Carla Gubert
L'occhio e la parola. Funzione costitutiva e funzione rappresentativa del linguaggio in «Le Ore» di Dolores Prato.

 

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«La mia trasformazione avveniva attraverso le parole. [...] Come se varcando quella soglia solenne, misteriosa, semibuia, per me paurosa, automaticamente qualcosa in me si capovolgesse, per un segno di mortificata vergogna, Zizì, il mio Zizì meraviglioso che non faceva prediche, che sapeva tutto, che sorrideva sempre con un sorriso dove c'era moto, arguzia, intelligenza, un sorriso mai ritrovato sulla terra, il mio Zizì lo nascosi dietro la fredda parola di "zio", anzi "lo zio". E mamma Paolina diventò zia, anzi "la zia". [...] Nascosi i nomi coi quali li avevo chiamati dal giorno che mi avevano raccattata, nascosi il bene che mi legava a quei due vecchi, nascosi la pena di averli lasciati, nascosi tutto quello che era stato fino allora e cominciai ad essere quell'altra, quella delle parole diverse».1

Il brano fa parte di una raccolta di appunti preparatori pubblicata in appendice a Le Ore, secondo e ultimo romanzo autobiografico di Dolores Prato,2 uscito postumo. Il progetto complessivo dell'autrice mirava a un racconto restrospettivo in più volumi sull'esistenza trascorsa a Treia, nel maceratese, dove lei viene accolta in casa degli anziani zii dopo l'abbandono da parte di entrambi i genitori. In una lettera a un'amica del 26 ottobre 1978 Prato scrive:

«di libri autobiografici ne ho cinque; questo dell'infanzia naturalmente è il più lungo, perché l'infanzia è un vuoto immenso dove precipitano le cose... l'adolescenza che sarà il collegio con trecento pagine si fa, perché nel collegio non ci sono più cose, ci sono parole».3

La parola, nella ricerca o meglio nella riscoperta della sua funzione rappresentativa dell'individualità, rimbalza come termine in modo ossessivo in tutti gli scritti dell'autrice marchigiana ma assume ne Le Ore un significato ben preciso che investe interamente la cifra stilistica del romanzo e diviene elemento costitutivo sia del modus scribendi sia della personale visione del mondo. Del resto Starobinski ricordava che lo stile, nell'autobiografia, è «il modo d'essere dell'individuo»; in un racconto dove il narratore indossa come tema il proprio passato in chiave esplicitamente autoreferenziale, «lo stile aggiunge il valore autoreferenziale implicito di un modo singolare di eloquio».4
Il caso di quest'autrice è piuttosto curioso:5 Prato, attraversando «il Novecento col suo silenzio potente»,6 rimane sconosciuta fino al 1980, quando pubblica presso Einaudi Giù la piazza non c'è nessuno, un testo di quasi ottocento pagine espunte e ridotte di circa un terzo da una curatrice d'eccezione, Natalia Ginzburg, dal mastodontico dattiloscritto presentato all'editore;7 e subito la critica si interessa a questa signora di ottantasette anni per la particolarità della sua scrittura che mescola dialetti diversi e prosa poetica. Tre anni dopo la scrittrice muore, lasciando incompiuto un testo, Le Ore, che principia esattamente dove il primo si concludeva, vale a dire con l'ingresso nell'«educandato delle visitandine di Treja» e nella fase della pubertà. Il romanzo viene dunque pubblicato quando è ancora in fase creativa e il titolo viene dedotto per mano di Giorgio Zampa, curatore dell'edizione, da un appunto presumibilmente dell'autrice a margine del manoscritto. La scelta di legare il senso ultimo del romanzo al tempo scandito dai ritmi sempre uguali della vita conventuale, fatta di cerimonie liturgiche e rigide pratiche quotidiane, in una dimensione temporale appartata rispetto alla realtà esterna di Treia, sembra del tutto coerente: l'autrice segue le giornate, i mesi, le stagioni trascorse in educandato immergendole in un incorrere monotono, anche nell'enunciazione a livello espressivo, di rituali sempre uguali, in cui i soggetti entrano in uno stato di incoscienza rispetto al flusso dell'esistenza, in cui la ripetitività dei gesti e delle parole (legate alla preghiera e alla formalità dell'obbedienza alla Madrina) svuotano semanticamente il tempo stesso, lo rendono immoto, statico, ripetitivo.8 Il tempo, o meglio la sua quasi assenza all'interno dell'educandato, è dunque un elemento intrinseco alla narrazione giocata su una quanto mai precisa opposizione spaziale interno/esterno.
Ma se la dimensione quasi atemporale investe il racconto autobiografico del periodo trascorso in convento e lo condiziona strutturalmente, la spinta narrativa nasce invece dal linguaggio, dal recupero e dall'evocazione di quelle parole che la vita nel suo svolgersi ha modificato, perduto, abbandonato. Dolores Prato inizia a scrivere del suo passato nel momento in cui la memoria sollecitata rigetta nel presente tutta la ricchezza e la complessità del triplice vocabolario dell'infanzia e dell'adolescenza, legato al dialetto di Treia, alla parlata settentrionale degli zii, all'universo lessicale del convento,9 così diverso rispetto a quello del paese che lo contiene; la scrittrice ad un certo punto della sua esistenza sente la necessità di ritrovare le proprie radici e se stessa: lo fa ridando vitalità a una lingua logorata e svuotata dall'uso, impoverita dalla consuetudine, al suo peculiare idioma che il tempo aveva reso scontato, per ricongiungersi con il primo sguardo aperto sulle cose, quello dell'infanzia.
Tutta la vicenda biografica di Dolores Prato vive di questa frattura irrisolta tra due modi espressivi, tra due realtà, lo spazio familiare del paese e lo spazio omologante del collegio, percepite entrambe come vere; questa scissione profonda dell'io viene identificata dalla scrittrice con il momento topico in cui varca la soglia dell'edificio che la ospiterà per quasi dieci anni e dà l'incipit al romanzo Le Ore come aveva segnato la conclusione di Giù la piazza non c'è nessuno:

