Seminario itinerante di Enrico Palandri
(Bordeaux, 20 marzo 2005)

a cura di Stefania Ricciardi e Martine Bovo-Romœuf

 

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Sommario
I.
II.
Prima parte
Seconda parte


 

§ II. Seconda parte

I. Prima parte

Enrico Palandri: Allora, comincerei leggendo questo breve pezzo che ho mandato a Bart, Monica, Laura e Martine, che riguarda un po' il tema di oggi.
Vi leggo: «Il dispatrio, come lo chiama Meneghello, o lo spatrio, come lo chiama Leopardi, è una condizione relativa. A Venezia conosco una signora che abita ai Frari e non va a Piazza San Marco da venticinque anni, mentre credo che lo stesso Gigi Meneghello sarebbe d'accordo con Dionisotti, i Lepschy e i tanti italiani che dal Panizzi ai nostri giorni hanno lavorato alla British Library, nel dire che a Bloomsbury ci si sente a casa. Soprattutto se si è partiti lasciando alle spalle un'Italia che ti aveva cacciato con le leggi razziali, o grondante di sangue e vendette per la nostra feroce storia civile, oppure sospesi in inchieste giudiziarie di durata indefinita o semplicemente bloccati nelle possibilità professionali che invece Londra offre ai giovani laureati (è quest'ultima la categoria più alta degli immigrati italiani a Londra in questi anni). Josif Brodsky racconta di aver sentito la nostalgia passare per sempre un giorno, mentre rimetteva un libro su uno scaffale nella sua casa a New York. Se si pensa al mondo antico, al Medioevo, al nostro Rinascimento o all'Illuminismo, si potrebbe pensare che è proprio nell'epoca racchiusa tra Leopardi e Meneghello che si dà dispatrio; che in fondo prima dei romantici questa unità di lingua, cultura e geografia cui facciamo risalire l'idea di identità nazionale era incomprensibile e che forse domani non ci riguarderà più. Quale idea di spatrio o dispatrio c'è in Da Ponte, Casanova o Goldoni? In Shakespeare o persino in Milton? In Rabelais, Rousseau o Voltaire? In Ovidio o in Marziale? Le peregrinazioni di Ulisse sono, in fondo, tutto il suo mondo ed è piuttosto Foscolo, imbevuto di ideali nazionalisti, a chiamarlo esilio nel sonetto autobiografico A Zacinto. Un Foscolo che anche a proposito di se stesso, dopo il gran gesto di rifiutare l'Austria, non sa bene, una volta arrivato a Londra, se considerarsi un esule italiano o greco. Anche oggi come in ogni epoca ci si sposta dove c'è lavoro, protezione, o dove è necessario sottrarsi alla magistratura. La condizione nomade, che nelle scuole confiniamo al paleolitico, resta sempre con noi e basta per ognuno di noi tracciare un proprio piccolo albero genealogico per rendersene conto. Quindi si potrebbe sostenere che non c'è altro che spatrio e dispatrio e leggere in questa prospettiva la letteratura italiana: dall'esilio di Dante e dal soggiorno avignonese di Petrarca agli avventurieri settecenteschi, per arrivare ad Alfieri, Foscolo e Manzoni. O anche più radicalmente: quanto sono mai state familiari le altre città e regioni italiane ai nostri autori? I viaggi di corte in corte di Tasso, con differenze politiche e religiose che potevano farne un giorno un prediletto e il giorno dopo un pazzo da rinchiudere a S. Anna? O l'atteggiamento di Leopardi con l'affetto per Bologna e la difficoltà a Roma, per non parlare di Napoli, che gli appare sospesa tra civiltà e barbarie? Gli scrittori e i poeti italiani sono sempre stati scrittori di uno straniamento. Da sempre e per sempre orfani del mondo antico, mai davvero accolti da una identità nazionale moderna, afflitti in uguale misura da campanilismo e esterofilia. Nel dopoguerra l'effetto simultaneo della globalizzazione e della necessità di emanciparci dal provincialismo che caratterizzò il ventennio fascista, hanno prodotto una forma di alienazione dall'italianità permanente. Una sorta di alie/nazione, per scriverlo come si faceva negli anni '70: da Pavese e Vittorini attraverso il Gruppo 63, la mia generazione e anche i più giovani di noi, sono tutti cresciuti tra intrecci di letterature. L'assenza del romanzo ottocentesco di formazione ci ha portato a modellare la nostra identità su quella di altre nazioni. Il viaggio dalla provincia alla capitale, che costituisce il cardine del romanzo di formazione, dalle Occasioni perdute di Balzac al David Copperfield di Dickens, e persino l'andirivieni tra campagna e Pietroburgo o Mosca dei personaggi di Anna Karenina o Guerra e pace, per noi non esiste. Qual era il nostro centro? Nievo nel suo capolavoro si muove nel Lombardo-Veneto mentre il viaggio di Renzo Tramaglino a Milano è un disastro in cui riesce solo a mettersi nei guai con la polizia. Milano, Torino, Palermo, Napoli o Venezia non sono mai davvero le province di Roma, restano al contrario al centro di un loro mondo con un conseguente polimorfismo del carattere nazionale. Sono stati avvertiti come centri piuttosto Parigi, Londra o New York. Negli ultimi vent'anni hanno anzi iniziato a diffondersi nel romanzo italiano nuove ambientazioni, dapprima timidamente con i primi libri di De Carlo, Tondelli e Del Giudice e poi in modo sempre più insistito, facendo dell'Europa e del mondo il nostro contesto anche in letteratura. In Italia esistono oggi almeno quattro gruppi che costituiscono altrettante prospettive su questo aspetto: 1) decine di scrittori non italiani che hanno scelto di scrivere in italiano, 2) scrittori molto noti (Muriel Spark o Dona Leon), e chissà quanti altri anonimi che passano qui anni di formazione, che scrivono in altre lingue e 3) numerosi scrittori italiani che hanno vissuto o vivono fuori dall'Italia scrivendo in italiano. A questi si aggiungono oggi 4) scrittori come De Robilant o Orizio, che scelgono di pubblicare prima negli Stati Uniti, tradotti in inglese, e poi in Italia. Forse è proprio questo che condividiamo davvero con gli altri europei, l'erosione dell'identità nazionale, la deriva romantica. Il lungo arco di tempo che dal primo Ottocento al fascismo ha avuto nell'autodefinizione del tipo nazionale il proprio cardine principale è finito, ci è per certi aspetti più distante del Settecento, a noi più simile se non altro perché non tentava di identificare lingua e cultura. Cos'è dunque il dispatrio? In un certo senso si diventa italiani andandosene, l'identità culturale d'origine emerge nel contrasto con l'ambiente che si ha attorno. Dal pentolone in cui ribollono tutte le influenze ci si identifica con quella romantica e nazionale quando si è altrove linguisticamente, culturalmente e geograficamente. Paradossalmente, proprio diventando italiani si smette di esserlo, perché negoziando quotidianamente parti di sé con la società di adozione, si finisce con il dismettere gli abiti della propria educazione assumendo tratti del mondo in cui si vive. L'Italia diviene così un luogo ideale. La nostalgia e la lotta contro la propria nostalgia. Il rimpianto e il rancore. Un'alternativa al presente. Il caso appunto di Luigi Meneghello. Simmetricamente, svanita l'autopercezione della tradizione nazionale, così insufficiente ormai rispetto a ciò in cui siamo immersi, diviene indispensabile vederci attraverso gli occhi degli altri. Siamo Southern Europeans, come dicono gli americani? O occidentali, come devono avvertirci le popolazioni che vengono a vivere tra noi dall'Europa dell'Est? Dove e cosa siamo per loro? L'unità politica europea, al cui interno si spostano e spesso si stabiliscono moltitudini diverse, non ha confini culturalmente certi. Il nord-est ha sviluppato nell'ultimo decennio formidabili legami con l'Europa orientale e settentrionale (in Romania gli imprenditori veneti hanno aperto negli ultimi dieci anni oltre 2000 fabbriche). Di quale territorio geografico stiamo dunque parlando? Non è naturalmente un processo solo italiano. L'Inghilterra, la Francia, la Spagna e la Germania hanno di fronte le stesse trasformazioni. Imparando una lingua e un modo di essere impariamo anche a sentirci a casa in questi diversi paesi, e diversi a casa nostra. In fondo non è importante arrivare a un'unica idea di identità culturale, ma piuttosto cogliere un'occasione meravigliosa, per la letteratura e per la nostra vita, di iniziare a considerare le persone non più italiane, francesi o moldave, ma tutte composte di tratti negoziabili, che si possono apprendere come le lingue, assumere e dismettere, e quindi mai più vittime di pregiudizi razziali o culturali: tutte in qualche modo straniere e quindi in fondo mai più straniere?»
Ecco il tema che volevo proporre: le persone che insegnano qui sono immerse già nei curricula, che vengono ereditati... Io non so se siamo già la generazione che riuscirà a ridiscuterli, a riaprirli. Ecco io, di questa cosa qui ho già parlato, la settimana scorsa, alla Sapienza, dove c'era un convegno su quest'argomento, e c'era Cortellessa, che sta finendo un libro di storia della letteratura, ed i partecipanti a questo convegno erano molto prudenti, perché è difficile adottare un libro prima che sia pubblicato. Io, però, volevo avviare una riflessione per vedere se non altro se riusciamo a costruire una domanda, e se è una domanda che va costruita. Mi chiedo cioè se bisogna prendere le distanze dal modello romantico, a cui sono ancora ispirati i programmi di letteratura, cioè un modello che identifica il territorio geografico, l'identità culturale e la lingua facendo un solo blocco di questi tre elementi, quando invece sono tre pezzi che per ragioni diverse si sono disfatti. In realtà, appunto, l'identità culturale delle nuove generazioni non segue più questo modello storico, se mai l'ha seguito, ma in realtà punti analoghi si trovano nella letteratura francese, e persino in Inghilterra, che sembra un po' distante, cioè nei paesi che hanno fatto la guerra. Molti scrittori sono usciti da questo grande evento, cioè Pavese, la Morante, Calvino, Moravia; poi c'è il gruppo che reagisce a loro, cioè gli scrittori che hanno effettuato questo spostamento sulla ricerca formale, e che in Italia hanno il loro massimo rappresentante nel Gruppo 63. Il gruppo nostro, cioè quello a cui apparteniamo io, Tondelli, De Carlo torna all'affabulazione, a volere scrivere storie. Poi è sorprendente che, nonostante si venga da questo grande evento che è il terrorismo, questo resti fuori dalle narrazioni, mentre iniziano a entrare nella narrativa queste ambientazioni europee, che sono una novità nella letteratura italiana. Per esempio, possiamo citare la Gerusalemme liberata del Tasso, e il Boccaccio, in cui ci sono vicende ambientate nel Mediterraneo, però c'è stato un lungo periodo in cui abbiamo cercato di costruire l'italiano anche attraverso il romanzo. Questo è cambiato, non c'è più solo così tanta Italia nel romanzo ufficiale, ma il modo in cui è raccontata è più poroso. E la geografia è cambiata: quando io nel 1980 sono andato in Inghilterra per la prima volta, mi hanno dato un fogliettino di carta che dovevo riempire per dimostrare che c'erano le condizioni perché potessi rimanere là. Non era proprio come la green card americana, però più o meno la stessa cosa, ma sono andato avanti quattro o cinque anni a dover compilare questo documento. Oggi un ragazzo che viene in Inghilterra non deve assolutamente fare nulla, questi sono dei cambiamenti molto forti nella nostra percezione della geografia, siamo in un territorio che non è più quello dello stato-nazione. Si dà diritto a tutti gli europei di stabilirsi, di spostarsi come vogliono, e questo cambia la composizione di questo trinomio. Poi anche il punto di vista linguistico, che per chi si occupa di letteratura, è più interessante, perché le lingue si imparano. Cioè, io da questo vorrei esprimere la mia speranza che in realtà è proprio l'idea romantica di un sé che è costituito da delle radici, o anche freudiana di un sé costituito da dei traumi, da dei nodi originari della persona, che è poco adatta a quello che noi diventiamo. Secondo me, era molto più in atto un'identità di tipo deleuziano, fatta di pezzi che assumiamo e abbandoniamo, anche appunto nelle biografie delle persone. Vi faccio un esempio molto preciso: quando mi sono trasferito in Inghilterra, in una specie di ostilità che accompagnava come un'ombra l'attrazione che provavo per quel paese, ho iniziato a leggere moltissima letteratura francese, e per un po' di anni ho fatto come da cuscinetto, perché non volevo essere proprio provinciale in una nazione non più bella, ma sicuramente molto meglio organizzata dell'Italia, soprattutto dal punto di vista del mondo letterario. Ha infatti numerose riviste, una biblioteca, la British Library, molto efficiente, dove si lavora meravigliosamente. Questo complesso l'ho un po' attutito non dicendo «ma in Italia», ma tirando fuori Flaubert, Stendhal, cioè un altro romanzo ottocentesco che noi non avevamo, e per un certo periodo c'è stata come un'identità francese, e questo ha funzionato per un po'. Quando non è più stata utile, l'ho scartata. Qualcosa di simile può accadere con i rapporti personali: per esempio uno ha un amico boemo, e per un periodo assume dei tratti di quella identità, attraverso la curiosità, e questi tratti sono continuamente assorbiti e abbandonati. Ecco io vorrei proporre una riflessione sul sé, che ci deve anche dare lo spunto per una domanda: che tipo di personaggio vogliamo nei romanzi? Non più un'idea di sé secondo la visione romantica, ma un'idea fatta di elementi discreti, che vengono assunti e dismessi. Ci sono attualmente molti problemi in questa concezione, però ecco quello vi vorrei comunque proporre. Stefania, magari vuoi intervenire su un'altra cosa?

