Maria Antonietta Grignani
«L'espressione, la voce stessa ci tradiscono».
Sulla lingua di Tommaso Landolfi

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
Landolfi tra Ottocento e Novecento
«L'espressione, la voce stessa ci tradiscono»
La lingua landolfiana
Voce e silenzio
Narratore e lettore



 

§ II. «L'espressione, la voce stessa ci tradiscono»

I. Landolfi tra Ottocento e Novecento

Chi si ponga a leggere Landolfi senza pregiudizi è fatale che resti sconcertato, trovando una discrasia tra lo splendore quasi manieristico, ottocentesco o addirittura arcaizzante della scrittura, da un lato, e i tagli compositivi arditi, "fantastici" e irrequieti, dall'altro. È Landolfi uno degli ultimi Scapigliati, un ottocentista eccentrico in ritardo preso da smanie di blasoni vocabolaristici, alla ricerca di tartufi lessicali come in fondo crede Contini, nella scheda dell'antologia Letteratura dell'Italia unita e nel ripresentare in edizione italiana la sua Italie magique del 1946, dove confessa la sua delusione per il surplace o mancata evoluzione della narrativa landolfiana, segnata da «una somma di addendi similari»? O non è invece autore ben novecentesco, ossessionato fino alla nevrosi dalla insufficienza e opacità del mezzo linguistico rispetto a un'inattingibilità del reale, turbato dalla marginalità della parola letteraria e dal disordine in cui la caduta dei generi ha piombato la sfera dell'estetica e quella della ricezione, mentre le domande sul raccordo di sangue e di fiducia che dovrebbe intercorrere tra il vivere e lo scrivere restano sempre più inevase, producendo un senso di vuoto e di inanità? La critica recente propende per questa ipotesi meno ingenerosa, ma foriera di quesiti difficili, in ordine alla collocazione di Landolfi in un filone o tendenza o corrente del Novecento italiano e soprattutto in relazione ai motivi individuali del conflitto tra lingua o stile e modernità tematica; insomma, per esprimerci in termini spitzeriani, in rapporto all'etimo spirituale o psicologico di tale conflitto.1
Non è un caso che gli storici della lingua non si siano finora occupati molto del codice espressivo di Landolfi, pure così lontano dallo stile semplice, forse per la distanza sua dalle abitudini scrittorie del Novecento, ma più probabilmente per le difficoltà di indagarne le ragioni profonde, psicologiche e estetiche.2 Paolo Zublena è uno dei pochi che, dopo un ragguaglio analitico di tratti linguistici (morfologici, lessicali e sintattici) caratteristici delle opzioni landolfiane, su un campionario prelevato da tre opere di cronologia diversa (La pietra lunare, Le due zittelle e Un amore del nostro tempo), provi a trarne la seguente deduzione critica: la complicata maschera linguistica, caratterizzata da sistematiche opzioni culte, lessico aulico e raro, toscanismi idiomatici, ipotassi complessa, ma talora microsintassi turbata nella direzione espressiva, è una formazione reattiva nel senso freudiano, che «opera soprattutto come una coazione al nascondimento: del sé, delle origini inabissate della propria nevrosi», alla compensazione fin troppo ordinata di un'esperienza depressiva governata dalla paura «del fondo torbido di sé».3 È un'ipotesi radicale, che eccellenti italianisti come Anna Dolfi e Ernestina Pellegrini avevano già profilato da anni e promosso fin dal titolo del convegno fiorentino del 2001 nella formula degli "altrove". Landolfi, uomo di soglia e tutt'altro che funambolo, sarebbe "altrove" perfino rispetto al proprio stile, vittima di uno sdoppiamento irredimibile tra coazione al cerimoniale pettinato, quando non volutamente antiquato, e inquietudini del tutto attuali: dubbi sulla propria identità, impossibilità della naturalezza, irrisione dei divieti sociali, dissipazione, arte combinatoria e depistaggio intorno alle fonti.4

 

§ III. La lingua landolfiana Torna al sommario dell'articolo

II. «L'espressione, la voce stessa ci tradiscono»

In tanto dissimulare, l'autore a un certo punto della sua carriera, all'inizio degli anni Cinquanta, ha preso a soffermarsi - in tre diari successivi - sul tema della propria ossessione della forma, argomento che in lui richiama esplicitamente alla problematicità di rapporti e conflitti tra scelte stilistiche e disordine della realtà, nel suo duplice aspetto, oggettivo, di casualità o caos esteriore e, soggettivo, di insondabilità psichica: un dilemma molto novecentesco che in lui si aggroviglia senza soluzione e che troviamo invece esposto con la solita netta lucidità da Italo Calvino in Mondo scritto e mondo non scritto:

«La mente dello scrittore è ossessionata dalle contrastanti posizioni di due correnti filosofiche. La prima dice: il mondo non esiste; esiste solo il linguaggio. La seconda dice: il linguaggio comune non ha senso; il mondo è ineffabile. Secondo la prima, lo spessore del linguaggio si erge al di sopra d'un mondo fatto d'ombre; secondo la seconda, è il mondo a sovrastare come una muta sfinge di pietra un deserto di parole come sabbia portata dal vento».5

