutile dire a se stessi che si tratta di una coincidenza - uno dei meccanismi più cari al fantastico ottocentesco - perché subito interviene una coincidenza alla seconda («È una coincidenza impossibile, perché è una seconda coincidenza, la frase e la data, stessa frase, stessa data»),75 o addirittura una coincidenza all'ennesima potenza (il giornale, sempre lo stesso giornale, lasciato apposta per lui - da chi? - nel ristorante del signor Colva).76 Inutile cercare una conferma a quel che sta accadendo (la fascetta del giornale con l'eventuale nome del protagonista, che il signor Colva non riesce a trovare nel retrobottega: un vero e proprio oggetto mediatore di realtà, secondo le più squisite regole del fantastico classico): «per il semplice motivo che una cosa come questa non può avere nessuna conferma perché non ha spiegazione».77 Inutile, infine, gingillarsi con la pia ipotesi di «un altro lettore di Baudelaire che comunica in questo modo segreto un segreto a qualcun altro»;78 questa «fantasticheria» di universi paralleli è seducente, ma improbabile:

«E per un momento insegui questa strana idea di una ripetizione, di un doppione della vita, come se fosse plausibile che la ruota del destino possedesse degli stereotipi e li andasse imprimendo a caso nel mondo, nell'esistenza di altre persone con occhi differenti e mani differenti e differenti modi di essere persone; in strade differenti, in camere differenti: un altro uomo che ora sta dicendo a un'altra donna in un'altra camera: "Une chambre qui ressemble à une rêverie"».79

L'inesplicabile realtà del fantastico è che quell'increscioso passato ritorna; da qualche parte, fuori del mondo, il fantasma di quell'amore tragico e confuso si è messo in moto per raggiungere chi credeva di averlo sepolto per sempre:

«Anche questo è un numero "ormai", la compagnia telefonica non l'ha più attribuito, non corrisponde a niente, sono cifre che lanciano un segnale acustico verso nessuno, lo sai fin troppo bene da quattro anni. Componi il numero lentamente, senti squillare una volta, due volte, tre volte, poi il ricevitore fa: crec, ma nessuna voce risponde, senti solo una presenza, non è neppure un respiro, perché non respira, dall'altra parte del filo c'è una presenza che sta lì ad ascoltare la presenza del tuo silenzio».80

Tabucchi gioca con il soprannaturale, coltivando l'ambiguità del suo statuto, esitante tra metafora e lettera: e come in molti testi novecenteschi, in Any Where Out of the World sono le valenze metaforiche che sembrano prevalere. Da qui forse il carattere poco «spettacolare» della notificazione dell'evento che perturba la causalità quotidiana: la triplice coincidenza e la telefonata nell'aldilà da parte del protagonista sono sì inquietanti, ma l'effetto di terrore inscritto nel testo non è minimamente paragonabile a quello dei racconti ottocenteschi (e anche questo è tipico del fantastico contemporaneo).
Soprattutto, colpisce in questo racconto il gioco - tutto postmoderno - con il déjà lu: Lisbona è vista attraverso gli occhi di Baudelaire, il messaggio sul giornale è una frase di Baudelaire, tutto il testo è finemente tramato di citazioni, e di rimandi ironici ai meccanismi strutturali del fantastico ottocentesco. A questa altezza cronologica, il fantastico è ormai diventato un gioco: gioco con la letteratura altrui, gioco con il codice ottocentesco, gioco con il lettore che deve essere capace di giocare con Baudelaire e con Tabucchi. Ma attenzione! come in tutti i giochi, ci sono delle regole e una posta in palio; nessuno creda, soprattutto, di poter giocare impunemente:

«lo sapevate solo tu e lei, e la buonanima di Baudelaire. Anche con lui hai giocato, e non si può giocare con certe cose, non si può stuzzicare il mistero che le dettò».81

 