Stefania Ricciardi: No, continuiamo pure su questa linea.

Mario Barenghi: In realtà, il concetto di patria/dispatria ha un valore diverso a seconda delle lingue. In italiano, patria è una parola piuttosto altisonante. È una parola marmorea che non si maneggia tanto facilmente, e che credo si usi molto difficilmente nella comunicazione. Non so come stiano le cose in francese, io so molto poco il tedesco, ma mi pare che ci siano due termini: uno è Vaterland, che è come patria, e l'altro è Heimat, che invece ha un'accezione più vicina alla parola casa. Ha quindi una maggiore carica affettiva, molto più forte che in Vaterland. Io mi sono chiesto come tradurre Heimat in italiano. In realtà, mi sembra che l'unica espressione equivalente possa essere il mio paese. Però non significa il paese-nazione, ma la località di provenienza e questo è già l'indizio di una differenza di prospettiva. Questa è una prima osservazione. Mi è capitato ultimamente di leggere un saggio di un scrittore franco-libanese, Amin Maalouf, intitolato Les identités meurtrières. Nato in Libano, cristiano ma non maronita, riferisce un'esperienza che gli è capitata molto spesso. Gli chiedono «Ma tu, in fondo, ti senti francese o libanese?» Questo sicuramente è successo ad altri di noi. Io domande del genere le ho sentite fare: «Tu, in fondo, che cosa ti senti: americano, svedese, spagnolo, marocchino?» C'è un assunto molto forte, cioè che l'identità sia una struttura concentrica, un nocciolo duro che costituisce l'essenza dell'identità di ciascuno, e che si dovrebbe identificare con un'etichetta nazionale. Questo è un pregiudizio molto forte, e bisognerebbe cercare di evitarlo perché è veramente un pregiudizio che si fonda su una costituzione ideologica post-rivoluzione francese, che è servita a certi fini politici o storici che adesso non stiamo a ricordare. Torno brevemente al testo di Maalouf che dice in sostanza : «Io sono libanese, e cristiano, e francese, e la mia identità è tutte queste cose insieme». Questo composto chimico è, a rigore, unico. È veramente soltanto suo. Ecco, credo che queste siano riflessioni da tenere presenti, perché venendo da un paese come l'Italia che, come sapete, ha avuto ultimamente ventate localistiche molto forti, per un certo periodo mi ero chiesto se non fosse lecito immaginarsi un'identità come una struttura concentrica, per cui sono milanese, lombardo, italiano, europeo, e così via. Questa è un'immagine fuorviante, perché comunque questa metafora spaziale implica una gerarchia. Ciò che sta in mezzo conta di più, e non credo che sia così, non credo che l'identità sia qualcosa che si possa articolare a tre dimensioni. Ce ne vorrebbero di più, e quindi è meglio lasciare perdere. Dell'identità fanno parte elementi diversi, non solo geografici, naturalmente, anche linguistici, anche culturali, anche religiosi, anche sociali, e questo fascio di tratti distintivi, diciamo così, funziona in maniera diversa a seconda del contesto in cui si vive. Io non mi sento molto cristiano, tanto per dirne una, la mia identità cristiana non la sento in modo molto forte. Immagino che se vivessi in Arabia Saudita, avrei un sentimento diverso.