«Un battente del gigantesco portone si stava schiudendo e di questo fui cosciente; lo tirava una piccola monaca, la Superiora, e quando fu aperto gli rimase attaccata come una sua appendice. "Questa è Lolita" disse la zia. Varcai la soglia e fatti due passi, rigida come un automa, mi fermai senza pensare di voltarmi indietro per salutarla con uno sguardo. Davanti a me, in penombra, il gruppo delle educande immobili come se fossero di cartapesta. Alle mie spalle il contemporaneo rumore di opposti catorci e paletti mi disse che ero già isolata nell'altro mondo. Non soffrivo e non capivo, ero spezzata».10

Segue una lunga digressione sull'antefatto, sulla risoluzione della zia a consegnare l'educazione di Dolores in mano all'istituzione cattolica e sul silenzio contrariato dello zio sacerdote al riguardo, sulla preparazione accorata del corredo da portarsi appresso e sull'ultimo gesto familiare che segna il momento del vero distacco, con l'uso iterato e significante del termine 'spezzare':

«L'avevo dunque vista, vissuta e patita la lunga vigilia della mia entrata in collegio, ma non mi pareva vero; però quando la zia cominciò a lisciarmi i capelli per portarmici e tornare a casa da sola, con urlo di belva pugnalata le strappai di mano il pettine e lo spezzai, spezzata io stessa da quell'imminenza che distruggeva ogni dubbio. [...] Spezzavo me stessa con urlo diabolico e gesto infernale, dato che spezzarmi bisognava, poi tutto cadde nel niente per me. [...] Il mio primo atto di violenza concluse la lunga infanzia, se l'infanzia può mai concludersi».11

