Florian Mussgnug
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I. II. III. IV. |
«Hilarotragoedia» tra romanzo e trattato? Testo e paratesto. Nuove interpretazioni critiche Una sfida ai generi precostituiti Bibliografia |
I. «Hilarotragoedia» tra romanzo e trattato?
Quando nel 1964 uscì Hilarotragoedia, molti lettori presero alla lettera la provocatoria definizione che Manganelli diede del testo: «un trattatello, un manualetto teorico-pratico».1 Italo Calvino, ad esempio, nella Notizia su Giorgio Manganelli (1965), loda il testo come una riuscita «parodia della forma trattato» e riconosce a Manganelli il merito di essere stato uno dei primi in Italia a cogliere le potenzialità di una tradizione letteraria nazionale in cui «la nozione di prosa è rimasta dominante su ogni distinzione di generi, comprensiva di una continuità dal Trecento ad oggi».2 Secondo Calvino, Hilarotragoedia va letto come un omaggio a un patrimonio culturale specificamente italiano, ricco e troppo spesso dimenticato, capace di offrire un'alternativa alla soffocante preponderanza del romanzo ottocentesco e delle sue derive novecentesche. Quando poi si trova ad ascrivere a un genere letterario il testo di Manganelli, Calvino non ha esitazioni: «la forma in cui l'autore ordina le sue invenzioni non è quella del romanzo ma quella del trattato: e da tempo m'aspettavo che qualcuno cominciasse a farlo». L'interesse principale di Calvino, tuttavia, non risiede nella tradizione letteraria del trattato. Ciò che lo affascina del «trattatello» di Manganelli è la possibilità di una letteratura che guardi oltre l'assai dibattuta dicotomia di «romanzo» e «anti-romanzo».
«Penso al posto che il "romanzo" ha occupato nelle nostre preoccupazioni (di noi insieme corresponsabili e vittime della nostra situazione letteraria) prima come "imperativo del romanzo" [...]; adesso come "imperativo dell'anti-romanzo", che in Francia all'ombra del panciotto di Flaubert ha un senso ben preciso e garantisce la continuità dell'istituto proprio nell'esperirne la natura fantomatica, mentre per noi, che l'istituto avemmo gracile e quasi fantomatico per sua costituzione naturale, la contestazione delle sue convenzioni linguistiche e gnoseologiche non è impresa eroicamente parricida ma un gioco che si esaurisce presto».3
Piuttosto che contestare o reinventare dall'interno la forma romanzo, Manganelli sembra ipotizzare un futuro radicalmente diverso per la prosa letteraria. Non è solo Calvino a pensarla così. All'interno del Gruppo 63, molti letterati e teorici condividono l'opinione che il primo testo letterario di Manganelli non possa essere letto adeguatamente secondo le consuete categorie di genere della narrativa in prosa4. Benché vi sia gran disaccordo sulla qualità e i meriti del primo libro di Manganelli,5 quasi tutti i membri del Gruppo 63 sono concordi nel sostenere che questo originalissimo «materiale verbale» non ha alcuna relazione significativa con il genere romanzo. Non stupisce dunque che il testo non venga discusso al convegno sul romanzo sperimentale organizzato dal gruppo nel 1965: a differenza di Capriccio Italiano (1963) di Edoardo Sanguineti, Hilarotragoedia non viene considerato come un modello a cui guardare, nel momento in cui il gruppo si sforza di dare vita ad un «nuovo romanzo».6 Anche Manganelli sembra aderire a tale giudizio sulla propria opera. Benché assente all'incontro del 1965, egli contribuisce agli atti del convegno con un breve testo, da cui trapelano impazienza e ironico distacco:
«Io provo uno scarso interesse per il romanzo in genere - inteso come protratta narrazione di eventi o situazioni verosimili - e talora un sentimento più prossimo alla ripugnanza che al semplice fastidio; ho l'impressione che oggi codesto genere sia caduto in tanta irreparabile fatiscenza che il problema è solo quello dello sgombero delle macerie, non del loro riattamento a condizioni abitabili».7
Benché il rifiuto categorico del romanzo da parte di Manganelli catturi il tono dei dibattiti del Gruppo 63, il suo breve saggio, che già contiene molte delle idee poi sviluppate ne La letteratura come menzogna, si stacca dagli altri interventi pubblicati nel volume. Per la maggior parte dei teorici e critici della neovanguardia, l'idea che il romanzo, soprattutto nella sua forma tradizionale di romanzo realista, debba essere scartato in quanto complice dell'ideologia dominante, è un ovvio punto di partenza. Manganelli concorda con tale opinione, e tuttavia la sua polemica non è diretta solo al romanzo tradizionale. A differenza della maggior parte degli autori del volume, egli sembra