Chantal Colomb
Alla ricerca del vero. Lettura di «Il pescatore» in «Onore del vero» di Mario Luzi

 

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Se è vero che Mario Luzi ha aggiunto Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957) alla prima edizione completa delle sue poesie, pubblicata nel 1960 con il titolo Il giusto della vita, è però innegabile che la scrittura del poeta si è evoluta dopo Quaderno gotico (1947). La ricerca metafisica prevale su quella dell'immagine e il soggetto sembra prendere le distanze rispetto al reale.
In alcune poesie, come ne Il pescatore, nella raccolta Onore del vero, l'osservazione fenomenologica prevale sull'espressione della soggettività, al punto che il soggetto sparisce e l'orientamento neoplatonico delle prime raccolte lascia il posto a un'estetica della trasparenza. Possiamo inizialmente leggere Il pescatore come una sorta di descrizione fenomenologica di un paesaggio in riva al mare. E se l'ermetismo vi è meno presente, come avverrà del resto nelle raccolte successive, non è del tutto assente poiché Il pescatore è anche una riflessione poetica sul segreto, su una verità velata, nel senso heideggeriano del termine. Questa ricerca di una verità, del vero, è al centro della poesia che rimanda al titolo della raccolta.

Il pescatore è una poesia di cinque strofe; le prime due hanno carattere descrittivo. Il titolo sembra curiosamente privo di rapporto diretto con la descrizione, poiché nei primi dodici versi non si parla mai di un pescatore. Il poeta è in disparte e dà una descrizione che non corrisponde al titolo, visto che questo è al singolare mentre la strofa descrive soltanto «gente muta», con un nome collettivo.
Se l'azione di cui si parla nei primi tre versi, così come l'evocazione dell'«ora in cui si tirano le reti» (v. 7)1 possono far pensare che si tratti di pescatori, niente porta tuttavia ad associarle al pescatore del titolo. La loro azione è descritta senza essere interpretata e rimane quindi misteriosa; lo stesso si può dire del loro silenzio: questa «gente» è «muta» perché effettivamente non parla oppure è troppo lontana perché chi la descrive possa sentirla?
Nella seconda strofa la poesia si allontana ancor di più dall'argomento del titolo per evocare l'azione del «soffio / di prima estate», e poi l'alba. Ci troviamo di fronte a un paesaggio descritto da un soggetto in disparte che lo presenta tuttavia attraverso le sue percezioni visive. Come i personaggi erano «muti», così il vento non è rivelato per mezzo di percezioni uditive; solo la vista di un soggetto assente, che descrive, può percepire la sua azione sugli elementi esterni («tende», «erba») e sui «capelli» degli uomini, ma non ci dice se è di quelli raggiunti dal «soffio». Il suo essere appartato lo rende un osservatore dell'alba e lo mostra (v. 7) come vero soggetto della descrizione nella misura in cui essa è legata al primo quadro, che rappresentava un'attività marittima: «È l'alba ed è anche l'ora che si tirano le reti». L'alba sembra il vero centro d'interesse della poesia, che la caratterizza a partire dalla terza strofa:

«Tempo sospeso ad alcunché tra oscuro
E manifesto quando pare certo
Che il vero non sia in noi, ma in un segreto
O un miracolo prossimo a svelarsi,
tempo che illude gli uomini e se desta
speranza è la speranza di un prodigio».

«Tempo» funziona più come apposizione a «ora» (vv. 7 e 8) che come vera invocazione, nel senso che nessuna seconda persona permette al poeta di rivolgersi direttamente all'alba. La descrizione dell'alba (vv. 7-12) e la sua interpretazione (terza strofa) sono quindi collocate al centro della poesia, sebbene il titolo costituisca una sorta di smentita alla focalizzazione della lettura sull'alba, soltanto in apparenza oggetto della poesia. Il vero centro della poesia non è né la pesca, né l'alba, ma l'esperienza visiva e interiore. La poesia cerca di descrivere l'esperienza dell'alba vissuta da un soggetto che non interviene su ciò che vede, e che appare solo alla quarta strofa:

«L'inquietudine fa remote,
strane le ombre là sulla battigia
e sulla rena umida che scruto
tra queste antenne e questi alberi nani».