Laura Rorato: Mi è venuta in mente una cosa, detta da uno scrittore libano-australiano, che ha detto che anche a lui viene spesso rivolta la stessa domanda. Lui risponde: «My home is in my mind». Ciò si collega a quanto ha appena detto Barenghi. È difficile dare un peso a tutte queste cose, a tutte queste componenti, facendole stare in una struttura concentrica. Penso che sia vero quello che hai detto tu. Io per esempio, mi chiedo da dove provengo. Sono nata in Friuli, mia madre è piemontese e mio padre è friulano, ho vissuto nelle Marche, io sento veramente l'identità come qualcosa che tiene insieme diversi elementi.

Enrico Palandri: Ma soprattutto presuppone che a casa tua si parlasse una lingua con accenti diversi. Secondo me, il modello storico non sta cambiando per chi, come me, o come te, è uscito. Secondo me, sta cambiando per tutti.

Frédéric Dutheil: Voi italiani, è la vostra identità che state un po' negando. Voi partite da un concetto, quello di patria, che è stato sempre debole in Italia, e noi francesi partiamo da un concetto che è più pesante, ma in realtà noi francesi abbiamo scelto di essere francesi. Un francese su tre ha un nonno straniero, cioè l'adozione della nazionalità francese è un processo che è stato molto complesso. È vero che ciò avviene attraverso la scuola francese che schiaccia con un modello di «integrazione» che è in realtà un modello di disintegrazione delle identità precedenti. Attualmente in Francia si dice che questo modello non funzioni e tutti dicono che avremo in Francia dei gruppi etnici che conserveranno la loro identità, la loro religione; quello che fa sempre paura è la religione musulmana. Magari ci saranno dei gruppi di rumeni, di sloveni... Loro, se non funziona quel modello schiacciatutto della scuola, non prenderanno quella mezza identità francese, ma per me è un discorso sorpassato perché mi sento completamente europeo, più francese che italiano. Nell'andirivieni fra Francia e Italia, io mi sento italiano in Francia e francese in Italia, e il solo modo di avere un'identità è attraverso la differenza. Io non sono orgoglioso della letteratura francese, perché certe volte mi pare più debole di quella italiana, che voi criticate, in un certo senso. C'è la letteratura di Stendhal, che scrive in gran parte sull'Italia, o anche quella di scrittori molto celebri come Montaigne, ma c'è anche uno scrittore come Mauriac che è di grande provincialismo, che pure diventa universale. Qui nel sud-ovest, si dice «Vivre au pays»: i giovani non vogliono migrare a Parigi, o tutti quelli che si stanno preparando al mestiere dell'insegnamento hanno una paura terribile di trasferirsi a Thionville, a Forbach, a Valenciennes, tutti quei paesi terribili della frontiera che provocano uno straniamento tremendo. Tutti vorrebbero continuare a vivere nelle Landes, in Dordogne, andare la domenica alla dune du Pyla. L'identità si fa attraverso l'attaccamento a dei luoghi, ma non si può chiamare patria, non ha più senso. Siamo usciti dalla guerra da sessant'anni, e quindi non abbiamo più un nemico, l'identità si costituiva anche in opposizione al tedesco.

Enrico Palandri: Però noi costruiamo questa identità, capisci, è un lavoro che facciamo. O no? A me pare di sì. Quando dici «Questo è il programma di letteratura che studierete», cos'altro stai facendo se non dare dei suggerimenti su qualcosa? E nella mia educazione c'è sempre stato questo contrasto molto forte tra quello che facevo a scuola, che era l'italiano, e che mi sembrava insufficiente rispetto agli stimoli anche letterari in cui ero immerso. È questo secondo me il nodo che dobbiamo affrontare anche professionalmente. Si può fare un tipo di storia letteraria anche diversa.

Mario Barenghi: Finora ci siamo dedicati a smontare il termine patria e credo che vada bene. Vorrei aggiungere solo una postilla: in Italia il concetto di patria è stato molto forte per un secolo e mezzo, si è indebolito dopo il fascismo, in seguito è diventato una parola impronunciabile. Credo che ci ricordiamo quando Berlinguer finì un discorso dicendo «questa nostra patria» e il giorno dopo, su tutti i giornali, veniva messo in luce questo dato lessicale sorprendente. C'è un altro elemento da tenere presente. C'è una frase di Pessoa che, tra l'altro, Tabucchi cita in Sostiene Pereira. Pessoa dice che la sua patria è la lingua portoghese. È vero che tutte queste cose sull'identità complessa sono fondate, però la lingua è un fattore d'identità molto forte. Qui la prospettiva cambia, un po' perché una cosa è essere bilingui, una cosa è usare una lingua straniera e capirla un po', una cosa è abbandonare la propria lingua materna per assumerne un'altra. Comincerei col dire che quando si assume una lingua, ci si mette dei panni che sono molto precisi, cioè si stabilisce un confine abbastanza marcato... L'identità individuale è difficile da definire nel parlato, è il codice linguistico che lo è. Credo di non dire niente di nuovo se dico che l'Italia ha vissuto secoli di diglossia, per cui la lingua parlata era quasi ovunque il dialetto e l'italiano era una lingua essenzialmente scritta, che si usava con i forestieri. Non è da tanto che la maggioranza degli italiani ha l'italiano come lingua materna.

Laura Rorato: Mi viene in mente quanto ha detto Maria Rosa, che si collega a quanto ha detto Mario Barenghi. Lei dice che è cresciuta tra la Sicilia, Firenze e poi Bologna; costretta ad utilizzare l'italiano in casa, per problemi particolari, si sentiva sempre un'esiliata, ovunque fosse, perché quando era in Sicilia non parlava in siciliano, a Bologna la gente parlava il bolognese, mentre lei parlava l'italiano, quindi è arrivata alla conclusione di scegliere Roma, privilegiando la sua identità siciliana, che sentiva quella più minacciata. Ciò si collega a quanto hai detto tu. Questo è un paradosso in quanto la lingua italiana, che avrebbe dovuto darle questo senso d'identità, era quanto la faceva sentire un'aliena, ovunque si trovasse, perché non sentiva di appartenere a nessun mondo. Oppure c'è una bambina che è originaria di Roma, e che passa molti anni nella provincia bergamasca perché la mamma è costretta a insegnare in un paesino del bergamasco, e questa bambina, seguendo la mamma nel Nord, usa parole locali. All'inizio viene presa in giro, perché ha un accento diverso, poi quando arriva a Roma per la vacanze viene nuovamente presa in giro perché usa parole che non sono usate.

Enrico Palandri: Tra questi tre elementi che proponevo: la lingua, la geografia e la cultura, diciamo che la lingua è la più importante, ma in futuro...

Laura Rorato: Secondo me, il problema del bilinguismo è quello che diceva Barenghi: una cosa è essere bilingui...

Enrico Palandri: Cosa che io non sono...

Laura Rorato: Neanch'io, io posso scriverti un saggio in inglese, ma non è la mia lingua, non la sento come tale, il bilinguismo è un concetto molto complesso.

Enrico Palandri: Bisogna essere bilingui dalla nascita.

Laura Rorato: Sì, è vero, bisogna esserlo dall'infanzia. A volte, ti riesce meglio esprimerti in un'altra lingua, perché hai fatto delle letture particolari; ma non sei bilingue, e quindi è sempre una fatica. Chissà se un domani avremo veramente una generazione bilingue, perché lo spostarsi non è sufficiente.

Enrico Palandri: È vero, però, ci sono figli di coppie miste, per questo ho detto «per la mia generazione». Forse siamo i primi a spostarsi massicciamente in Europa. Forse è diverso nelle Fiandre: lì non nascete quasi tutti bilingui?