schernire anche gli enfatici appelli del Gruppo a una svolta culturale rapida e drastica. Contro ogni esigenza di concreto impegno sociale, Manganelli evoca con ironia un'atmosfera di atemporalità che non potrebbe essere più estranea allo stile della maggior parte dei neoavanguardisti: «Se un angelo intervistatore mi ponesse una domanda sulla condizione attuale del romanzo, io penso che, con la compunzione necessaria, risponderei all'incirca così» (57). Ignorando il vocabolario tecnico usato da molti partecipanti alle riunioni del Gruppo 63, Manganelli ricorre invece a quello fantastico e allegorico, e si distanzia così non solo dalla tradizione del romanzo ma anche, significativamente, dalla ricerca, che si vorrebbe collettiva, di alternative. Apparentemente una conferma di alcune idee condivise, il testo di Manganelli può essere anche letto come una sottile rielaborazione stilistica, quasi una parodia, di alcune figure retoriche ricorrenti nel discorso della neoavanguardia.8 Non solo Hilarotragoedia, ma anche la successiva riflessione teorica di Manganelli sul futuro della prosa letteraria non rientrano facilmente nelle categorie innovative elaborate dai teorici del Gruppo 63 intorno all'ipotesi di un «nuovo romanzo».
II. Testo e paratesto. Nuove interpretazioni critiche
L'impatto che le posizioni del Gruppo 63 ebbero sulla poetica di Manganelli resta una questione non risolta, anche se tuttora dibattuta.9 Ben più evidente risulta invece l'influenza degli scritti teorici di Manganelli sulla ricezione critica delle sue opere letterarie. Soprattutto nella cerchia dei suoi primi critici, i commenti deliberatamente eccentrici dell'autore sui propri testi sono stati spesso letti come l'unica chiave legittima per l'analisi critica delle sue opere. Di conseguenza, Manganelli è stato spesso letto come uno scrittore altamente originale, i cui esperimenti, pressoché unici, non possono esser in nessun modo avvicinati alle solite categorie di genere della prosa narrativa. Conviene ricordare, a questo proposito, l'interpretazione di Hilarotragoedia data dall'autore della prima monografia su Manganelli, Cesare Gagliano:
«La rifunzionalizzazione della forma trattato, cui, se si eccettuano gli exempla, è connaturata l'assenza di flusso temporale, di io narrante e di personaggi, conduce naturalmente a una sorta di impersonalità che accentua l'anonimato, ed è quanto dire la forza, dell'opera. [...] La totale mancanza di elementi biografici risponde al preciso imperativo di non scrivere che per scrivere, senza aver nulla da dire».10
Secondo Gagliano l'opera di Manganelli è un perfetto esempio di «scrittura vuota», sorretta esclusivamente dall'ipotesi teorica di un testo privo di contenuto. La stessa idea, già precedentemente avanzata da altri studiosi italiani e stranieri di Manganelli,11 si trova anche in La neoavanguardia italiana (1995) di Renato Barilli, dove le opere di Manganelli vengono discusse in un capitolo sulla teoria letteraria, mentre di esse non si fa cenno nella sezione dedicata al «nuovo romanzo». Di recente, tuttavia, tale opinione, un tempo diffusa, sembra aver perso terreno. Sempre più critici, oggi, esprimono perplessità di fronte all'idea che le prime opere di Manganelli debbano essere lette innanzitutto come delle provocazioni fini a se stesse, delle espressioni di un drastico e assoluto rifiuto della narrativa in prosa. È probabile che questo mutato atteggiamento della critica sia stato in parte determinato dall'evoluzione della scrittura di Manganelli nei tardi anni Settanta. A partire dalla pubblicazione di Pinocchio: un libro parallelo (1977), molti studiosi hanno sottolineato il crescente interesse di Manganelli per le trame narrative e il suo uso di un vocabolario e di una sintassi più accessibili.12 Cosa ancora più importante, il possente corpus degli scritti postumi ha rivelato una tenace passione, durata una vita intera, per la narrativa di finzione.13