Il titolo che ho messo in cima alle osservazioni a seguire va addirittura più in là della dicotomia accennata da Calvino, perché allude non solo alla scrittura ma anche alla vocalità, non denuncia solo il tradimento dell'espressione scritta con i relativi lacci della tradizione letteraria, ma pure quello del parlato e della voce umana, altrettanto strutturata per tratti "discreti" e analitici, alterata all'occorrenza per esigenze di contesto e incapace di attingere una dimensione di autenticità originaria rispetto alla restituzione del mondo.
«L'espressione, la voce stessa ci tradiscono» è una citazione da Rien va, diario uscito nel 1963, in cui la paura dell'assenza di senso e della non sufficiente motivazione della forma riporta immediatamente alla soggettività e alle autodiagnosi del diarista scrittore: «L'espressione, la voce stessa ci tradiscono, o almeno tradiscono ciò da cui si dipartono», è seguito da osservazioni sul tono di voce gridata che si deve usare per esempio con i sordi con modificazioni che aggiungono, di volta in volta, falsi toni a uno statuto già pericolante dell'enunciazione, peggio che peggio di quella meditata e scritta.6
L'analizzatore di se stesso dilaga in lagnanze insofferenti e crudeli, perché sembra a lui che nemmeno la zona informale del diario possa liberarlo dalla coazione all'ornato e al magistero d'arte. Come già nella biere du pecheur di dieci anni prima, Landolfi sente come una condanna «scelta di parole, disposizione degli argomenti, perspicuità del dettato e altri maledetti inceppi [...] Camicia di Nesso, una tal letteratura o scrittura che non sa abbandonar i suoi lenocinii ... Ma come uscirne? E invece io vorrei che questo fosse il libro (il registro) del mio abbandono [...]». Lo «scriver male», dice a tutte lettere, sarebbe un riposo, inibito dalla consapevolezza di soffrire, insieme alla propria opera, di «mal di vuoto».7
L'armoniosa fusione tra vita e scrittura, miraggio e tormento che percorre tutta l'esperienza landolfiana e che in Rien va rovescia la famosa formula ermetica di Carlo Bo sulla «letteratura come vita» (no, dice Landolfi, «la letteratura non è vita»), è una volta di più segnata da uno scacco personale:

«E invece, a forza di ripiegare e sostituire e simboleggiare, eccomi qui chiuso ormai senza speranza in questi meschini giochi di penna, e ben sapendo che non ho sostituito niente, che non posso sostituire niente, perché non si sostituisce la vita colla morte, ciò che è con ciò che non è».8

L'impossibilità di una parola più diretta, in Rien va, coincide con l'inevitabile e fastidiosa dominanza di una camicia di Nesso ancor più tiranna di quella allegata allo stile, l'incombere di un autobiografismo imperioso e insomma il riporto frequente all'io, pronome centripeto e tiranno comunque, anche qualora trasposto nella figura testuale dell'io narrante («imperterrito benché furioso con me stesso [...] io seguito a piantare i miei Io in testa al drappello delle parole, quasi portabandiera!»). Il che fa il paio con altre affermazioni, come questa de La biere du pecheur: «Così, su tutte le altre, si trova frustrata la mia antica e perenne aspirazione alla terza persona: son condannato, forse per sempre, a questa prima».9
Il diarismo landolfiano, cui inerisce un «autobiografismo fluido», secondo la bella definizione di Andrea Cortellessa,10 è stato diversamente giudicato. Rimanendo nell'ambito dei critici scrittori, per Sereni quella del primo diario è una salutare uscita dalla splendida durezza della narrativa fino a Cancroregina; invece dalle recensioni di Montale e Caproni a quello o al successivo emerge qualche sospetto di resa atteggiata per effetto di un nero narcisismo, pur entro una sincera negazione totale che è tipica della situazione contemporanea, «sola e senza conforto nel labirinto delle sue domande» (Caproni). Zanzotto, più equamente, giudica l'autobiografismo esplicito una sorta di metamorfosi di un precedente autobiografismo mascherato entro la narrativa.11

 