Bart Van Den Bossche: No, ormai non più. Perché, per esempio, la letteratura belga non viene insegnata. Anche nell'Ottocento, Baudelaire diceva che i belgi "sparlavano" il francese. Era apparentemente corretto, però mal parlato, perché dietro c'è un'altra lingua. La stessa cosa diciamo degli olandesi perché parlano l'olandese in francese. Sicuramente è un caso molto strano, perché le lingue che si parlano non sono quelle che si scrivono, la tradizione letteraria che si studia appartiene ad altri paesi. Quindi è un rapporto eccentrico per definizione.

Enrico Palandri: Però stranamente, al centro dell'Europa...

Bart Van Den Bossche: Stranamente, al centro dell'Europa, e poi dal punto di vista della tradizione letteraria, se torniamo indietro, ma neanche di cent'anni, i grandi scrittori fiamminghi sono scrittori di lingua francese e anche quello è un fatto molto strano. Ormai i giovani studiano il francese come una lingua straniera, a scuola.

Enrico Palandri: Il francese, e sono di madrelingua fiamminga...

Bart Van Den Bossche: Quindi i grandi scrittori fiamminghi scrivono in una lingua diversa dalla loro.

Enrico Palandri: Da noi è successo il contrario. C'era prima un modello bilingue, che sta tramontando.

Bart Van Den Bossche: Nell'Ottocento, c'era un modello unilingue, soltanto il francese, accanto ai dialetti fiamminghi, e poi c'è stata una lenta riaffermazione del fiammingo nella zona settentrionale del paese, che era in fondo un problema più sociale che etnico.

Laura Rorato: Quando sono stata lì, ho visto che era più facile esprimersi in inglese che in francese.

Bart Van den Bossche: C'è stato un salto generazionale. I miei genitori parlavano spontaneamente il francese. Adesso i giovani devono studiare il francese a scuola. C'è stato un passaggio molto netto nel giro di vent'anni.

Enrico Palandri: Io mi riconosco molto in quello che hai detto sulla lingua. Sono andato a Londra per scrivere romanzi in inglese, per una considerazione commerciale, che è stata sempre fallimentare nella mia vita. Volevo fare più soldi di quelli che facevo. Volevo scrivere libri in inglese, visto che il mercato italiano è difficile, e non mi è riuscito, per un fatto interno, linguistico, perché nella lingua italiana sentivo un conforto e un calore che non si può analizzare dal punto di vista linguistico, cioè non era solo lessicale.

Giovanni Stiffoni (studente): Credo che sia molto riduttivo far dipendere l'identità di un individuo solo dalla sua lingua. A mio parere ciò che ci contraddistingue è invece la nostra cultura, il nostro patrimonio di conoscenze, che ci deriva dalla nostra esperienza, dagli incontri che abbiamo fatto... La lingua è un fondamentale mezzo di comunicazione, ma poi ci deve essere dell'altro: libri, programmi radiofonici, norme comportamentali...

Alberto Casadei: Però molti dei nostri scrittori sognavano una cultura completamente diversa, come Pavese... Un emblema culturale che diventa modello culturale all'interno dei propri romanzi, per cui certi romanzi di Vittorini e di Pavese non sarebbero stati concepiti diversamente. Il caso di Fenoglio, altro grandissimo del Novecento, è frutto di un'idea completamente diversa, cioè quella dell'Inghilterra e della cultura inglese come modello sublime di dignità culturale religiosa... Che contro la mediocrità dell'antieroismo italiano è l'unica difesa propria per poter esprimere ciò che si è. Però il risultato finale di Fenoglio non è appunto né un testo in inglese né una sua lingua in formazione. Avrebbe però usato metafore incredibili basate sull'inglese: questi sono oggetti interessanti perché mostrano come le culture, attraverso la letterature, si sintetizzano e arrivano a creare un capolavoro.

Laura Rorato: Se è vero che non possiamo capire Pavese o Fenoglio senza conoscere gli influssi di altre culture che li influenzano, è anche vero che non possiamo capirli se non conosciamo la situazione italiana: cioè leggerli senza avere nessuna conoscenza del contesto italiano secondo me sarebbe molto difficile.

Alberto Casadei: Il problema di sempre è che tra testo e contesto c'è un legame forte.

Laura Rorato: E si rimane sempre legati alla situazione italiana: non è che non ci sono più italiani, perché hanno avuto degli influssi stranieri.

Enrico Palandri: Ieri è emerso un nodo che ha un po' a che fare con il tema dell'identità culturale, l'identità personale. Mentre Edoardo [Albinati] parlava, pensavo: «Guarda, non facciamo delle cose molto diverse. Adesso scrivo dei romanzi d'invenzione, però tutti e due abbiamo cercato di creare un personaggio che rappresentasse noi stessi». Questo appunto non è molto diverso nel romanzo d'invenzione, appunto nella non-fiction di cui parlavate ieri. Ecco, quello che mi chiedo è se sia possibile, se accade, che si possa reperire nei romanzi che sono stati pubblicati in questi anni un'identità personale diversa da quella del carattere nazionale. Non so se mi spiego. Un po' si vede in un certo periodo in Del Giudice, a prescindere dal fatto che i libri siano più o meno buoni, ma c'è questo sforzo sicuramente. Per esempio, tu dicevi Tondelli... È vero che in Tondelli è fortissima la provincia, ma in Tondelli è fortissima la spinta ad uscire, ad andare via.

Alberto Casadei: Se non c'è la polarità di partenza, non si arriva nemmeno alla conclusione ultima. È un punto di partenza ineliminabile per arrivare altrove.

Enrico Palandri: Secondo me, il punto a cui siamo arrivati e che vorrei sottolineare è che, anche nel Ritorno di Albinati, il personaggio è costituito da questa esposizione all'altro. Non è più un personaggio che si radica in un'origine, ma è un personaggio che si costituisce nello scambio dell'essere di fronte all'altro, e che quindi le cose sono a uno stadio più avanzato di come le ho pessimisticamente presentate, forse più indietro dei programmi che riusciamo a proporre agli studenti, ma più avanti di come le ho presentate, nel senso che davvero adesso abbiamo come protagonisti di questi romanzi degli italiani, dei francesi, degli inglesi... Ma dei personaggi che sono fatti della frantumazione di quest'identità culturale, che sono fatti di elementi plurimi, che in certi casi si radicalizzano. In certi casi può emergere un aspetto religioso-linguistico... Ma in realtà non abbiamo più a che fare con il modo in cui per esempio Leopardi si autorappresentava in All'Italia, dove c'è un'idea di patria per cui sei pronto a combattere. Questo è già un modello che ci siamo lasciati alle spalle, che si è già frantumato, e abbiamo già a che fare con dei personaggi che non appartengono a questa tradizione.

Alberto Casadei: È la dissoluzione dell'idea di patria, di Heimat.

Frédéric Dutheil: La casa.

Alberto Casadei: C'è un altro tipo di radicamento che è un momento di partenza, come in tutti i romanzi superato, ma al limite per ritornarci o per rivederlo con altri occhi, come in Tondelli. Ma se pensi ad Altri libertini, il punto di partenza è lì, in una condizione che è radicata in quel posto e che, progressivamente, si va allargando ad altro. Forse negli scrittori successivi la cosa è un po' diversa, qui è una riscoperta di concetti rispetto alla penalizzazione, ma forse un procedimento che è stato anche psicologicamente rilevato. Nel momento in cui cadono le grandi identità nazionali, ne nascono delle altre, microculturali. Per cui è difficile dire qual è una linea più forte rispetto ad un'altra.

Frédéric Dutheil: Voi state dicendo che la provincia è il mondo, anche con i mezzi di comunicazione che ci sono, e poi il fatto nazionale, chi se ne frega? È una categoria...

Laura Rorato: Riemergono i luoghi, il ritorno a questo attaccamento ad un luogo.

Frédéric Dutheil: È quello che dicono i giovani, cioè sono attaccati al loro paese, e poi magari possono vivere in qualsiasi paese d'Europa, ma i nazionalismi più duri sono quelli di nazioni più piccole, o negate, come nel caso dei Baschi o dell'Irlanda, o cose proprie del Novecento peggiore. Invece i grandi paesi non sentono il senso di nazione al di fuori della nazionale di calcio, che nel caso francese, è pluriculturale... Poi in Francia si crede ancora alla nazione francese perché c'è ancora il centralismo parigino, ci sono molti «souverainistes», parola coniata nel Québec per definire chi voleva l'indipendenza.