«Scruto» allude finalmente a colui che sta descrivendo. Egli osserva delle «ombre» che cerca di afferrare, ma che probabilmente gli sfuggono poiché la seconda strofa ha rivelato un'alba ingannevole. La poesia può dunque essere letta come un tentativo di «fenomenologia della percezione» - per riprendere il titolo di Merleau-Ponty - in cui la ricerca è ricerca del «vero» (v. 15), che deve essere raggiunto attraverso un'esperienza sensibile e a cui occorre rendere onore, come suggerisce il titolo della raccolta. L'opposizione tra «luminosa» (v. 9) e «oscuro» (v. 13) rinvia qui tanto al gioco di luci e ombre dell'alba nel paesaggio descritto, quanto alla difficoltà di giungere al «segreto» delle cose (v. 15). Perché l'avvicinarsi al vero ha bisogno di un simile approccio?
In Né tregua, da Primizie del deserto2, la descrizione fenomenologica concentrata nella prima strofa, evidenziata dall'uso di deittici (articoli determinativi e avverbi di luogo) e dall'uso del presente, si oppone alle altre tre strofe che fanno intervenire la soggettività (vorremmo, dobbiamo, darmi) fin dal primo verso. Il principio di una separazione tra il paesaggio e il soggetto è identico a quello presente nel Pescatore. Possiamo quindi chiederci se si possa riconoscervi, da parte del poeta, una precauzione destinata a non confondere paesaggio e soggettività, sulla scia della fenomenologia husserliana. La lettura di Leopardi nel secolo che gli succede tende a mostrare che questa separazione, sebbene non voluta dal poeta, è il segno di un disastro di cui è vittima il mondo moderno. «L'uomo di cultura europeo [...] continuava a vivere scisso tra la inesorabile fenomenologia del reale e l'incapacità di assimilarla» e questo perché è convinto che «il reale sia antinomico rispetto alla coscienza soggettiva e che la coscienza soggettiva debba ridurlo al suo proprio limite anziché aprirsi alla sua inesauribile trasformazione» 3. Questa separazione tra l'uomo e il mondo suscita «inquietudine» poiché il poeta che osserva il mondo dall'esterno non può capirlo e soffre della propria estraneità («strane le ombre»). Questo mondo che resta estraneo al soggetto poetico è fonte di dolore, un dolore espresso in forma di «Invocazione»4, in cui il soggetto viene presentato nell'impossibilità di unirsi al movimento dell'universo. L'approccio fenomenologico utilizzato ne Il pescatore appare dunque molto meno come un modo ideale di avvicinarsi alle cose, che come un tentativo di giungere alla verità nascosta nel cuore dei fenomeni e inaccessibile al soggetto, che ne resta esterno.
L'esperienza che ci è presentata nella poesia è un'esperienza allo stesso modo poetica e intellettuale, poiché ciò che si cerca nel paesaggio è il vero e non solo la bellezza. E l'esperienza dell'alba mette il poeta di fronte all'illusione. L'alba è all'origine della percezione ingannevole, perché «crea vuoti ed immagini» che non esistono nella realtà. Gli ultimi due versi della seconda strofa mostrano questa illusione: gli inganni dell'alba «si dissolvono / rapidi» e la terza strofa definisce l'alba come un «tempo che illude gli uomini» (v. 17). Nonostante ciò, il poeta non condanna l'alba, anzi è legittimo pensare che lo affascini all'«ora che si tirano le reti, / ora che in un brivido d'attesa / e d'incertezza luminosa guizza / di casa in casa, crea vuoti ed immagini», poiché l'esperienza consente al soggetto che scruta le cose di andare oltre l'apparenza. Questa attenzione ai fenomeni permette di giungere al cuore delle cose e di avvicinarsi al «vero»; essa insegna al poeta, attraverso l'illusione di cui è stato vittima all'alba, che non è lui a possedere il «vero» e che occorre attingerlo al cuore