§ IV. Voce e silenzio Torna al sommario dell'articolo

III. La lingua landolfiana

Se dalla zona fluida dei diari ci spostiamo nel filtraggio più controllato dei testi narrativi, troviamo a piene mani, e senza radicali evoluzioni in diacronia interna, una propensione per le forme culte, anche laddove sarebbe facile un sinonimo o un assetto fonomorfologico più aggiornato («balbutendo» 'balbettando', «imo» 'profondo', «meramente» 'puramente', «peritosamente» 'con esitazione', «comportevole» 'sopportabile', «vagellamento» 'vaneggiamento', «menare» 'condurre', «lagrima» con la velare sonora); toscanismi esibiti («diaccio», «grullo», «spengere», «codesto», «fo» 'faccio', «focone», «moveva», «punto» 'niente affatto', «noi si va», il «sicché» conclusivo), pronomi inamidati («egli / ella»; «colui / colei» anaforici, il «di lui / la di lei» interposto, tipo «la di lui fantesca», il tipo anaforico «esso progetto», «contro esso portello», «in detta parete»); posposizione del pronome nelle interrogative («Sarete voi degno di ciò? Non mi tradirete voi?»); locuzioni avverbiali e formule come «senza più», «appetto a», «al postutto» o «giusta il solito», «secondo a me parve». A questa atmosfera morfologica e lessicale, segnata da un certo eclettismo, si accostano certe neoformazioni, quasi sempre motivate dal tema peregrino, come nel ruotare spaziale del protagonista in Cancroregina, ove lo sproloquio straniante, per inversione del punto di vista, gli fa dire «le fasi della luna, quelle della terra, novilunio, noviterrio, luna piena, terra piena ... e poi?».12
Per la sintassi si notino ancora i participi presenti in funzione verbale («con tendini e nervi, non muscoli, correnti per la dolce sostanza che le informa; [...] con piccole onde di carne diafana e perlacea rigonfiantisi contro la gabbia fragile delle costole», Pietra lunare, I, 138; «un massiccio opercolo aprentesi in fuori», Cancroregina, I, 539), gerundi assoluti in gran copia, magari con enclisi del pronome nella forma verbale, tipo «i miei occhi assuefacendovisi», «compatendonelo». Insomma una sintassi molto complessa, levigata e peregrina, dove anche le inversioni nell'ordine delle parole, per marcarne un componente, non tanto sembrano ammiccare alla topicalizzazione espressiva dello standard parlato, quanto rinviare a una variazione ritmica calcolata: «I profondi timori del giovane ella vinse con istintiva sapienza» (Pietra lunare, I, 149); «grigi fauni parevano costoro da lontano» (Pietra lunare, I, 152); «aveva egli in questa casa preso ritiro» (Racconto d'autunno, I, 463); «la sua sorveglianza si trattava d'ingannare» (Racconto d'autunno, I, 466).
Se la riprova della motivazione autocritica dei diari sul corpo verbale dei testi finisse qui, poco altro ci sarebbe da aggiungere alla lagnanza sulla «camicia di Nesso» della bella forma. Il fatto è che, come gli studiosi di Landolfi sanno, lungo tutto il corso della produzione narrativa, e dunque per noi senza lo scrupolo di citazioni cronologicamente ordinate, esistono zone che scompongo l'assetto levigato, luoghi in cui il respiro della storia narrata si blocca in interruzioni abrupte, in digressioni, in macchie di metadiscorsività e insomma in manipolazioni che interrompono il tradizionale patto di credibilità tra autore e lettore. Questi colpi di scena tutt'altro che classicheggianti aprono un piano diverso da quello della lettura sequenziale; depistano, trasformando la realtà in scenografia, contribuendo all'effetto di autotraduzione da un originale nascosto o di apocrifo sottolineato da molti.13 Tra gli altri Italo Calvino, nella postfazione alla antologia Le più belle pagine scrive:

«Attorno a una idea - quasi sempre un'invenzione perfida, o ossessiva, o raccapricciante -, s'organizza un racconto d'elaborata esecuzione, impostato quasi sempre su una voce che pare faccia il verso a un'altra voce (ma come un grande attore che per definire il personaggio non ha bisogno di distaccarsi che appena un tantino dalla propria dizione abituale) - o diciamo, su una scrittura che solo fingendosi parodia d'un'altra scrittura [...] riesca e esser diretta e spontanea e fedele a se stessa».14

Tutta la sezione intitolata appunto nell'antologia Calvino «Le parole e lo scrivere» potrebbe essere convocata. Un esempio-limite è Rotta e disfacimento dell'esercito (Racconti impossibili, 1966), dove un inizio di narrazione tradizionale è interrotto da un feroce e lungo corsivo contro l'os rotundum, contro la «falsità di questa scrittura, e dunque non solo di questa scrittura» (II, 674). Procedendo in espansione, Landolfi contesta non solo il proprio scritto, lasciato sdegnosamente in tronco, ma la più generale follia di raccontare una storia; tant'è che la raccolta, vi si dice, potrebbe avere un bel due punti tra sostantivo e aggettivo, intitolandosi: Racconti: impossibili.
Nella maggioranza dei casi il racconto non è interrotto, ma mette en abîme caratteristiche antiquate o fiorentineggianti (che è poi lo stesso per l'eclettismo di Landolfi), in momenti dove meno ci aspetteremmo un tale dubbio indotto dai discorsi dei personaggi e da un metalinguismo sceneggiato tra locutori. Ne Le labrene (1974) la novella Encarte, tutta dialogata e non situata in un contesto né geolinguistico né cronologico, gira intorno al tema del doppio e degli espedienti che un gemello monozigota attua, estorcendo una connivenza al delinquere al proprio fratello onesto, grintoso e vincente nella vita. Ebbene, quando il gemello ingannatore deruba una vecchietta fingendosi idraulico, assistiamo al seguente dialoghetto tra l'anziana e lui ladro sotto mentite spoglie:

«- Un trombaio!
- Trombaio-fontaniere, per la precisione. Non ne avevate chiesto uno?
- [...]
- "Idraulici", perfino ci chiamano in colonia».15