Enrico Palandri: I «sovranisti»...

Frédéric Dutheil: Ma interessa soltanto, direi, politici un po' marginali che sono contro l'aborto, ma in realtà è sparito anche il servizio militare da noi, quindi l'ultimo luogo in cui si creava un nazionalismo o un antinazionalismo per reazione.

Mario Barenghi: Da questo punto di vista è stato un vantaggio assoluto.

Federico Pellizzi: Se posso intervenire brevemente, perché noi dobbiamo partire, volevo invitare a considerare più attentamente l'intervento dello studente, perché ha cambiato l'asse della discussione, anche se mi sembra che si stia sorvolando su questo. Se il problema dell'identità è legato solo alla lingua, allora in fondo non siamo lontani dall'impostazione tradizionale, che è poi quella nazionalistica, che ci deriva dall'Ottocento ed implica una visione dell'identità che è quella a cipolla, la struttura concentrica di cui parlava prima Barenghi. C'è invece un'identità di cose, che implica una prospettiva diversa, in cui la lingua, le lingue, sono alcune di queste cose. Il primo modo di vedere conduce spesso a un'impostazione oppositiva, dialettica, in cui vige la logica dell'identità e il principio di non contraddizione: io sono questo e non sono quello, questo è non-maronita, questo è non-italiano, ecc. L'altro modo di vedere spinge invece ad assumere un altro sistema di classificazione e di autocollocazione: per esempio quello delle somiglianze di famiglia: una persona partecipa di molte cose, è fatta di tanti elementi, alcuni dei quali si collegano ad altre persone, altri invece no. Allora l'identità è già una specie di pluralità. Secondo me il suo discorso era molto importante...

Mario Barenghi: Sì, però la lingua è la cosa con cui parli delle altre cose. Visto che ci occupiamo di letteratura...

Federico Pellizzi: Ma ciò che dico si applica benissimo alla letteratura. In questo caso la lingua non è certamente una cosa fra le tante, è la cosa di cui sono fatti gli oggetti di cui ci occupiamo. Ma la lingua anche letteraria non parla solo di se stessa, può non essere il centro intorno a cui ordinare il resto. Questo non funziona neanche in senso geopolitico. Non mi sembra più valida quest'idea dei centri e delle periferie. Se si legge un'opera che colpisce, si percepisce come appartenente alla letteratura mondiale. Se leggo un romanzo americano, non sento in primo luogo che è americano.

Enrico Palandri: Senti che è un romanzo del mondo.

Federico Pellizzi: Assolutamente, ormai viviamo di questo tipo di immaginario di cui fa parte la letteratura, e in cui però, per tornare a parlare delle identità, si possono comunque definire dei legami e dei confini, magari provvisori, in base a una quantità di cose, non necessariamente legate a un'identità linguistica. Un'opera importante costruisce la propria "geografia", quindi anche i suoi luoghi, per esempio.

Angela Borghesi: Secondo me, però, la prospettiva vera non è questa. Lui ha parlato di affetti, di incontri e di persone, non tanto di luoghi, non è una questione di luoghi.

Federico Pellizzi: Mi riferivo a luoghi mentali, magari, o anche a topoi...

Angela Borghesi: Mi fa un po' sorridere il discorso di prima, sul fatto, che sarà anche vero, che in Italia si comincia ad ambientare il romanzo fuori dall'Italia, ma chi se ne frega? Io, quando ho letto Guerra e Pace, non mi sono posta il problema se il principe Andrea è russo, ma è il principe Andrea, è quella persona che sente quelle cose, che dice a me delle cose che io ho percepito ma non ho saputo definire, cose banali, dette da tanti prima, ma un romanzo è grande quando fa questo, al di là del fatto che sia ambientato nel piccolo paese di provincia o nella grande metropoli. Quando sono uscita dall'Italia per brevi periodi, benché non parli correntemente le lingue straniere (parlo molto bene il mio dialetto), ho sentito che potrei stare molto bene dappertutto, non nei paesi molto lontani dalla nostra cultura, ma in Europa, da tutte le parti. Eppure ciò che mi identifica non è il mio luogo di origine, è la mia famiglia di origine, è il mio legame affettivo con una cerchia di persone ristretta, che mi hanno fatto, ma sono anche le persone che ho frequentato, e che mi capiterà di frequentare. Sono gli incontri con le persone, che sono anche i luoghi che si portano dentro, perché non è un caso che ricomincio a parlare il dialetto appena supero il contorno geografico del mio paese. Certo, certi sapori li trovo lì, ma poi li ritrovo. Li ritrovo in altre persone che vengono da altre parti del mondo, ma quando un po' sono gli stessi sapori, le stesse contiguità, è questo che conta nell'identità, il resto mi sembra...

Stefania Ricciardi: Scusate un attimo, dobbiamo intervenire, perché...

Enrico Palandri: C'è gente che parte.

Giovanni Stiffoni: Esprimo solo un ultimo concetto. Io sono completamente d'accordo sul fatto che la lingua sia fondamentale, ma non è sufficiente, perché se allora prendiamo una persona dell'Ecuador, e prendiamo uno spagnolo, allora dovrebbero avere un'identità comune, ma non è quello che li identifica, ciò che li identifica è il patrimonio culturale, per cui il patrimonio culturale che posso avere io, che ho vissuto sette anni in Ecuador, mi fa sentire ecuadoriano, perché ho delle conoscenze, argomenti, educazione, che mi possono far sentire meno italiano che ecuadoriano.

Enrico Palandri: Adesso Federico ha preso il chiodo sulla testa. Il problema è che questa percezione che avevo chiarissima a sedici anni, che un italiano non poteva scrivere un libro del mondo, e che invece ho criticato, dipende da una situazione oggettiva. È possibile che sia quel libro di cui stavi parlando tu, o no? Questa è la domanda. E già aumenta la marginalizzazione.

 