Elsa Morante diceva, a proposito del suo primo romanzo Menzogna e sortilegio, pubblicato per intercessione di Natalia Ginzburg, che il «passaggio dalla fantasia alla coscienza (dalla giovinezza alla maturità) significa per tutti un'esperienza tragica e fondamentale»12 e che per lei aveva coinciso con una «violenza rovinosa» germinata dalla guerra; da lì era derivata però una nostalgica e ironica consapevolezza di sé. La scrittura, soprattutto autobiografica, nasce forse da questo primo trafugamento, dalla perdita dell'incanto delle illusioni infantili attraverso un atto comunque sia lacerante, e dal lungo processo singolativo di definizione e congedo da quella perdita. «La voglia di scrivere verrà più tardi, quando si sarà rotto il filo d'argento dell'infanzia», scrive Agota Kristof,13 una rottura ancora una volta vissuta in maniera traumatica. L'espropriazione linguistica vissuta da Prato (il suo personale lutto) si rivela in tutta la sua portata distruttiva solo molti anni più tardi, quando lei si rende conto di aver subito una forte ripercussione psicologica in termini di insicurezza identitaria, instabilità emotiva, accentuazione della divaricazione con l'altra se stessa e del sentimento di abbandono. Per anni scriverà con un idioma che sente estraneo, asettico, troppo ordinato sintatticamente e semanticamente per poter davvero rappresentare la complessità di un essere frantumato. E infatti la sua vera nascita artistica, non a caso un'autobiografia, avviene quando Dolores Prato si ricongiunge alla bambina che era e si libera del fardello di inadeguatezza rispetto alla lingua italiana. «Io abito ancora a Treia pur non avendola mai più vista da quell'età piccola che non invecchia»14, sostiene nel primo appunto preparatorio a Le Ore. Inizia allora un lavoro minuzioso di ricostruzione di parole perdute, per rinominare nuovamente le cose, ogni cosa, raccogliendo un elenco il più completo possibile condotto su centinaia di schede (un piccolo thesaurus composto dal curatore entra a far parte dell'appendice menzionata ma va registrata l'ingente perdita occorsa quando la sua casa, dopo la morte, venne occupata dai nuovi inquilini); rinominare, ricordare perché ad una cosa si era legata una parola, vuol dire trovare le radici e il percorso della propria formazione di individuo. Ma non solo. Vuole dire anche oltrepassare la rigida e nozionistica regola dell''autonomia del significante', secondo la quale la lacuna tra parola e cosa è di fatto incolmabile.15 Contemporaneamente Prato crea uno stile personalissimo, decostruisce la sintassi delle frasi, mescola termini dialettali con parole italiane, con il risultato di un'affabulazione lasciata sempre aperta, incompiuta, rispecchiando l'imperfezione della ricerca di se stessi.16 Principio e fine si ricongiungono senza soluzione di continuità ma anche senza la necessità di cercare una narrazione diacronica, in quanto la scrittrice sceglie la via dell'evocazione sincronica di singoli episodi che sembrano emergere dal passato in modo frammentario e casuale. In realtà l'ordine scaturisce prepotentemente se non in superficie, a livello di composizione, certo nel legame intrinseco tra episodi narrati e parole, queste ultime scritte spesso in corsivo a significare che informano di sé l'intero brano.17 Lo statuto di realtà che interessa all'autrice non è dato, come detto, dalla rievocazione fedele e strutturata degli avvenimenti esperiti, nonostante la distanza temporale giochi a favore di una ricostruzione lineare, ma dalla verità stessa di ciò che la memoria ha prima trattenuto e poi restituito, dalle immagini e i sentimenti che si affacciano liberamente dal passato e si legano tra loro casualmente, per associazione visiva, sonora, uditiva, creando un filo logico tutto interno all'apparente caos tematico del narrato. Non più immagini, luoghi, persone, oggetti da raccontare ma appunto parole, ciò a cui esse rimandano, perché la via della conoscenza e della coscienza di sé da sempre passa attraverso l'atto di nominare il mondo.
Ne Le Ore ogni termine rimanda a un doppio valore semantico, quello del significato comune (nel paese, nella casa, nel collegio) e quello scaturito dalla Weltanschauung propria della scrittrice; la seconda valenza è l'elemento chiave che consente di squarciare il velo del passato. Nell'educandato «cambiavano le parole, le cose restavano le stesse»,18 ci dice Prato. E ce lo ripete continuamente per affermare con forza che per ritrovare se stessi è necessario legare le cose alle parole, tornare al momento irripetibile della vita, situato nella prima età, in cui la realtà esterna diviene spazio di conquista e l'atto di appropriazione passa attraverso il processo di identificazione, diverso per ognuno, dell'oggetto con il termine che lo deve significare. È il ripercorrere il momento del loro possesso verbale, del dare significato personale alle parole «a seconda delle passioni che mi suscitavano», a volte solo «per la loro musicalità, per la loro lontananza nel tempo, per il loro mistero»,19 che permette di rinnovare il ricordo e di farne narrazione autobiografica.
Dolores Prato vive doppiamente questa esperienza gnoseologica, prima nell'infanzia trascorsa in paese a contatto con l'idioma locale e la lingua diversa, borghese degli zii e poi nel collegio salesiano della Visitazione. Qui incontra parole nuove, musicalmente diverse, che la scrittrice, seguendo mimeticamente la voce e le impressioni di sé bambina al limite della contraddizione, ricorda «veramente belle» perché «dipingevano la cosa che dicevano»20 oppure più stridenti, impoverite, quando rinominano oggetti già noti vestiti di suoni dal sapore ancestrale, legati al dialetto, al folclore, alla terra, al ritmo delle stagioni.

«Quante parole limpide e profumate c'erano in paese che in collegio non avrebbero potuto sopravvivere, 'abbonora' per esempio. Abbonora era alzarsi la mattina prima che la luce tutta si spalancasse [...] era l'Angelus della mattina, tre gruppi di tre tocchi ognuno, poi uno solo il tre per tre e l'unità; [...] abbonora era la purificazione che diventava giorno. [...] Non poteva essere abbonora quel doverci alzare per forza tutti i giorni ad ore antelucane anche quando era tanto freddo».21

Parole perdute fino al momento in cui non vengono ricordate perché la rigida educazione impartita in collegio, nel codice linguistico oltre che comportamentale, ne ha dissipato l'uso e le ha fatte dimenticare; parole che al solo pronunciarle spalancano un florilegio di immagini, di colori, di odori legati all'infanzia; parole sostituite da altre parole che coincidono con la seconda perdita di identità dell'autrice, dopo essere stata rifiutata dai genitori, e radicalizzano l'incertezza referenziale con la decostruzione coercitiva del linguaggio familiare per assumerne un altro estraneo.