A distanza di più di quarant'anni dalla pubblicazione, Hilarotragoedia dunque non appare più come un misterioso «libretto» che è possibile comprendere solo attraverso i paradossali, provocatori e autoironici sforzi classificatori compiuti dall'autore, ma, come nota Salvatore Nigro, come «un'opera matura [che] faceva presupporre un lungo tirocinio», un testo che «concludeva un "laboratorio" e inaugurava una carriera letteraria».14 Come era prevedibile, la crescente consapevolezza del lungo apprendistato di Manganelli ha influenzato anche le interpretazioni della stessa Hilarotragoedia. Se molti lettori del passato vedevano l'opera innanzitutto come la parodia di un trattato e quindi come un testo stilisticamente omogeneo, la critica più recente si è concentrata sulla struttura complessa del libro e sul gioco sofisticato di registri tematici e stilistici diversi. Marco Paolone, ad esempio, in un volume dedicato al debito di Manganelli verso la psicoanalisi junghiana, contesta l'idea che il significato di Hilarotragoedia risieda interamente sul piano della forma, nella manipolazione parodica di un genere particolare, e auspica un confronto più serrato con il contenuto dell'opera.15 Secondo Paolone, l'interesse di Manganelli per la forma del trattato deriva dal desiderio di trasformare la letteratura in un'autentica «espressione e descrizione della psiche» (62), in conformità ai principi formulati dallo psicoanalista di Manganelli, Ernst Bernhard. «La formula pseudotrattatistica», scrive Paolone, «è quindi funzionale all'abdicazione a un soggetto nucleante e alla conseguente esigenza di porne a nudo le mistificazioni: innanzitutto quella della linearità del pensiero».16 Il tentativo di Paolone di spiegare il testo di Manganelli in relazione al suo contesto psicoanalitico segna una svolta rispetto a una tradizione critica che si è occupata prevalentemente del linguaggio di Manganelli.17 A prescindere dalle argomentazioni specifiche, l'interpretazione psicoanalitica di Paolone ha il merito di ricordare al lettore che Hilarotragoedia non è un testo stilisticamente omogeneo ma un pastiche di modi, se non di generi, differenti. Questa ipotesi, che tuttavia Paolone non sviluppa, è in realtà suggerita da Manganelli stesso nel paratesto di Hilarotragoedia:
«Come usa, e non senza peritosa compunzione, si additano qui taluni modesti pregi del volumetto, che forse lo differenziano da altri consimili trattati, anche più solenni: la definizione di concetti dati troppo spesso per noti, come balistica interna ed esterna, angosciastico, adediretto; l'aver proposto una nuova, e a nostro avviso, pratica e maneggevole classificazione delle angosce; arricchita, inoltre, di un Inserto sugli addii, che a noi pare non infima novità della opericciuola; l'inclusione nel discorso di cervi e amebe, a sottolineare il carattere più che semplicemente umanistico dell'impostazione; e soprattutto, aver raccolto e presentato alcune diligenti e non esigue documentazioni, non senza abbozzo di commento, che consentiranno di verificare le enunciazioni della parte teoretica; giacché il libro si divide appunto in due parti, che potremmo denominare Morfologia ed Esercizi».18
Mentre il primo paragrafo del breve paratesto enfatizza provocatoriamente l'uso parodico che viene fatto di un unico genere («Il libretto che qui si presenta è, propriamente, un trattatello, un manualetto teorico-pratico»), il passo citato richiama l'attenzione sulla complessità stilistica e strutturale del testo e sulle sue divisioni interne. Ciò che più colpisce, nella descrizione di Hilarotragoedia non è l'uso di categorie difficili da decifrare - spesso nella letteratura d'avanguardia il paratesto funge da prolungamento del testo stesso, e replica o sviluppa alcuni tratti ludici o provocatorii del testo19 - ma il fatto che le sue istruzioni forniscono in realtà una guida accurata e affidabile alla struttura del libro.20 Tutti gli argomenti preannunciati dal paratesto sono veramente sviluppati nel testo, e, nella maggior parte dei casi, introdotti da un breve titolo esplicativo in corsivo («Chiosa all'ameba», 24; «Splanamento dell'angosciastico» 33; «Trattato delle angoscie con inserto sugli addii», 37; «Postilla sul cervo suicida», 82).21 Questa precisa corrispondenza fra la struttura preannunciata nel paratesto e i segmenti veri e propri del libro non si estende, tuttavia, all'ultima frase del passo citato: a differenza della suddivisione del testo in unità più piccole, la più generale opposizione tra «due parti, che potremmo denominare Morfologia ed Esercizi» apparentemente non trova applicazione nella macrostruttura del libro. A questo punto il paratesto sembra suscitare nel lettore una curiosità che non viene poi soddisfatta dal testo, almeno non in maniera evidente. Se il volume è davvero diviso in due parti, come e dove si deve tracciare la linea di divisione nel testo? Mentre la definizione di Hilarotragoedia come di un «trattatello» suggerisce al lettore una fondamentale uniformità stilistica e strutturale, l'allusione successiva alla eterogeneità del testo, alla sua divisione in diverse parti, rivela che Hilarotragoedia è anche un'opera incostante, complessa e ibrida, che spesso pare sul punto di smentire l'appello iniziale alla continuità stilistica.