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II. Seconda parte

Enrico Palandri: Volevo raccontare una cosa che mi è venuta in mente mentre parlavamo ed in realtà è nell'aria nella mia vita da quando ho iniziato a scrivere. Voi dicevate che loro [gli studenti] si stanno appassionando alla letteratura. Ieri ne parlavamo con Casadei, che mi accusava continuamente di snobismo. Ho capito un po' una cosa: non è snobismo. È questo fatto qua che quando uno si appassiona alla letteratura, in realtà, a cosa si appassiona? A una riflessione che puoi fare anche da solo, per cui ti arrampichi un po' come Dante, tu cerchi di arrivare più in là, tu scrivi una cosa, poi ne scrivi un'altra, ma che non sia la ripetizione e hai questa idea del progresso, che probabilmente non esiste nella storia, ma esiste nel percorso personale. Per esempio, se uno sta facendo dei passi indietro. Per esempio, nella fase che per me, per fortuna, è finita (o almeno mi auguro che sia finita), della costruzione di rapporti credibili con l'altro sesso. Io mi ricordo, quando ero ragazzo, che c'è stato un passo dietro l'altro per capire in che modo avere a che fare con le donne. Ti fanno delle accuse molto precise, sì, è vero, e allora cerchi di crescere, ad un certo punto riesci ad esserci e così con la politica... Quando ho iniziato a pensare alla politica, questa era un mondo che mi cascava addosso, e poi invece, pian piano, cerchi di trovare un equilibrio tra i tuoi giudizi sul mondo e quello che devi vivere, devi essere. Devi essere in qualche modo in contatto con questo, e allora ho capito che cosa è questa passione per la letteratura, che purtroppo ha questo prezzo che bisogna pagare. Del resto, già Dante vedeva che ogni virtù ed ogni peccato hanno una loro ombra e la letteratura ha questo prezzo che per quanto sia la cosa più universale che c'è, perché non si parla di altro che dell'amore, della morte, del nascere, dell'esserci, però è anche un percorso che si fa da soli e quando parli con gli altri, inevitabilmente, sei in quel punto a cui sei un po' arrivato, e soprattutto quando parli di letteratura, sei a quel punto, ognuno è ad un certo punto, e tendi a guardare la realtà e la realtà che hai da lì. Poi è un momento che è molto solitario, ed è per questo che a me piace molto, di questi incontri, anche come li avevamo fatti con Federico l'anno scorso, la possibilità di avere questo come materia, però, non il tipo di struttura che uno deve creare per fare una ricerca o mentre uno fa una conferenza in cui cerchi di avere un profilo. Ma non so se avete la stessa soddisfazione che ho io nel riuscire a sciogliere questi nodi, perché io, appunto, dicevo a Giovanni, che l'altra situazione del parlare così per me è molto solitaria, e a questo punto perdo moltissimo tempo. Scrivo un articolo, scrivo un libro, è una cosa in cui non hai questo contatto, e quindi per me c'è molta soddisfazione nel fatto di poter scegliere, di poter capire varie cose. Non so se posso trasmettervi la soddisfazione che mi dà questo, che il punto più semplice è anche il più sofisticato, cioè che non esiste, cioè che c'è una strana condivisione nella letteratura, per cui, e questo l'ho sempre sentito nell'insegnamento, un ragazzo innamorato può darti in realtà, già tutto quello che cerchi di dargli, spiegandogli Petrarca e Dante, e che quindi non dovresti contrapporre il mondo a cui tu sei arrivato con un percorso anche difficile a questo darsi gli stessi temi in una persona. A me quello che è molto piaciuto, oggi, ed è la maggior ragione di soddisfazione, è che non ho mai sentito questa caduta. Sento al contrario che chiamare è già dentro anche da un punto diverso, a me serve molto ad orientarmi, e perché mi rendo conto dei grandi limiti di questa prospettiva. Per esempio una cosa che è emersa era come Mario Barenghi e Alberto Casadei hanno nell'insegnamento una prospettiva leggermente diversa dagli italianisti che insegnano fuori, perché probabilmente non hanno già una definizione del loro ambito, che è dato dal fatto di avere a fianco il dipartimento di ebraico o di francese o di quello che è, e quindi è un'autodefinizione di quello che è l'italianistica, molto più tecnica e stilistica secondo me, di quello che sento io, dove invece l'italiano è l'italiano, e poi da lì, cerchi di abbracciare un po' tutto. Il discorso è quello che è iniziato anche con Barenghi, che diceva che bisogna prima di tutto cercare di capire qual è l'identità personale. Io l'avevo introdotto all'inizio dicendo che forse appunto, c'è un ideale romantico, la struttura a cipolla, cioè che ci sia ancora l'idea che ci siano delle cose originarie. E c'è sempre una contrapposizione tra ciò che noi siamo comunque e il mondo che incontriamo, o il mondo che incontriamo ci struttura continuamente secondo le sue necessità, i suoi modelli. Freud descrive la depressione come il fatto di staccare dal mondo e rimanere legati. Fa questo bell'esempio del monumento. Il fatto che uno ad un certo punto si fissa su una tomba e lascia passare il mondo perché rimane legato a quel monumento, a quella morte, ma può anche essere un amore deluso, una politica passata. È tenere il nucleo di passato che in realtà non lasciamo passare, e teniamo come autocostituente, contrapposto al mondo con cui abbiamo a che fare.

Frédéric Dutheil: Quello che mi sembra difficile, anche per i giovani scrittori, è che non si sa in che momento si esce dalla formazione. La formazione è sempre più lunga, ed è sempre più ripetuta, non ci sono più le cose che strutturano in modo abbastanza precoce la tua esistenza. Per esempio, noi, avevamo un mestiere a ventidue anni, quelle cose lì non esistono più e quindi, la percezione del mondo è cambiata.

Enrico Palandri: La questione della verosimiglianza si è un po' sfiorata, ma senza più quell'accento populista di Asor Rosa. La verità per la verità, non la verità per la giustizia sociale.

Stefania Ricciardi: Quindi l'importanza di fare memoria, non tanto per amore di una verità oppure per uno scopo purista.

Frédéric Dutheil: La cosa più importante che si è detta, forse l'ha detta Federico ieri. La correlazione della memoria lascia le tracce di quel cancellamento. Quindi la ricerca della verità diventa fondamentale, ontologica, invece di essere una ricerca di una giustizia, della letteratura utile.

Beatrice Nava (studentessa): Però è importante questo lavoro di memoria della letteratura per non negare il passato, un lavoro di memoria che mi pare interessante che continui ad essere aperto.

Enrico Palandri: Poi, quando sono in contrasto queste due cose, manca un'altra cosa alla letteratura, cioè costituisce un orizzonte non storico, tipo «Ciao vado a fare un viaggio». C'è la prospettiva dell'esserci, del progetto del passato che è una prospettiva lineare, ma c'è anche una strana ambientazione del lettore in un mondo in cui le epoche non sono più susseguenti. Prima facevo quest'esempio del Settecento: molti autori di quell'epoca ci sono oggi più vicini degli autori romantici, perché gli ideali del romanticismo erano così proiettati allo stato-nazione che se leggiamo All'Italia è una poesia che c'entra poco anche con il resto, invece se leggi Candide, vedi un tipo di apertura che è più vicina a come pensiamo l'Europa, anche politicamente, anche con quest'idea che è cosi forte in loro di un potere che è più distante dal punto di vista sociale. Mentre, alla fine del discorso nazionalista, si arriva a progettare una serie di meccanismi che mettono in contatto il cittadino con la grande eredità della rivoluzione francese, che esprime quest'idea del cittadino che delega il potere. Invece secondo me, come gli scrittori settecenteschi, come Diderot, come Casanova, noi sentiamo che il potere è diventato molto distante, che le decisioni prese da Bush sono così lontane che non riusciamo a immaginare i passaggi, le deleghe. Possiamo fare una manifestazione, ma abbiamo comunque quella distanza dalle istituzioni che era così caratteristica dell'Ancien Régime, cioè quando c'era una situazione in cui era il sovrano che decideva.

Beatrice Nava: Siamo in una situazione di falsa democrazia, sempre dall'alto.

Enrico Palandri: C'è una conquista del consenso piuttosto che una vera discussione. Per esempio, in Italia, Berlusconi ha preferito comunicare in televisione e non in parlamento che si ritirano dall'Irak a settembre, ed è stato fermato dagli americani e dagli inglesi, ma soprattutto è molto significativo che Berlusconi non voglia approfittare della sua maggioranza politica, ma lui vuole il consenso, che è un'idea che scavalca un po' la democrazia. Non è importante che ci sia un confronto con chi la pensa in modo diverso, e poi tu prevali. Per lui, è più importante avere una specie di plebiscito. Questo è molto caratteristico del potere verso cui andiamo, che appunto è più simile a quello del sovrano che a quello della democrazia. È il confronto che viene saltato!

Frédéric Dutheil: Sono d'accordo sul paragone con il Settecento, perché in quest'epoca non c'erano delle culture nazionali, e quindi si poteva avere una cultura transnazionale. Ad esempio, l'opera italiana si poteva apprezzare a Dresda, a Praga, non a Parigi, che aveva già inventato il nazionalismo. Si poteva quindi proporre la stessa storia a Londra, a Dresda, valeva quindi per tutta la società, ed era scritta in un italiano facile per chi avesse una qualche cultura. Per quanto riguarda il progresso, si può dire che esistono solo i progressi. I sessant'anni di pace, la formazione di un'Europa sono cose concrete, ma il liberalismo è forse più feroce di prima, c'è una minore protezione sociale, ma sono scomparse delle malattie terribili. Il progresso unico è solo un'ideologia teologica, il povero di adesso non è il povero della Francia passata. Oggi magari possono passare tutto il giorno guardando la televisione.

Enrico Palandri: Mi chiedo se quanto detto stamattina possa in qualche modo dare una risposta, ma lo è già abbastanza, cioè in che modo questa molteplicità venga assunta. Sento un po' una responsabilità nell'università di riuscire a proporre un'altra idea e la sento in modo molto forte, perché naturalmente, non puoi solo prendere un'iniziativa, ma devi in un certo senso, rispondere ad una domanda. Noi abbiamo nel nostro dipartimento gli European Studies, e i ragazzi che avrebbero studiato prima l'italiano oggi studiano l'Europa, questo ti fa percepire quello che puoi insegnare dell'italiano in un'altra prospettiva. Del resto, se insegnassimo il Settecento per esempio, le memorie di Casanova sono state scritte in francese, Goldoni finisce a Parigi, e quindi si dovrebbe avere un'idea più elastica di che cos'è questa tradizione.