«Io ero l'ultima venuta e non sapevo quel che le altre sapevano. Per me erano parole senza radici come le spore trasportate dalla bellezza. Parole che vagavano intorno. Chi le aveva diffuse? Chi le aveva messe insieme»?22

Per Dolores Prato nel nome si nasconde «l'anima delle cose e della persona», nel nome è racchiuso il destino. Questo atteggiamento che Franco Brevini nel suo saggio su Prato definisce giustamente «neoplatonico, secondo cui i nomi corrisponderebbero all'intima natura delle cose»23, è esasperato dal luogo circoscritto e claustrofobico in cui al vedere si sostituisce il sentire e il parlare.

«In paese per me l'universo era negli occhi e nelle parole.
In collegio, stando quasi sempre chiusa, l'universo degli occhi si restrinse a quel panorama, sempre quello, ai corridoi, ai cameroni, si moltiplicò quello delle parole».24

L'atto di unificare suono e significato, un significato mitizzato dove ogni «parola poteva diventare leggenda»,25 assume nell'infanzia una connotazione magica e demiurgica. Così nel convento il nome di ciascuna suora è associato a un referente immaginoso creato dalla sensibilità esasperata della bambina, è trasfigurato e trasportato in una dimensione 'altra', fantasiosa, che lo valorizza o lo giustifica: come suor Margheritina, dove «tra lei e le altre c'era la differenza che c'è tra le margherite e le primule, quelle che crescono lungo i bordi delle strade di campagna, quelle che in casa chiamavano le primavere. Suor Primula avrebbe dovuto essere il suo nome»;26 o suor Celestina, «con gli occhi così azzurri che doveva chiamarsi così, anzi il diminutivo era di troppo».27 E uguale sorte è affidata ai nomi delle compagne, Antonietta, per esempio, la sua «grande» (così sono designate in convento le allieve più anziane assegnate ad ogni nuova arrivata), è l'«arzdora», «vocabolo dal cielo disceso».28 L'innamorata delle parole si è definita Dolores Prato, di ogni suono nuovo magari catturato per caso e fuori contesto: «Un fiotto di sangue del re investì la regina. Quel fiotto fu così nuovo che lo adoperavo appena possibile; fiotto per me significava lamento».29
Tutta la narrazione de Le Ore scaturisce dallo sforzo mnemonico e dalla ricerca espressiva per recuperare tutte le parole disperse dalla vita, nel desiderio irrinunciabile di rinominare daccapo il mondo circostante ritrovando al tempo stesso la spinta primigenia e genuina di questo atto costitutivo legato al linguaggio. L'autobiografia, prendendo a prestito le parole di Carla Locatelli, «si s/vela come passione della scrittura dell'io perduto», manifestando un «bisogno di risignificazione simbolica» che passa attraverso l'«intenzione nominativo-restaurativa».30 Uno scavo profondo nella memoria, quello che si prefigge la scrittrice: un recupero totale dell'infanzia e dell'adolescenza per ricucire lo strappo di un'esistenza inquinata dal senso di abbandono, di rifiuto, di mancanza di radici. Non è il rimpianto né il biasimo quello che cerca Prato, e neppure fare della sua storia un romanzo autobiografico accattivante, e sarebbe facile, ad uso dei lettori, divenendo così una delle tante voci femminili della memoria. La prima impressione leggendo i suoi scritti è che l'autrice scriva in primo luogo per se stessa, con una lucidità a 'ciglio asciutto' che esclude ogni forma di autocompiacimento e rende difficile l'immedesimazione, quasi fossimo chiamati come semplici testimoni e garanti, nell'atto della lettura, di una vita che necessita di affermarsi come autentica. Pochi anni prima di morire Dolores Prato prende la penna in mano e scrive ininterrottamente di sé fino alla fine, per provare la sua presenza e la sua esistenza, per trovare una continuità di individuo di fronte alla discontinuità della vita. Come ha detto Ferretti «il senso dell'autobiografia non è tanto quello di rivivere o far rivivere l'esperienza di un soggetto, ma quello di cercare il senso di questa vita, di questa esperienza, comprendendola in quanto aperta ad un mondo di significati che hanno dato senso a quella vita stessa. [...]. L'autobiografia come ricerca del senso: non solo ricerca del senso per guarire, ma ricerca del senso per vivere».31 Il senso per Dolores Prato è nelle parole, quelle parole che «restarono come bozzoli pieni di sole, nei ricordi fiabeschi della mia povera infanzia».32

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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