Peccato che nel testo non ci sia nulla che ambienti nella Firenze del tempo che fu la vicenda; e i vari «grullo», «briaco», «di costì» non sono segnacoli di geografia, bensì solo di un conflitto irrisolto, per quanto atteggiato all'ironia, tra la vicenda del doppio perverso, gli strati di lingua e la relativa cronologia. A proposito della caduta - in Firenze stessa - di voci come «trombaio» e «fontaniere», la testimonianza di Giovanni Nencioni, Autodiacronia linguistica, uscita nel 1982, tutta basata sulla memoria personale dello studioso e cittadino di Firenze, ormai non giovane, di fronte al cambio d'abitudini linguistiche avvenuto, denuncia quanto in Landolfi queste manipolazioni su cause perse siano strumentali non a una storicizzazione del tempo e del luogo perduto, ma a una messa in discussione tragicomica dello strumento linguistico.16 Perciò anche il ludico, affettuoso fiorentineggiare del Palazzeschi di Stampe dell'Ottocento non può essere invocato a modello di un trattamento ironico da scrittore al quadrato, instillatore di voci recitanti svincolate da contesti attendibili.17
Nei Racconti impossibili un pezzo come La passeggiata è un divertimento o capriccio piuttosto sconcertante, perché interamente scritto con parole desuete, quando non incomprensibili al lettore medio. Invece la più tarda Conferenza personalfilologicodrammatica (Le labrene), organizzata come un dialoghetto tra autore conferenziere e ascoltatori riottosi, regala alla critica e ai lettori la fonte: il diffusissimo dizionario Zingarelli, che, col rinforzo del Tommaseo-Bellini, certifica l'appartenenza al «buon uso toscano» dei termini incriminati. Constatata l'ignoranza di pubblico e critici, inesperti della diacronia e della stratificazione linguistica, Landolfi ammette nella Conferenza la vanità della propria fatica, nelle sue intenzioni originarie tesa a comprovare che l'incomprensione non esiste solo tra idiomi diversi, ma passa addirittura all'interno dei parlanti e conoscitori di una stessa lingua.
Questo autocommento richiama alla mente le Postille a un'analisi stilistica che Gadda scrisse nel '37 a margine di un'indagine ampia ma punitiva di Giacomo Devoto sulla lingua, certo difficile, del Castello di Udine.18 Ma la differenza di posizione tra i due commentatori di se stessi mi pare vistosa e significativa.
Pur provando pure lui sui migliori repertori lessicali l'esistenza storica di forme e significati che gli venivano contestati, Gadda oppone al richiamo normativo alla langue di Devoto il diritto dello scrittore alla parole, inalienabile diritto di scorrazzare in lungo e in largo nella sincronia e nella diacronia delle forme, perché i modi dell'espressione «procedono da impulsi pressoché ineluttabili». Da vero espressionista, il Gran Lombardo esibisce una sorta di smania di possesso linguistico a scopo conoscitivo (è il suo «omnia circumspicere, singula enumerare» studiato da Gian Carlo Roscioni); crede che alla complessità e disarmonia e baroccaggine del mondo si possa e debba rispondere con la complessità dello stile e del lessico, tant'è vero che nel Castello affida a un suo doppio solidale en travesti, il dottor Averrois, note che già pervengono alla stilistica e all'interpretazione del testo. Gadda mostra una sorta di ingordigia linguistica per smania di restituire un reale più profondo della sua superficie d'uso, ma non aspira a una finzione di reale; perciò non è preda del tormento della rappresentabilità, non ha atteggiamenti nostalgici per situazioni di lingua trapassate, non sogna un'espressione primigenia o addirittura prelinguistica.19
Invece Landolfi, che espressionista non è, avverte la morte di strati della lingua, cui nel caso specifico dà luogo effimero e puramente testuale, per l'appunto, nella forma del "racconto impossibile" La passeggiata, che così comincia:

«La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po' gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l'effetto di un malagma o di un dropace!»

La provocazione manieristica o linguaiola pare un sostegno da "scapigliato", alla caccia di rarità dell'uso toscano annidato nei repertori lessicali. Invece è solo uno degli aspetti di un rapporto tortuoso e mai pacificato con il mezzo verbale, dietro cui si nasconde un'idea mediata e algida di reale, elemento cui al più si può conferire lo statuto di fondale scenico, visto attraverso una vetrofania esorcizzata dal linguaggio. In alcuni testi il discours, anche al limite del tiro mancino che sa di lucerna, finisce col depotenziare l'histoire. Il compiacimento goloso può arrivare, e lo fa frequentemente, alla filza o serie di sinonimi o quasi sinonimi tutti rari, come nel caso di Perbellione, il punitore di donne (alla fine punito dalla sua Santippe) de Le labrene: «Ma ecco a quelle prime percosse tennero ancora dietro un cosotto, uno iotolone, un garontolo e un gongone»;20 oppure all'elencazione in serie senza punteggiatura, come accade nella molto più antica Pietra lunare durante la metamorfosi bestiale dei sodali e delle "veranie" compagne di Gurù: «E grugni rostri grifi becchi proboscidi zoccoli zampe velli zanne insieme a membra umane, bianche più aduste pelose, a poppe di donna, a nerbuti sessi maschili».21 È stato giustamente notato il carattere di «scongiuro» della scrittura, una formula di massima potenza apotropaica per rendere innocua la realtà.22
Nelle Due zittelle del 1946, racconto surreale al limite del controcanto rispetto alla convenzione neorealistica furoreggiante in quell'immediato dopoguerra, la nota finale finge il ritrovamento di appunti di mano femminile, che avrebbero offerto spunto alla trama, storia delle vecchie nubili e della scimmia sacrilega, perturbatrice dell'ordine perbenista e sostituto di una presenza maschile invano e silenziosamente desiderata dalle due mature sorelle; ma alla fine uccisa con conseguente ritorno all'ordine. Nella postilla d'autore nessun accenno alla stranezza della vicenda e al suo potenziale eversivo, ma solo allo stile e all'ortografia imperfetta dell'annotatrice, dal cui incerto maneggio dell'italiano l'autore si compiace di riportare «scimia» con la m scempia e, per compensazione, si concede un «zittelle» con la dentale rafforzata, quasi - dice - che «zittella» potesse esser diminutivo di «zitta» e non di «zita».23 Anche questa nota landolfiana, a ben vedere, dissimula su un pretesto paretimologico una storia piena di doppi fondi di ben altra portata, ripescando tra l'altro due varianti grafiche desueta l'una, regionale l'altra, ma non inventate. Nel più tardo Un amore del nostro tempo (1965) una storia incestuosa viene trattata con uno stile assolutamente manierato, nel confronto-controversia tra il fratello Sigismondo (collocutore e epistolografo) e la sorella Anna (narratrice), che finiscono amanti e infelici generatori d'un figlio. Agente di trasgressione è soprattutto Sigismondo, il fratello, poeta presentato all'inizio come sonettista agito da «un superbo sprezzo d'ogni travaglio di predecessori e d'ogni pregresso sviluppo delle forme poetiche, o, piuttosto, quasi una vergine inconsapevolezza dei medesimi». Tra i due passa una storia scabrosa, dissipativa e sovvertitrice dei tabù sociali, ma il loro dialogato è cosparso di garbate contestazioni linguistiche, tipo: «... E così, Anna, nulla mi era dato, compartito...». «Compartito: tolleri queste parole gonfie che per qualche condanna non so evitare?». La pratica della correctio, altra caratteristica costante del discorso di Landolfi,24 viene presa in carico soprattutto dalla protagonista narratrice Anna, che sull'orlo dell'abisso ricorda: «La notte stessa, da un gelido ... voglio forse dire impartecipe, ma non è neanche la parola: accigliato, piuttosto, scrutante la terra come con cigli levati ... da un gelido cielo crepuscolare si scatenò una violenta tempesta».25
Non mancano le schermaglie reciproche basate su singole espressioni e magari sulla prescrizione retorica della non repetitio, che sarebbe uno spunto comico-accademico se il tema non premesse nella direzione di un gioco tragico:

«- Anna, lascia il bamboleggiare e levati: guarda la tempesta è finita, legandoci...
- Buffo Sigismondo! ecco come tu fai diventare d'ogni cosa una cosa risibile. "Legandoci"! certo vuol dire "trasmettendoci in eredità", "lasciandoci".
- Ma avevo già detto: "Lascia il bamboleggiare".
- Appunto: sei uno spregevole esteta. Dante non ha paura delle ripetizioni, e tu sì?».26

In altri passi Sigismondo ammette che non sa «lacerare il velo sgargiante del suo linguaggio, l'involucro inesorabile della sua sintassi da esteta» (II, 564); fino ad arrivare alla conclusione che l'intenso uso delle parole sia vaneggiamento, inganno reciproco, prigione, tirannia e ai seguenti richiami:

«Ah taci, Anna, quante parole! Noi due non facciamo che parlare: a che servono, le parole, o come potrebbero darci conto di ciò che non sappiamo neppure nel più profondo della nostra anima, della nostra carne? Di ciò che non sappiamo ancora e forse non sapremo mai?»

«Le parole, Anna! Non son esse che ci hanno ucciso? Ah, perché abbiamo parlato e parliamo, conoscendo inutili le parole? O perché non abbiamo saputo ad esse sostituire... perché, ecco, non abbiamo saputo, oppure non ci fu dato, vivere invece di parlare?»27

È evidente che qui la contestazione linguistica riguardi non solo l'opacizzarsi della lingua nell'abbigliamento delle frasi uscite a mascherare un profondo non effabile (in questo caso, scabroso), ma addirittura, come osserva Calvino nella postfazione all'antologia citata, la coscienza e la patologia del vivente, che seguita a trincerarsi e a contorcersi dietro la droga della retorica.

 

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IV. Voce e silenzio

Ed ecco, al polo opposto del maneggio vocabolaristico da «trafficante di parole» e del costante riflettere nichilistico sulla condanna alla bella forma, in Night must fall del molto più antico Dialogo dei massimi sistemi, l'apologo dell'assiuolo o chiù, che ripete una sola nota senza che questa gli invecchi in gola, mentre agli umani la iterazione di una parola o di un'intonazione si avvizzisce ben presto tra le labbra. L'io narrante confessa di non saper inghiottire le notti e parlare per loro come fa il cantore prelinguistico di pascoliana memoria, invocando fuor di metafora un desiderio di vocalità (non di oralità!), che è puro gesto fisico situato nel presente. Con Paul Zumthor ricordiamo che, mentre la scrittura distende il tempo verso il passato o il futuro, la voce è espansione del corpo, puro presente acronologico che esce dal silenzio.28 Il sogno di Landolfi volge verso un linguaggio originario che promani dal fondo magico della natura, cerca le fonti vocali di un avantesto mitico, senza le maschere e senza la storicità imposti dal duro contratto sociale della lingua e dalla più dura convenzione letteraria, ordinatrice di significati. Ne La muta (Tre racconti, 1964), il fascino che produrrà l'assassinio della ragazza ad opera dello squilibrato narrante deriva non da una sua particolare avvenenza, ma dal mutismo suo, stato aurorale di una comunicazione non composta dall'arbitrarietà dei segni "discreti". La muta è purezza assoluta, mentre l'arte della parola appare condanna e colpa. Infatti l'assassino trasformatosi in memorialista, dopo tanto curare e giustificare il proprio dire, dopo tanto argomentare la propria confessione scritta nel memoriale, conclude: «Niente di quello che ho detto è vero. Non perché non sia vero, ma perché l'ho detto». Come ho ricordato all'inizio, la scrittura dei diari è anch'essa tentata spesse volte dal silenzio, da un senso di nausea della parola, dal vagheggiamento di ciò che sfugge al dominio della verbalizzazione, pur aggirandosi sempre tra sensazione di esilio e desiderio di appartenenza a un'origine perduta.29
Del resto, la ragazza-capra Gurù della Pietra lunare parla in un linguaggio "altro", un po' sconnesso e senza punteggiatura, con analogie tipiche del registro poetico; è questo il suo viatico al protagonista Giovancarlo nella discesa verso le Madri e il magico-indicibile. Però è curioso che lo squadernamento di nomi di erbe «amiche» e antropomorfizzate animisticamente da parte di Gurù come «buone» o «cattive», «sorde», «cieche» o «mute» (l'erino, il galanto, il miagro, l'umbella, lo psillio, I, 160) torni a distanza di molti anni in Rien va, per darsi una giustificazione apparentemente incongrua rispetto all'atmosfera magico-pagana della Pietra lunare:

«Che davvero la proverbiale insipienza dei letterati non sia nella maggior parte dei casi se non ignoranza e mancanza di esperienza diretta? (È per esempio noto che poeti e scrittori rammentano oggetti, piante che non hanno mai veduti [...] Ma io non ho parlato di erino, miagro, psillio, galanto? Tuttavia, per la verità, di queste piante io avevo larga, sebbene non partita, esperienza)».30

Qui non si tratta del poetico genericismo del mazzolin di rose e viole o del passero solitario leopardiano, contestato da Montale amante di nomi precisi (il merlo acquaiolo); non è insomma il razionalismo analitico novecentesco che coglie in difetto di attendibilità la più sfumata tradizione lirica, ma è Landolfi alle prese con un suo problema interno, proprio laddove il linguaggio figurato, pulsionale e confuso, insomma fortemente alternativo alla razionalità, della partner di Giovancarlo in Pietra lunare dovrebbe sfuggire di suo a preoccupazioni di esattezza e aderenza ai singoli oggetti del reale.31

 

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V. Narratore e lettore

Altra faccia del prisma del perpetuo aggirarsi sui temi del linguaggio si rinviene nel racconto eponimo del Dialogo dei massimi sistemi, dove il binomio parola-morte è declinato nella forma della lingua aliena (il persiano, rivelatosi poi arbitrario) cui un tale ha dedicato studi sudatissimi e ben tre poesie, credendo di aver imparato e prodotto in una lingua che esiste. Nel dialoghetto grottesco tra il critico consulente, un sostenitore ipercrociano del miracolo della creazione artistica che può prescindere dalle convenzioni linguistiche fino alla pura suggestione musical-visiva della parole, e l'io testimone narrante, che in veste di amico mediatore invano difende le ragioni della storicità della lingua e pertanto della comunicabilità, possiamo intravedere, già all'altezza degli anni Trenta, certi pronunciamenti sperimentali molto più tardi, magari quelli del Pasolini nichilista di Petrolio sulla possibilità di scrivere in una lingua inventata o irriconoscibile, per costruire «una forma» o «qualcosa di scritto» e farla finita con ogni sospetto di mimesi o realismo che dir si voglia. Pasolini all'abbandono del realismo linguistico, o espressionismo realistico tra Gadda e il mito di una lingua nazional-popolare nutrita dai dialetti alla Gramsci, in cui aveva riposto molta fiducia, ci arriva dopo le delusioni istituzionali che sappiamo, con le sue Nuove questioni linguistiche della metà degli anni Sessanta.32 Landolfi con l'intera produzione mostra di non aver mai avuto alcuna fiducia nel realismo, con o senza ambizioni espressionistiche radicate sulle varianti di registro socio-geografico. La strategia di Landolfi, si direbbe fin dall'inizio, è tragico-nichilistica, depotenziante, paradossalmente volta a decostruire apparati scenici rassicuranti, è una ars combinatoria che non sovverte ma semmai relativizza le forme.33
Che altro messaggio invia il racconto La dea cieca o veggente (In società, 1962) in cui borgesianamente un tale, giocando di combinatorie estratte a sorte, finisce col rifare pari pari L'infinito e con lo stesso sistema starebbe per riscrivere il primo sonetto del Petrarca, se, disperato, non si desse al gioco d'azzardo, peraltro con risultati disastrosi? Al di là del «giochetto intellettuale» alla fine confessato dal narratore stesso, importa l'incipit, che getta una luce apocalittica sulla creazione delle parola come combinatoria infinita: «Un giorno la poesia avrà fine per la medesima ragione per cui è fatalmente destinato all'esaurimento il gioco degli scacchi, e cioè perché le possibili combinazioni di frasi, parole, sillabe sono pur sempre in numero limitato sebbene stragrande (del resto il discorso potrebbe essere esteso alle rimanenti arti belle e a molte altre belle cose)».34
Quanto a Cancroregina (1950), l'uso della prima persona e di un sistema a tre fasi (diario-racconto in flashback-diario) comporta molti appelli a un lettore immaginario, volgendo verso la fine a un'impressionante sovrapposizione tra io narrante e autore storico. Il delirio solitario cui va incontro il diarista non punta mai sul lessico tecnico o pseudo-tale della fantascienza, ma al solito su un repertorio di vocaboli squisiti e rari ben lontani dai registri speciali, come ne è lontana l'astronave ventriloqua, dotata di un «opercolo» ossia coperchio, quasi femmina petulante che contesta e interloquisce con il narrante dal fegato, dalle ovaie, dalle Trombe di Falloppio. Il gioco metaletterario, dietro il quale ammicca l'autore, tra l'altro coinvolge, senza nominarlo, uno dei poeti più cari a Landolfi: il Montale di Notizie dall'Amiata, cui il prigioniero dello spazio "ruba" la parola cellula: «Che specie di vita io conducessi ormai, irremissibilmente chiuso con quel pazzo in quella cellula fuori, letteralmente, del mondo, è inutile dica». Con ciò saremmo nella passione landolfiana per l'arte allusiva. La cosa interessante è invece che poche pagine oltre Landolfi richiami e citi a memoria il passo montaliano: «Ti scrivo dalla cellula di miele - d'una sfera lanciata nello spazio...», postillando: «Eh sì: proprio così. Solo che io non so che cosa il poeta intendesse con cellula di miele, ma è certo che io dovrei perlomeno cambiare quell'emme in effe».35 Viene così chiamata al primo piano la natura ambigua o fittizia della parola, anche di quella poetica, per giunta altrui e per di più amata.36 Il contesto in cui si sviluppa l'affabulazione disperata e senza via d'uscita del tizio, perduto nello spazio tra una non-vita e una non-morte, volge nel finale a serie linguistiche impazzite quasi per contaminazione derivativa:

«[...] chi riconoscerebbe il mio stile? Eh no, qui c'è la mano di mascalzoni, o almeno di mascalzi, di macalzati, di macabbassati, insomma d'una spudorata genia; questa è l'opera di persecutori, o di persecumucche. E cosa volete da me, di grazia, cosa v'illudete che io faccia? Inutile sperare nel mio appoggio, inutile tentare di soffocarmi con questi scherzi idioti: io rimango e ribanano fermo sulle mie posizioni».

«Morirò, e allora, fra l'altro, ha voglia lei a dire, ce la vedremo con Cancroregina, Concrore, Cancroprincipessa, Cancrofamigliareale, Cancroecceteraeccetera, Cancrocanchero. Si è messo forse in testa, questo Cancro, di dominare l'universo?».37

Non c'è da sorprendersi, allora, che lì negli immediati dintorni testuali, a questo punto del delirio, sia sorto un vero fantasma linguistico, il "porrovio", bestia tra «il tapiro e il porco o il babirussa»:

«Da molto tempo la mia vita è ossessionata dalla ricerca o dalla sistemazione di parole. Il porrovio si aggira grigio nelle tenebre, il porrovio viene, va, il porrovio è una massa che io non posso inghiottire. Il porrovio non è una bestia: è una parola».38

Credo che in questa dimensione di incertezza epistemica della sfera del nominare, del discorrere sul mezzo linguistico e del comunicare, da una sorta di vuoto e verso un ipotizzato vuoto che non riguarda solo Cancroregina se non come esempio "didattico", si inquadri come manovra dichiarativa e al contempo compensatoria, la visibilità massima che, come in parte è già emerso in molte citazioni riportate, Landolfi suole conferire alla voce narrante (in prima o anche in terza persona). Apparentemente sulla scia manzoniana per via del ductus di contesto frequente, antiquato e falsamente rassicurante, ma più coerentemente semmai su quella pirandelliana, cui lo avvicina la diffidenza nel mezzo linguistico come veicolo di verità o attendibilità comunicativa, l'esposizione esplicita di considerazioni corrosive sopra la lingua, l'ironia con cui un locutore, manipolatore all'apparenza inattendibile (ora pazzo, ora emarginato e fuori dal mondo, proprio come il senza anagrafe Mattia Pascal, l'operatore ammutolito Serafino Gubbio e il fuori-dal-mondo Moscarda), si rivolge al lettore perbenista, con effetti di scrittura ad alta voce o gesticolazione fantasmatica su un palcoscenico vuoto. La complicità o, se del caso, la controversia fanno pensare alla teatralizzazione della narrativa più matura di Pirandello, con cui Landolfi condivide il depistaggio, la disintegrazione del patto di credibilità, la costante ostentazione recitante di chi affabula, mentre non ne condivide affatto il programma di lingua parlata cioè comunicativa e tantomeno traducibile; proprio lui traduttore da lingue non ovvie.39
Propongo qualche esempio da cose di varia cronologia perché anche questa postura, dilagante ovunque, non sembra passibile di mutamenti radicali in diacronia.
In una delle primissime prove di Landolfi, il racconto Maria Giuseppa, (Dialogo dei massimi sistemi) il narrante in prima persona si rivolge al lettore con un frequente «Signori», che pure chiuderà il referto delirante: «Ho finito. Buona notte, Signori». L'influsso del proverbiale «Signori miei» di Pirandello e delle sue maschere contrassegnate da difetti fisici, è confermato pure da passi come il seguente:

«Eh eh, se qualcuno mi conosce di voi, Signori, non mancherà di ridere: "Una donna morta per Giacomo? E che vuol dire?". Perché questo qualcuno non mancherà di ricordarsi del mio naso a peperone, della mia aria da idiota, come dicono».40