Frédéric Dutheil: Io mi divertivo a dare opere scritte da francesi in italiano e nessuno vedeva la differenza. Prendi Puccini, Rossini... Chi capisce che sono italiani? Questa è forse una capacità dell'italiano che è capace di diventare francese, tedesco... Quindi le opere italiane scritte in francese rispettano il ritmo come il Don Carlos. Spesso il libretto in italiano e in francese non dice le stesse cose. Quindi gli italiani hanno saputo immedesimarsi nelle culture altrui senza problemi. Molti veneti che sono venuti nel sud-ovest si sono così adattati che hanno dimenticato la loro origine. L'acculturazione è la volontà di far sparire certi caratteri che possono essere degli impedimenti per farsi posto nella società. La cultura europea è proprio questo, a parer mio. Non quella che si decide di avere perché si vuole rimanere italiani in Inghilterra, ma quella che si vuole recuperare perché ci manca qualcosa, perché una sola cultura è insufficiente, nel mondo in cui viviamo, non abbiamo una sola cultura. Difatti tutto il cinema che vediamo è propaganda, anche quello americano. Guardando quei film, si pensava che la guerra in Irak dovesse durare sei mesi, perché vincono sempre e in modo molto rapido, hanno la soluzione su tutto perché la legge del film è che ci sia il lieto fine e la loro vittoria. La realtà non è la finzione.

Enrico Palandri: Un generale americano lo ha anche detto: «This is not the war of the videogames», questa non è la guerra che avevamo simulato con i videogames, e l'ha detto sorprendendosi, e a me sembrava una cosa sciagurata. L'ha detto durante uno di quei comunicati...

Mario Barenghi: In tutta questa discussione sull'identità e su culture multiple, c'è un bellissimo discorso sul prendere, sul ricevere, e anche su quello che dicevi tu di relazionare quando scrivi al computer, è un altro momento. Però appunto, l'identità è anche il rifiuto, cioè ad un certo punto ci si struttura, lei ieri diceva che c'era anche il nemico tedesco. Adesso posso dire che il mio io lo creo creando forme di razzismo o escludendo l'altro, ignorando o rifiutando per esempio il mondo borghese, quindi non entrando in un certo tipo di negozi. Mi chiedo quindi che peso possa avere il rifiuto nella creazione della propria identità, la mia formazione come esclusione. Quindi anche tu, quando sei al computer, non è che sei più tu, ma escludi e ti opponi.

Enrico Palandri: Visto che lo proponi, rispondi.

Mario Barenghi: No, lascio a voi l'ardua risposta.

Isabelle Bonnin (studentessa): Uno si fa certe idee, voglio essere anti-questo, e poi si scopre dopo cinque-sei anni che è cambiato.

Mario Barenghi: Qui c'è un equilibrio fra i due poli, fra ricevere e prendere.

Frédéric Dutheil: Difatti l'antimondialismo si è convertito in altermondialismo, perché hanno capito che identificarsi come anti-qualcosa poteva essere un pericolo perché non si costruisce solo negando, e torniamo alla non-fiction. Una definizione negativa porta con sé la quasi impossibilità della definizione.

Mario Barenghi: In tutti questi progetti politici, c'è sempre il nemico, prima c'era il comunismo, adesso c'è il mondo arabo. Quindi l'identità mia è comunque nel chiudermi verso qualcuno. Io mi sento più arabo che milanese, vista l'involuzione della società.

Frédéric Dutheil: Molta gente pensa che sia un falso discorso, perché in realtà non abbiamo ancora digerito la caduta del muro di Berlino. Quindi, anche dopo l'11 settembre, il nemico non può essere considerato una minaccia per la superpotenza occidentale. La storia non è finita perché ci manca il nemico. Il musulmano non è un nemico credibile, magari sarà la Cina, ma mi pare che ci sia troppo commercio.

Laura Maggini: Per la crescita equilibrata di un bambino, pare che nelle favole ci debba essere un lupo cattivo, un orco. La figura del cattivo, dell'uomo nero pare che serva a far crescere i bambini. Forse è una cosa storica che ci portiamo dall'infanzia, questo bisogno di trovare un nemico, senza arrivare agli eccessi di Bush, ma forse ci aiuta a crescere il fatto di avere un nemico, di avere delle difficoltà.

Jessica Caujolle: Volevo fare una domanda: che cos'è l'autofiction?

Stefania Ricciardi: L'autofiction, secondo Serge Dubrovsky che l'ha teorizzata, è la «fiction d'événements et de faits strictement réels» come la definisce in quarta di copertina del suo libro Fils (1977). È il parlare di sé, conservando il proprio nome e cognome, ma in maniera diversa, vedere se stessi in un altro modo, o anche proiettati in una dimensione che forse non è neanche in tempo attuale, mentre l'autobiografia si basa su quanto si è vissuto.

Frédéric Dutheil: Allora il Petrarca è tutto autofiction, perché non è autobiografia. Il Secretum è l'imitazione di Sant'Agostino, non corrisponde alla vita reale. Petrarca ha fatto il possibile perché nessuno capisse qual era la sua vita, perché se l'è tutto sognato.

Stefania Ricciardi: Doubrovsky si riferisce a degli autori francesi come Eric Chevillard, che è un autore che parte sempre da questo "io" riprodotto, non per quello che ha realmente fatto, ma per quelle che sono le sue proiezioni. Volevo dire anche un'altra cosa: noi stiamo parlando da due giorni di un concetto formato da due parole straniere: fiction e non-fiction. Anche questo è indicativo di qualche cosa che con la nostra lingua non riusciamo a definire, che potremmo anche definire, ma avrebbe delle connotazioni diverse. Perché non parliamo di finzione e di non-finzione? Perché non sono la fiction e la non-fiction.

Enrico Palandri: In Inghilterra vuol dire una cosa molto semplice: se un libro viene catalogato nella fiction, ci si mette al riparo di cause civili, per diffamazione. Se tu fai un lavoro di fiction, puoi fare quello che vuoi, è molto difficile per un avvocato metterti in un angolo, e invece tutti gli altri sono vulnerabili da questo punto di vista. Secondo me la ragione è che abbiamo alle spalle un modello letterario che non ha quest'opposizione. Per esempio, il Manzoni ha scritto un romanzo che non è stato scritto per mettersi al riparo da possibili leggi, e non è neanche concepito come finto. Al contrario, c'è un tentativo di fondare che cosa sia l'Italia e che cosa sia l'italiano andandolo a cercare nel Seicento. Non abbiamo la percezione nella nostra letteratura, ancora prima della fiction e della non-fiction, di un reale che è più forte attraverso la letteratura che non attraverso una ricostruzione fattuale storica. Questo non viene catturato da quest'opposizione, tanto che io ed Edoardo [Albinati], che facciamo due tipi di lavori molto diversi, in realtà per la letteratura italiana non dovremmo essere cosi opposti, perché facciamo dei libri che se non sono visti con questi occhiali della fiction o non-fiction, sono molto più simili tra loro. Veniamo opposti ma quando parliamo, diciamo delle cose molto simili e ci riconosciamo come gente che lavora facendo più o meno cose simili.

Stefania Ricciardi: Nel mondo dell'editoria le cose stanno cambiando, perché prima le collane erano più definite, c'era la collana di saggi, ecc... Oggi un libro come L'Abusivo di Franchini esce in una collana di narrativa, quindi vedi che l'ottica si sposta. Il libro di Veronesi, Occhio per occhio, è forse l'ultimo libro dell'ultima generazione di scrittori che si trovava nella collana saggistica, e non a caso ne parlavo con Antonio [Franchini] ieri: «Cosa fate? Lo ristampate, perché attualmente è fuori catalogo». Mi diceva. «Sì, ma eventualmente negli Oscar1» , cioè dov'è uscito Maggio selvaggio, e dove si pubblica la narrativa. Quindi c'è anche questa oscillazione delle frontiere. Uno dei problemi, mi diceva Albinati, era dove far uscire il suo libro, cioè nessuno gli ha creato problemi per pubblicarlo, ma non si sapeva dove collocarlo, perché la scrittura ibrida non si sapeva come presentarla. Anche Il polacco lavatore di vetri, che è stato riproposto nelle edizioni Oscar, all'inizio aveva questo problema. Poi c'è anche il problema della ricezione. Ci sono case editrici come Sironi ed Alet che nascono proprio con l'intento di pubblicare testi che sono forme ibride di scrittura.