Ci sono dunque buone ragioni per nutrire sospetti verso l'uso apparentemente restrittivo che Manganelli fa delle categorie di genere in relazione a Hilarotragoedia. Per un verso, le opere successive - ma anche, come afferma Salvatore Nigro, gli scritti precedenti alla pubblicazione del primo libro - rivelano che il rifiuto di Manganelli per la letteratura di finzione non fu mai così categorica come l'autore dichiara. Per altro verso, come abbiamo visto, anche la presentazione paratestuale di Hilarotragoedia incoraggia il lettore a godersi l'opera a due livelli diversi, sia come «morfologia» sia come insieme di «esercizi», ovvero sia come uno sperimento formale, sia come un sofisticatissimo gioco di finzione. L'atteggiamento di Manganelli verso la finzione è dunque più ambiguo di quanto l'autore lasci capire a prima vista. Dietro la sua categorica rinuncia al romanzo a favore del genere obsoleto del trattato si nasconde una fascinazione profonda per la prosa narrativa che non sfugge a chi segue le indicazioni fornite dal paratesto. Nella seconda metà di Hilarotragoedia - riservata agli «esercizi» - troviamo infatti quattro segmenti narrativi, ciascuno dei quali porta un titolo in corsivo che lo separa chiaramente dal resto dell'opera: Testimonianza di un giovane solitario (61-71), Aneddoto propedeutico (101-108), Storia del non nato (110-120) e Documentazione detta del Disordine delle Favole (122-132). Come si vede, gli intervalli fra i quattro testi diminuiscono nella parte finale del libro, dove la concentrazione di passi narrativi è così significativa che rende meno visibile il trattato e infine quasi lo rimpiazza. Ma già il primo segmento narrativo, Testimonianza, viene introdotto da un lungo commento ironicamente apologetico e posto fra parentesi, che segnala una svolta importante nel tono dell'opera:
«(Il documento che qui segue, e i successivi, sono da considerarsi esempi, o esercizi, o forse verifiche sperimentali del precedente testo teoretico; pertanto, ne presuppongono l'arguta lettura; il grave, onesto masochista che ha fatto diligente tesoro delle paradigmatiche morfologie, potrà dilettarsi di tali testi, come il dabben scolaro, di tradurre le prime compitate frasi di selvatico ed impervio idioma. E se a taluno parranno, queste documentazioni, povera cosa, e tediosa, rammenti che la scrupolosa fedeltà testimoniale è parsa più importante delle languide veneri dello stile; né gli sfugga, di questi testi aurorali, la blesa, impubere grazia, come di graffito catacombale, nato da un tenero e ustionante furore)».22
Al modo del paratesto, anche questo passo avverte il lettore dell'imminente cambiamento stilistico. Testimonianza è presentato come il primo di una serie di exempla («il documento che qui segue, e i successivi») che domineranno la parte restante del libro. Benché Manganelli non faccia mai esplicito riferimento alla narrativa di finzione, molte delle sue osservazioni giocano con il cliché umanistico che la lettura dei romanzi è un'attività frivola, che può essere giustificata solo sulla base del suo presunto valore educativo. Significativamente, questo pregiudizio viene poco dopo ripetuto dal narratore in prima persona di Testimonianza: «Ho in odio le nasali lamentazioni autobiografiche, i corrucci lirici e allusivi; né vi indugerei ora, se non per introdurre e farsi ragionevole la storia che ora si narra, non per insolente narcisismo, ma per custodirne la qualità testimoniale» (62). Macrotesto e micro-narrazione dunque congiurano a denigrare la narrativa di finzione, e tuttavia il loro tono sprezzante e ossessivamente difensivo hanno proprio l'effetto di suggerire per contrasto il piacere del raccontare.