delle cose: «il vero non sta in noi, ma in un segreto / o un miracolo prossimo a svelarsi» (vv. 15-16). Mario Luzi utilizza qui una lingua quasi heideggeriana, sviluppando la tematica dello svelamento che non può non ricordare il concetto heideggeriano di verità come αληθεια e fa riferimento ad un'ora «luminosa» che può far pensare alla «radura dell'essente» (Lichtung des Seins) di Heidegger. Stefano Verdino va nella stessa direzione quando, nel saggio su Onore del vero, parla dell'«antinomia essere-nulla di Heidegger ([...] filosofo significativamente presente a Luzi), come nella situazione di Il pescatore».5 Ma Mario Luzi tratta questo concetto poeticamente poiché, se il vocabolario filosofico è presente con il «vero» - è da notare che Luzi preferisce questo termine a «verità», più astratto -, si tratta comunque dell'alba e in «svelarsi» ritroviamo la rappresentazione allegorica, omerica, dell'alba che si spoglia dei veli. Il «tempo sospeso ad alcunché tra oscuro / e manifesto» designa tanto il passaggio dalla notte al giorno quanto quello dell'illusione alla verità, presentato mentre resta sospeso. Questo «segreto» evocato dal poeta è il segreto dell'essere nel senso heideggeriano del termine? La poesia ce lo fa pensare, pur non essendo riducibile ad una mera lettura ontologica.
In una preghiera (Perdonami) rivolta a una persona o a un dio indeterminato, il poeta si accusa di violare insieme «luoghi arcani» e di cercarvi ciò che dovrebbe poter trovare «prossimo», dando così voce al suo senso del sacro. Il segreto dell'alba deve restare intatto; l'esperienza del poeta, che gli ha permesso di andare oltre l'apparenza, ha toccato una regione sacra sulla quale incombe un divieto. Se il desiderio ha condotto il poeta verso l'Assoluto, appena lo ha sfiorato ecco insorgere la paura («con gli occhi ansiosi») ed il senso di colpa («Perdonami»). A differenza del pescatore, che prende solo «quel che il mare lascia prendere», il poeta si spinge fino a cercare di cogliere i segreti del mare, che dà invece solo «pochi doni». Supponendo che il titolo della poesia serva a designare metaforicamente il poeta e non solo a nominare il personaggio del pescatore, dobbiamo concludere che si tratta di due pescatori molto diversi. Il poeta vede nel vero pescatore un uomo saggio che prende ciò che il mare concede, mentre sa di voler penetrare un segreto che il mare rifiuta: in questo sta il carattere «umano» (v. 23) della sua ricerca.
Ma qual è il divieto che il poeta cerca, diventando insieme «pescatore» e peccatore? Il poeta dagli «occhi ansiosi» (v. 27) s'identifica nel pescatore che sopporta un «perpetuo affanno» (v. 30). Egli entra così in un universo che gli è proibito proprio perché diventa pescatore solo attraverso l'esperienza poetica, per mezzo della poesia si avvicina al segreto del mare. Questa sorta di identificazione del poeta con il pescatore tormentato potrebbe essere letta in termini lacaniani come la traduzione della paura del poeta a superare il divieto della Cosa: il «mare» sarebbe, attraverso l'esperienza dell'alba come origine, l'eco della «madre», violentata dal poeta in un'incestuosa relazione, fonte di rivelazione - poiché svela il «segreto» - ma anche di terrore davanti al proibito. La separazione tra le cose e la soggettività tradirebbe la sofferenza del dover vivere in un mondo che esclude la fusione, cioè la fusione tra il mare e il soggetto, tra la madre e il figlio.
La fusione è effettivamente ciò che, da Leopardi in poi, il poeta ha coscienza di non poter raggiungere poiché si riconosce diverso dal mondo. In Invocazione Mario Luzi ha saputo esprimere compiutamente il dolore della separazione e la felicità della fusione:

«Era l'ansia di giungere alla cima,
era tra grige fioriture un monte,
errano le città nella tormenta,
era nel cielo sterile uno schianto,
era un'invitazione spenta,
poi fummo le metropoli insistenti,
fummo da nere nuvole la pioggia,
il mare rifiorito del profondo,
tra le macerie un livido fermento».

I primi cinque versi costruiti anaforicamente colgono questa vita nella rottura tra il mondo e il soggetto, mentre gli ultimi quattro esprimono la felicità della fusione; l'avverbio «poi» segna la separazione fra questi due momenti successivi. Il terzo elemento con cui il soggetto si confonde non è altro che il mare, poiché in esso si raggiunge il parossismo della riconciliazione tra il mondo e il soggetto. La metafora «rifiorito» traduce la felicità primitiva delle nozze con il mare, pur in «un livido fermento» visto che da questa unione può nascere solo la morte: «Periva il frutto dell'estate» . La morte appare infatti dopo ogni momento di fusione: «funesta» fa rima con «erba», poiché il soggetto non può unirsi definitivamente all'erba più di quanto possa farlo con l'acqua. Il poeta aspira a una dimensione che l'immobilità dell'essere, evocato dalla metafora della «sfera angosciosa di Parmenide» al verso 82 - che riprende l'immagine parmenidea del verso 43 del Poema: «ευκυκλου σφαιρης εναλιγκιον» (simile alla curva di una sfera arrotondata) -, non permette. Il mare sembra «immobile» (v. 88) al poeta e da questo nasce la sua sofferenza («soffro», v. 86) e la sua angoscia («angosciosa», v. 82). Il mare non può mutare se non in se stesso («in se stesso», v. 90) e non può essere che se stesso. A causa di questa immobilità sfugge al desiderio di viva fusione del poeta, poiché tale aspirazione, che conserva qualcosa dell'apparenza sensibile, lo condanna ad avventurarsi per una strada che Parmenide riteneva illusoria, quella del non-essere: per il filosofo greco infatti nulla esiste al di fuori dell'essere.6 Ne Il pescatore, come anche in Invocazione, il poeta sembra essere tentato dalla possibilità del non-essere: l'alba «crea vuoti e immagini / che se guardi da presso si dissolvono» (vv. 10-11) e il poeta cerca persino ciò che non è «in nessun luogo» (v. 26). Il vero è solo nella «sfera» dell'essere? Luzi sembra dubitarne e volersi avventurare dalle parti del non-essere, mentre esita a vedere nel cammino proibito da Parmenide soltanto una fonte di illusioni.
Si potrebbe spiegare così il tormento che il poeta crede di leggere nella figura del pescatore. Proiettando su di lui la sua profonda insoddisfazione, egli vede il pescatore come vittima di un «perpetuo affanno». Dal viaggio in mare vissuto per procura, il poeta, come il pescatore, potrà riportare solo «pochi doni», oggetti a, derisori in confronto al «prodigio», alla grande A desiderata. Il poeta è alla ricerca di un assoluto inaccessibile; lo sa e lo confessa, quando ammette che quel che cerca non è forse «in nessun luogo». Invocazione mette in evidenza la lucidità del poeta, lettore di Parmenide, quindi perfettamente consapevole del fatto che la via del non-essere è una via pericolosa perché ingannevole. A differenza del poeta, il pescatore non si arrischia su una strada senza uscita; non è nella «speranza di un prodigio» (v. 18). Il prodigio non fa parte dell'attesa del pescatore che «reca / del mare quel che il mare lascia prendere». La modesta figura del pescatore appare come l'emblema della saggezza ma, nonostante tutta la simpatia che il personaggio gli ispira, il poeta non può prenderlo a modello: «è parte dell'umano / cercare come fo in luoghi arcani...» L'esperienza poetica non è assimilabile in tutto al lavoro del pescatore: osa infatti allontanarsi dalla via indicata da Parmenide e, così facendo, si allontana dalla saggezza. Essa può celebrare il vero, ma il vero non sembra potersi limitare alla «sfera» dell'essere.
Nella divisione che caratterizza il mondo della modernità postleopardiana, la fusione tra l'uomo e gli elementi della natura ha perso il suo posto. Questo è il dramma del poeta, ma anche una condizione di fatto che egli rifiuta, poiché la sua arte è incapace di condurlo all'istante dell'unione profonda con le cose, quando i fenomeni svelano il loro segreto e fanno immaginare un avvicinamento definitivo all'assoluto.
L'assoluto non si trova più in un mondo soprasensibile, ereditato da Platone, ma al centro del reale, qui, nel mare. Tuttavia, la «fenomenologia del reale» di cui parla Luzi non è un ideale, ma il contrario, poiché secondo la definizione husserliana, questo approccio al mondo presuppone una distanza del soggetto che non sa proiettarsi sulle cose, né tanto meno unirsi a esse. E in questo consiste forse l'originalità dell'approccio fenomenologico di Luzi: indipendentemente dai suoi apporti (la trasparenza dei fenomeni, l'accesso al loro segreto, al vero, ecc.), questa fenomenologia è vissuta come una tragica necessità. La «fenomenologia del reale» a cui il poeta deve abbandonarsi s'inscrive sullo sfondo di un'infinita sofferenza, quella della separazione ineluttabile tra interno ed esterno, dramma della modernità espresso da Leopardi, sofferenza cui si aggiunge il conflitto interiore del poeta tentato dalla strada del non-essere, da cui Parmenide l'aveva messo in guardia. Mario Luzi, autore di una poesia scritta in «onore del vero» non è forse di fronte all'angoscia esistenziale, all'«angoscia dell'audace» (die Angst des Verwegenen)7 di cui parla Heidegger quando tratta dell'uomo che osa affrontare l'esperienza del nulla? Secondo Luzi quindi, per affrontare il vero, occorre correre il rischio di lasciare la strada più nota per avventurarsi in «luoghi arcani», non privi di pericolo.

[Traduzione dal francese di Anna Frabetti]

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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