Nel Racconto d'autunno, in prima persona, il rapporto impossibile tra sfondo resistenziale e sfera del fantastico è zavorrato da frequenti preterizioni e giustificazioni: «Fo ora grazia al lettore dei lunghi discorsi che tenni meco stesso»; «Se seguitassi a fare la storia partita dei miei approcci al vecchio [...] non la finirei più. Basti qui dire che [...]» ; «Riferisco qui sotto i primi sommari risultati cui giunsi»; e così via.
Nelle Due zittelle del 1946, pur gestito alla terza persona, parimenti la voce impersonale si ostenta, con implicazioni ancor più forti avverso al patto documentario-veritativo del neorealismo. Oltre alle innumerevoli forme preteritive, tipo «per non dire», «a farla breve», «fo grazia al lettore» e simili, l'inizio sceneggia una sintomatica fuoruscita dalla convenzione: «E buon per il lettore ch'io non sento il dovere, che a quanto sembra altri sente imperioso, di descrivere minutamente simili luoghi!».41 L'attitudine mattatoria del narratore landolfiano, qui alle prese con le bravate della scimmia Tombo, punteggia il racconto surreale con esternazioni come la seguente: «Lettore, non ne ho colpa: Tombo diceva messa».42
In Cancroregina gli agganci a un lettore ipotizzato come improbabile o inesistente, data la situazione di totale disperazione e isolamento cosmico di chi narra, vengono mescolati con simulazioni di contatto apparentemente "normali" («ho detto più su» e simili), mentre il delirante viaggiatore cosmico approfitta della direzione comunicativa "impossibile" per fare una volta di più dichiarazioni metaletterarie: «(Pomposo esordio, penserà il mio inesistente lettore, per codesto tuo fatterello. Eh, pensi ciò che vuole, dacché non esiste, e si abitui alle mie tirate)». Allo stesso modo, liberato dal patto di credibilità, l'escluso dalla terra scatena le consuete riflessioni metalinguistiche care all'ironia di Landolfi: «Filano precipitò nel vuoto (espressione che ha qui, suppongo, il suo valore letterale)».
In Uxoricidio la voce autobiografica immediatamente si pone in rotta di collisione col lettore cui si dà voce:

«Eh, cosa? Per quale ragione volevo o dovevo ammazzarla? - Non fate gli ipocriti, e non mi fate ridere: posti un marito e una moglie, è manifesto che l'uno dei due personaggi è di troppo».43

In chiusura il dibattimento sfocia nella consueta sottolineatura linguaiola, ma ironica, degli strumenti linguistici:44

«Calma, ho inteso; m'è venuto all'orecchio un vocino che diceva "Ehi millantatore, non ci avevi parlato di un delitto perfetto? E i segni lasciati dalle tue ritorte e strambe sulle tenere carni della odiata e diletta, cosa ne facciamo? Il più grullo degli investigatori ne avrà arguito...".
Rispondo: "No, signore, le mie ritorte e strambe, come classicamente volete chiamarle e comunque io le abbia definite qui sopra, erano in realtà soave velluto; soave da non lasciar traccia"».45

Insomma il rivolgersi per direttissima al narratario, cioè a un lettore ipotizzato in via teorica dallo statuto della narrazione, che sarebbe una delle strategie persuasive generalmente più efficaci, pur quando gestite sul versante di un'affabilità ammiccante, in Landolfi perviene non al binomio di ironia e persuasione, ma, per dirla con il titolo di un bel libro di Guido Guglielmi, di ironia e negazione.46 Il che lo apparenta alla famiglia, senza etichetta di scuola, degli scrittori europei che sfuggono alle varie parole d'ordine contestative delle avanguardie, ma lavorano per faglie interne al codice, ne disossano la tenuta, svincolano il reale dalla sua compattezza e credibilità con effetti di raffreddamento e disgregazione; esiti che sono poi quelli del teatro dell'assurdo e dell'allegorismo moderno. Landolfi è un esemplare severo di questa non-scuola, che ha radici nell'Ottocento europeo e russo a lui ben noto, perché sugli apparati scenici di una realtà cui non presta fede innesta una critica coraggiosa all'arbitrarietà e inadeguatezza del mezzo linguistico, di cui pure aveva e ha mostrato una padronanza assoluta, senza mai preoccuparsi della mimesi dei registri sociali o di uso.47 Invece di muovere nella direzione euforica di un D'Annunzio, la sua perizia di trafficante di parole e di giochi di penna si misura con la coscienza dell'artificialità della narrazione, con l'impressione che l'arte combinatoria della letteratura sia al suo esaurimento.48 Per di più, invece di lavorare di paradossi narrativi o teorizzare soltanto, Landolfi rivolge contro se stesso le armi corrosive della diagnosi teorica, immettendo in un generale effetto di parodia e di apocrifo le arguzie dell'arte allusiva, le impennate di una voce sovraesposta, la disgregazione dell'ordine narrativo, la critica della propria cura formale. Le autocontestazioni che lo allontanano da qualsiasi sospetto di vicinanza alla prosa d'arte e l'utopia, per definizione inappagabile, di un linguaggio primigenio che possa riconciliare vita e scrittura nella pura e indifferenziata vocalità ne fanno uno scrittore isolato nel contesto italiano, un adepto che alla «camicia di Nesso» dello stile ha prestato il massimo di fedeltà entro un quadro di nichilismo tragico e di esercizio quotidiano del dubbio.

 

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