L'importanza dei quattro exempla per la composizione di Hilarotragoedia è stata messa in rilievo con esemplare chiarezza da Mariarosa Bricchi nel suo lavoro sulle varianti autografe di Hilarotragoedia conservate presso il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell'Università di Pavia. I risultati della ricerca di Bricchi, pubblicati prima in un articolo del 1999 e poi, più diffusamente, nel volume Manganelli e la menzogna (2002), rivelano che Hilarotragoedia si evolse secondo un piano preciso, che sin dall'inizio prevedeva la divisione del testo in vari segmenti.23 Come dimostra Bricchi, tale schema si basa su un insieme di testi brevi e relativamente autonomi, chiamati inizialmente da Manganelli «storie». Solo in un secondo tempo Manganelli sostituisce questo termine con altri («testimonianza», «aneddoto», ecc.), che lasciano trasparire meno il contenuto del testo. Dagli appunti dell'autore risulta che Manganelli concepì originariamente cinque unità narrative, volte a ritardare lo sviluppo dell'argomento principale del libro, la descrizione della discesa dell'anima nell'Ade.24 Sarebbe dunque fuorviante considerare i quattro microtesti narrativi di Hilarotragoedia come dei momentanei lapsus in un testo che altrimenti aspira a una «scrittura vuota» priva di narrazione e di contenuto. Il sottile omaggio di Manganelli alla prosa narrativa costituisce una parte essenziale della struttura del libro.
Conviene soffermarsi ancora sul rapporto fra i quattro exempla e il macrotesto in cui si inseriscono, ovvero la parodia del trattato annunciata da Manganelli nella prima frase del paratesto. Colpisce innanzitutto la maniera in cui l'autore separa ogni microtesto dal resto dell'opera attraverso una cornice riconoscibilissima: una riflessione introduttiva spesso apologetica e una conclusione altrettanto formulaica.
«E dunque non parrà irragionevole dedurre dalle storie su riportate la seguente ipotesi:» (71; conclusione della Testimonianza di un giovane solitario).
«Poiché non v'è discorso generale che non ne guadagni a certificarsi nel particolare, e l'astratto in ogni modo cerca di nascere in corpi precari e compatti, gioverà, a questo punto [...] presentare la prescritta documentazione, cominciando da quello che ora segue: [...]» (101; introduzione all'Aneddoto propedeutico).
«Sia chiaro: le lepidezze del testo non debbono trarre in inganno il lettore; il documento resta, se non tragico, bellamente patetico, una illustrazione, stile calendarietto del barbiere [...]. È una lettura certamente educativa. Entro questi limiti, confidiamo che sia per essere non inutile al catalievitante, uomo che non deve avere a sdegno le frivolezze pedagogiche, quando bene orientate. Aperitivo s'è detto: pertanto, i grandissimi stomachi mangiacosmo sono invitati a procedere al seguente documento, ideologicamente assai più avanzato» (109; conclusione di Aneddoto propedeutico e introduzione a Storia del non nato).