Vai alla fine dell'articolo Torna al sommario dell'articolo

VII. Specificità del fantastico italiano

È possibile, giunti al termine della nostra analisi, indicare un tratto specifico del fantastico italiano novecentesco? Qualcosa che lo contraddistingua rispetto alle altre tradizioni occidentali?
Alcuni fattori di specificità li ho già rilevati nella parte introduttiva del presente saggio: per esempio, l'assenza di una tradizione ottocentesca veramente significativa, o anche il fatto che il fantastico italiano sia originariamente un fenomeno d'importazione. L'esterofilia, il marcato rapporto con gli autori stranieri, è una costante anche dei testi novecenteschi: pensiamo ai legami dell'opera di Landolfi con la letteratura russa, a quelli di Buzzati con la letteratura francese e anglo-americana, e all'importanza dell'esempio sudamericano di Borges, e della rivoluzione oulipienne di Queneau e Perec, per i racconti di Centuria; forse, anzi, le due caratteristiche - paternità assente e xenofilia - sono legate: poiché non esisteva una tradizione ottocentesca autoctona, gli scrittori italiani novecenteschi dovettero cercarsi i modelli all'estero... Altre caratteristiche ricorrenti non sono specifiche della tradizione italiana, ma sembrano proprie del racconto fantastico novecentesco tout court: per esempio la fine dell'effetto di terrore tipico del racconto classico (ottocentesco), o l'affermarsi sempre più marcato delle forme ironico-parodiche, o anche le tentazioni «catalogiche» che abbiamo riscontrato in Manganelli.
Ma se dovessimo identificare una costante che lega fra loro scrittori così vari come Savinio, Landolfi, Levi, Manganelli, Tabucchi, e anche Buzzati, potremmo dire che la tradizione novecentesca italiana è nel complesso sommamente «intelligente» (uso una formula di Gianfranco Contini):82 non soltanto erudita e propensa all'iperletterarietà, ma proprio incline alla «lucidità del controllo», ai «filtri dell'ironia», se si preferisce al «virtuosismo intellettuale».83 Il fantastico diventa agevolmente, nella letteratura novecentesca italiana, un gioco sofisticato, un'acrobazia della mente, una struttura di sconcertante, e forse perturbante, perfezione; che poi il gioco, altrettanto spesso, non sia privo di posta - come nel caso di Tabucchi, e ancor più in quello del fantastico a funzione etico-conoscitiva di Levi -, questo è un altro discorso: diversamente da quel che pensano alcuni teorici,84 gioco non è sinonimo di gratuità.
La letteratura italiana sembra insomma apportare una conferma a quel che sostiene Torodov, seguito da altri studiosi: che il fantastico è la «quintessence de la littérature».85 E qui potremmo ricominciare ad analizzare fenomeni diversi - eppure analoghi in virtù della loro origine - come la litteratissima, costituzionale ambiguità della scrittura di Landolfi, le inesauribili simbologie di Savinio, la riscrittura sistematica della tradizione ottocentesca da parte di Buzzati (accostabile, in questo senso, a Manganelli), la metafisica fantastica dello stesso Manganelli, l'ironia postmoderna di Tabucchi, ecc. Ma sarà meglio concludere, con un'immagine presa in prestito a Filippo Tommaso Marinetti, il teorico del futurismo. Da due secoli a questa parte è ricorrente presso gli scrittori l'illusione dell'après nous le déluge: di essere cioè gli ultimissimi rappresentanti di una letteratura morente, epigoni marci di storia e consapevoli che tutto è già stato detto, che per ripartire bisogna fare tabula rasa. Lo hanno creduto, in epoche e in modi diversi, i romantici, i decadenti, le avanguardie. Ebbene, la tradizione fantastica italiana del Novecento pare tutt'intera obbedire a questa logica; per dirla con la magniloquente immagine marinettiana, il fantastico italiano sembra collocarsi sul promontorio estremo dei secoli: è una tradizione tarda, che viene dopo cent'anni di grande letteratura fantastica europea, che ne è cosciente e si sviluppa perciò sui binari di un forsennato intellettualismo, che si consacra a una sperimentazione raffinata, ambigua, cerebrale. Qui risiedono forse i suoi limiti, ma al tempo stesso le ragioni dello straordinario fascino che esercita su di noi.

 

Precedente Successivo Scheda bibliografica Torna all'inizio dell'articolo Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni


Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2007

<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2007-i/Lazzarin.html>

Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

Free counter and web stats