Enrico Palandri: Rimango convinto che la forza di trasfigurazione che ha la poesia e l'invenzione siano fondamentali, ma non so se è una considerazione che fanno in molti. E' vero che ci può essere il rischio del fasullo, ma mi sembra un rischio da correre. Sto riflettendo su quanto abbiamo detto in questi giorni. Capisco la sottolineatura della realtà, e quanto sia importante cambiare l'orizzonte d'attesa appunto. Un romanzo pubblicato tra i romanzi pare intrattenimento, e invece il romanzo è una cosa molto diversa dall'intrattenimento. Non lavori con quell'intento e per me appartiene ad una specie diversa, non saprei giustificarlo esteticamente. Non è come la televisione o il cinema, secondo me il romanzo è un modo di inserire delle figurazioni che complicano la tua percezione della realtà, che la rendono più complessa, più difficile. Stamattina è stato citato Zeno. Zeno non racconta nulla di interessante dal punto di vista delle vicende, è la storia di un signore che vuole smettere di fumare. Quello che sembra quasi impossibile è immaginare un film della Coscienza di Zeno. Esiste, e chi l'ha fatto?! Pare destinato a perire, perché è così diverso il modo in cui passa il testo. Non è un testo di intrattenimento. Ecco, allora fiction, non-fiction, un po' si ribella ad una deriva del romanzo verso l'intrattenimento.

Stefania Ricciardi: È un po' la differenza che c'è in francese, per cui non posso dire la «narrativa», ma devo dire la «littérature narrative».

Frédéric Dutheil: È impossibile tradurre. «Narrare» è una parola che non si traduce in Francia, il «narrateur» in Francia è uno che racconta storia. Il problema è che secondo il modo in cui si definisce la fiction, io penso a Borges, o a Vite di uomini non illustri, di Pontiggia, in cui i ritratti di persone possono essere persone che vedi ogni giorno, in modo totalmente immaginario, ma che sono molto veri, molto verosimili, ma che poi è un gioco, perché non c'è il rischio, come dicevi tu, di fare il ritratto perfetto di un collega, e di avere un processo perché dici che l'hai inventato tu, e che è solo una questione di somiglianza. Rientra quindi in una realtà che non conta, e invece il tentativo di cercare l'opposizione fiction/non-fiction è di dire che il solo genere che ci interessa è la non-fiction. La non-fiction vale più della fiction.

Enrico Palandri: Credo che questa sia l'intenzione.

Frédéric Dutheil: Così rimaniamo nell'ambito della letteratura, e non della politica, parlando della verità. Possiamo impegnarci rimanendo disimpegnati.

Stefania Ricciardi: E allora perché non dire «non-nouvelle fiction»?

Frédéric Dutheil: È chiusa la parabola del Nouveau Roman. Nessuno puo scrivere come questi autori, perché è passato. Non c'è un Nouveau Roman in Italia?

Enrico Palandri: C'erano gli imitatori di Robbe-Grillet, pensiamo a certe cose di Ballestrini, ma Philippe Sollers ha scritto qualcos'altro?

Stefania Ricciardi: Non si può fare un paragone, perché se prendiamo anche gli autori di quella generazione, abbiamo solo La Capria, che dice che il Nouveau Roman l'ha un po' "disciplinato" nella struttura del romanzo, ma c'è una differenza abissale: mentre La Capria ha smesso di scrivere romanzi nel '79, Claude Simon ha scritto ancora. Quindi si può capire come La Capria, che era il primo a varcare la soglia dell'autoreferenzialità napoletana, quella di Domenico Rea, alla fine ha scritto solo Amore e Psiche, che non ha avuto nemmeno successo. Invece qui, questi autori sono stati fedeli al Nouveau Roman e alle Editions des Minuits, senza disdegnare delle evoluzioni, mentre La Capria non può più essere definito un romanziere. Dagli anni '80 preferisce scrivere saggi. In Italia, il discorso è improponibile.

Frédéric Dutheil: Ciò conferma che non c'è autore, ancora un autore europeo, che si sviluppa sia in Italia, sia in Francia, sia in Germania... Noi stiamo reinventando il cosmopolitismo.

Enrico Palandri: Anche se ci sarà, come Tondelli, il cosmopolitismo abbinato al paese. Quello che era debole in Tondelli era la scarsa conoscenza delle lingue, che aveva per esempio Casanova. Questo secondo me avverrà forse tra due generazioni. Mi ricordo quando è stato introdotto l'euro, la grande critica dell'Inghilterra era che se negli Stati Uniti c'è una crisi dell'automobile, nel Michigan possono andare tutti nell'Oklahoma, dove stanno facendo un altro tipo di economia. Questo funziona perché hanno tutti la stessa lingua. Penso che possa avvenire anche in Europa, e che la lingua sia un ostacolo molto minore di quello che immaginiamo. In realtà ci si sposta molto per lavoro, e per questo periodo che toccherà alla prossima generazione. Per esempio i miei figli non hanno la caratteristica di avere una lingua madre, perché hanno due lingue. Immagino che sarà sempre più così, ci sarà sempre più gente che trova naturale spostarsi e che non percepisce più il «dispatrio» come una crisi d'identità nazionale, ma è elastico appunto. Per questo parlavo della possibilità di mettere e dismettere delle unità discrete. Per esempio, quella linguistica e quella religiosa, una assume e licenzia dei tratti d'identità. Negli anni Settanta, era molto importante un certo tipo di politica, che non è più proponibile a Londra, adesso pare un po' inutile anche a me. Non interessa a nessuno, a Londra, che cosa fosse la sinistra extraparlamentare in Italia, è una cosa che non interessa assolutamente a nessuno. Dovrei tenere quel pezzo lì, ma non me ne faccio più niente, lo lascio perdere. Così, rientrando a Venezia, che è una piccola città dove c'è ancora poco il problema del multiculturalismo, i miei figli hanno lasciato perdere la consapevolezza contro le discriminazioni. Perché non è più un tratto forte della loro identità, mentre in ogni scuola di Londra, ti viene insegnato che devi avere rispetto di altre culture, religioni...

Stefania Ricciardi: Il plurilinguismo si sta spostando, non tanto tra dialetto e lingua, ma piuttosto sul versante della letteratura orale, perché i segni distintivi sono gli accenti, i regionalismi. La mia generazione parla l'italiano, ma ci identifichiamo dalla provenienza. Mentre i nostri genitori hanno il problema della traduzione del dialetto. Anch'io conosco benissimo il napoletano, ma per me non è un problema tradurre. Posso invece distinguere se qualcuno viene dalla Toscana, dal Nord... Questo in letteratura lo ha fatto Tondelli tra i primi. Tu percepisci gli accenti, gli intercalari. Anche in Ammaniti, quando fa parlare i bambini, senti la loro maniera diversa di parlare. Non è una questione di sintassi, come per esempio in Verga.

Martine Bovo: Mi chiedo se non ci sia un recupero del dialetto, che è sentito come ricchezza culturale.

Frédéric Dutheil: Sì, lo faceva anche il cinema italiano che non poteva essere dialettale per questione di distribuzione, però una piccola dose ce la mettiamo. Anche Visconti in Rocco e i suoi fratelli metteva una piccola dose di milanese, ma appena percepibile. In Camilleri, c'è la volontà di dare un po' di colore. Ormai, chi può tornare indietro, chi non può scrivere in italiano? Quando il dialetto è inserito per creare un effetto di realismo, vuol dire che è morto. Quando si difende una lingua, vuol dire che deve essere museificata. La lingua è la linfa dell'identità, non è un patrimonio. Uno può vivere in più case, ma ha una sola casa. Il dialetto è solo una casa di campagna, per le vacanze. Non si può vivere in due culture contemporaneamente. Il dialetto non sarà trasmesso, è una testimonianza del passaggio.

Enrico Palandri: Mia nonna parlava il veneziano con sua sorella, solo due miei fratelli lo hanno imparato, io non parlo veneziano.

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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