Nonostante il tono ironico, questi passi funzionano da cornice per i testi narrativi e servono a mantenere ferma la distinzione tra i due livelli del testo. Ciò che è all'interno della cornice viene perciò percepito dal lettore come un'unità testuale autonoma e completa, persino quando si tratta - come nel caso di Testimonianza - di una serie di narrazioni contrastanti e ripetutamente interrotte. L'impressione dell'autonomia dei microtesti viene inoltre rafforzata dal pretesto che dà vita all'opera: la parodia della forma trattato. A questo livello, i quattro inserti narrativi appaiono infatti come exempla, ovvero come testi autonomi che rappresentano ed esemplificano le massime articolate dal macrotesto. Come ha dimostrato Karl-Heinz Stierle, nella forma classica del trattato l'immutabilità dello schema narrativo è assicurata dall'accettazione di un sistema filosofico stabile e assoluto, in cui la completezza dei singoli exempla corrisponde alla costruzione sistematica del testo che rappresenta a sua volta la visione filosofica che lo informa.25 In Hilarotragoedia questo equilibrio formale sembra fedelmente riprodotto, almeno in apparenza. Macrotesto ed exempla sono facilmente riconoscibili, sebbene la loro coerenza interna sia sabotata tanto sul piano semantico quanto su quello formale. Tuttavia, uno sguardo più acuto al testo rivela che l'intenzione parodica di Manganelli non si limita ai singoli componenti del testo ma si estende anche al rapporto fra micro e macrotesto. Apparentemente entità autonome inserite per ritardare lo sviluppo del trattato, i quattro brevi testi narrativi contaminano in verità il macrotesto sia stilisticamente, sia sul piano del contenuto. Un primo, importante esempio di questa contaminazione si trova nel primo exemplum, Testimonianza, dove si verifica una curiosa coincidenza delle opinioni del «giovane solitario» con quelle della impersonale voce autoriale del trattato. L'avversione dichiarata dal narratore in prima persona verso «le nasali lamentazioni autobiografiche» corrisponde quasi alla lettera a quella della voce narrante del macrotesto. La coincidenza rende vago il confine fra exemplum e «trattatello» e rende più significativo l'uso della prima persona fuori dai brani narrativi. Per via delle sue affinità stilistiche con Testimonianza, è possibile considerare il «trattatello» stesso come il lamento di un altro «giovane solitario», uno sfogo autobiografico inconcludente e tormentato che è solo malamente dissimulato attraverso l'appello iniziale a sistematicità e compiutezza. Man mano che si va avanti nella lettura assistiamo difatti a una crescente contaminazione tra macrotesto ed «esercizi». Se gli exempla riecheggiano lo stile verboso del «trattatello», essi per contro disseminano nel trattato la loro peculiare angoscia esistenziale. Ciò diventa particolarmente evidente nella frase finale di Hilarotragoedia, dove la distinzione tra i due livelli è del tutto abolita con un inaspettato cambio di prospettiva: «In proposito, si potrebbe avanzare la seguente ipotesi: [...]». Sintatticamente e stilisticamente, la conclusione di Manganelli richiama le summenzionate cornici testuali, e tuttavia non rimanda a nessun exemplum specifico, ma al testo stesso di Hilarotragoedia. Non esiste dunque vera differenza qualitativa tra i due generi esplorati da Manganelli. Proprio come la narrazione in prima persona degli exempla, il «trattatello» è anch'esso un testo di finzione, che esige di essere interpretato come tale e perciò genera - come i due punti finali suggeriscono - una serie infinita di testi. Crolla dunque la distinzione tra microtesto e macrotesto ma anche l'equilibrio formale del trattato. Esaurita la sua funzione esemplare (sebbene soltanto in senso parodico) l'exemplum si trasforma, per dirla ancora con le parole di Stierle, in racconto.26
III. Una sfida ai generi precostituiti
Hilarotragoedia come un omaggio alla irresistibile e sovversiva forza del narrare? Date le incessanti tirate di Manganelli contro il romanzo, tale lettura sembrerebbe la meno ovvia. E tuttavia, una simile lettura non è in contrasto con le idee più generali di Manganelli sulla letteratura. Anzi, molti dei suoi primi scritti teorici indicano che la sua avversione per il romanzo non si è mai estesa a tutta la narrativa di finzione.27 Ne La letteratura come menzogna, ad esempio, l'atto del narrare è definito come un istinto umano fondamentale e una componente essenziale della nostra identità.
«Vi sono animali di capzioso pelame, sui cui volti aguzzi e astratti deretani splende un dizionario di miniate immagini. Il loro corpo è saldato e assistito da una sintassi di segni; una rete di avventurose isoglosse, sgargianti e silenziose, fa di membra casuali un discorso, un estro artificiale. Una assurda e perentoria nobiltà decora quel corpo estraneo che procede, inconsapevolmente bandiera, stoffa, stemma feroce e veloce. Non diversamente, l'uomo porta attorno questo inutile e prestigioso stendardo, manto e sudario che non coincide col corpo, guaina inesatta e fastosa. Come il mandrillo non può mortificare la retorica delle sue chiappe policrome, così non potremmo toglierci di dosso, deliziosa maledizione, questo pieghevole vello di verbi».28
L'idea che la letteratura nasca dal bisogno primordiale di raccontare non è di per se nuova - la ritroviamo infatti in molti testi fondamentali per la narratologia e la filosofia della letteratura.29 Ciò che invece sorprende nel saggio di Manganelli è la tensione apparentemente irrisolta fra questo elogio del raccontare e la definizione del ruolo dello scrittore data immediatamente dopo. Secondo questa definizione, la scrittura letteraria non è altro che una manipolazione puramente formale del linguaggio: «l'opera letteraria è un artificio [che] racchiude, ad infinitum, altri artifici» e «il destino dello scrittore è lavorare con sempre maggiore coscienza su di un testo sempre più estraneo al senso» (222).30 Benché apparentemente contraddittorie, queste due visioni della letteratura coesistono ne La letteratura come menzogna e spiegano in ultima analisi l'interesse di Manganelli per il racconto. La motivazione che spinge Manganelli a sovvertire l'equilibrio formale del trattato, nasce di fatto proprio da questa contraddizione. Per l'autore di Hilarotragoedia, scrivere non vuol dire creare un semplice pastiche linguistico privo di senso, come sospettavano alcuni dei suoi primi critici. Obbedire ai comandi del «linguaggio, dio barbaro e precipitosamente oracolare» (221) non significa, per Manganelli, scrivere a vuoto senza avere nulla da dire. Spingendo al limite le possibilità della scrittura, avventurandosi in quel «linguaggio abitabile» che lui stesso definisce come «oscuro, denso, direi pingue, opaco, fitto di pieghe casuali [...], totalmente ambiguo, percorribile in tutte le direzioni, [...] inesauribile e insensato» (221), Manganelli non s'imbatte in parole isolate, ma in enunciati, chiacchiere, tracce di racconto.
L'interesse di Manganelli per il racconto non nasconde dunque una particolare teoria del genere, né tanto meno la convinzione che il racconto breve sia di per sé preferibile alle altre forme della prosa narrativa. Piuttosto che come realizzazione del tentativo del Gruppo 63 di dar vita a un nuovo modo di scrittura letteraria in prosa, Hilarotragoedia dovrebbe essere letto come un testo che sfida ogni rigida, a priori, categoria di genere letterario, un libro che contesta le distinzioni normative tra finzione e non-finzione e così prepara il terreno per un atteggiamento diverso, più flessibile e pragmatico, verso la scrittura in prosa.31 Non stupisce dunque, che Manganelli, quando si trova a dover rispondere alla domanda «che cosa non è un racconto» non scelga la via di una sistematica definizione formale. Per l'autore di Hilarotragoedia, tutto è racconto, dal Baldus alla ricetta dell'Artusi.32 Tutto, naturalmente, tranne il romanzo:
«Ma credo di poter dire che il racconto non è il romanzo. È l'unica "cosa" - uso questo termine rozzamente elusivo per non cadere nelle panie di una precisazione concettuale - che non è il racconto. Forse tutto il resto, inclusi babirussa e congiuntivi imperfetti, è racconto; ma il romanzo, no. [...] Il romanzo è l'Erode dei racconti. Può svolgersi solo uccidendo continuamente possibili racconti, come quel juggernaut che schiacciava i fedeli; e questo fa perché i racconti si collocano trasversalmente al percorso del romanzo. Quando Don Abbondio incontra i bravi, deve passare sul cadavere del racconto dei bravi - di che si saran parlati andando a quel bivio? - e il cadavere del racconto che voleva nascere attorno a quel tabernacolo dipinto d'anime purganti; e poco dopo quel «si racconta che il Principe di Condé» non è una confessione di denegato - necatus - racconto? Insomma, un romanzo si può scrivere solo rinunciando alle minuscole, ripetitive eresie dei racconti; le mostruosità effimere; le frettolose perversioni; gli appunti per un delirio».33
IV. Bibliografia
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2005-2006
<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2005-i/Mussgnug.html>
Giugno-dicembre 2005, n. 1-2