Andrea Cortellessa
Piccole apocalissi.
Metaracconti di Tommaso Landolfi

In ricordo di Guido Guglielmi

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Introduzione
Alberto Savinio
Echi romantici e leopardiani
Il "primo" Landolfi
Tre forme di metaracconto
Conclusioni



 

«Gioire o soffrire con la sorte degli uomini che l'opera d'arte ci riferisce e rappresenta, è una cosa assai differente dal vero godimento artistico. Ma c'è di più: questa partecipazione dell'umano che ci suggerisce l'opera, è incompatibile, per principio, con la vera e propria contemplazione artistica. Si tratta d'una questione di prospettiva estremamente semplice. [...]
Immaginiamo di stare a guardare un giardino attraverso il vetro d'una finestra. I nostri occhi si disporranno in modo che il raggio dello sguardo penetri il vetro, senza trattenersi in esso, e vada a posarsi sui fiori e sulle frondi. E poiché la meta della nostra visione è il giardino e l'arco visuale è diretto fino a lui, noi non vedremo il vetro e il nostro sguardo passerà oltre senza percepirlo. Quanto più puro è il cristallo, tanto meno ne avvertiremo il tramite. Però in un secondo momento, facendo uno sforzo, possiamo staccarci dal giardino e, ritraendo il raggio visivo, fermarlo sul vetro. Allora il giardino scompare ai nostri occhi e di esso vediamo soltanto alcune masse di colore confuse che sembrano diffuse sul cristallo».

J. Ortega y Gasset, in La disumanizzazione dell'arte


«Noi ci ostiniamo a credere [...] che la letteratura sia una cosa seria».

T. Landolfi, in Il caso Beckett

 

§ II. Alberto Savinio

I. Introduzione

«[...] È noto che per tutta la sua vita egli desiderò scrivere un romanzo e che si sentì menomato per non esserci riuscito; ma uno ne andava scrivendo, sebbene a minuzzoli, tra i maggiori di tutte le letterature, aperto sul mondo come i mille occhi di un insetto, i quali ne formano poi uno solo. Ed è tra le pagine di questo sparso romanzo che bisognerà, con amore, con pazienza persino, cercare il suo vero volto».1

Sono parole che Tommaso Landolfi dedica a uno dei suoi autori, Čechov, ma è sin troppo facile riferirle al loro stesso estensore. Quando vengono scritte, nel 1954, è ormai passato l'entusiasmo destato - tra i few del compagnonnage fiorentino - dallo strepitoso esordio, col formidabile trittico costituito da Dialogo dei massimi sistemi (1937), La pietra lunare (1939) e Il Mar delle Blatte e altre storie (pure del '39). Landolfi è da tempo passato nel canone degli "isolati" - prestigiosi, magari geniali, ma risolutamente al di fuori delle dinamiche e delle dialettiche dell'"attualità" letteraria. Due referti critici celebri esprimeranno di lì a poco un'insoddisfazione simile per gli sviluppi (o i non-sviluppi) di un'arte, la sua, nelle premesse promettente in sommo grado. Luigi Baldacci gli rimprovera di non aver mai dato ai suoi lettori, pochi ma fedeli, l'Opera sospirata: «se Landolfi ci desse veramente il libro nel qual questa lucida denuncia del proprio vuoto fosse condotta all'ultimo approfondimento e, in piena esplicitezza, investisse aspetti più complessi, forse egli diverrebbe quello scrittore "maiuscolo" che potenzialmente è».2 Mentre Gianfranco Contini prima opina che «la freschezza di questo libretto» (Dialogo dei massimi sistemi) «non sia stata superata dalla successiva, traboccante produzione», osteggiata del resto da «un'impostazione bloccata, non favorevole a sviluppi dialettici»3 per poi più esplicitamente condannare l'autore alla qualifica di «continuatore fecondo di se stesso in modalità poco variate», imputandogli «una prevedibilità onorevole ma leggermente delusiva» (smentendo, appunto, il largheggiare di pronostici di quarant'anni prima).4
Ma quest'attesa di "libro totale" - da parte di critici, pure, così ben disposti - peccava d'incomprensione; e non solo del "caso" in oggetto. Bensì, e ben più gravemente, riguardo a un cambiamento di paradigma epocale: per cui nel Novecento - ha magnificamente sintetizzato Guido Guglielmi - «si guarda al tutto a partire dal dettaglio, dal particolare, dall'incompiuto». Dal momento che «la conoscenza non pretende più di esaurire il proprio oggetto», nella pienezza del Moderno, «il frammento acquista piena autonomia e dignità artistica». Se «il Novecento [...] degerarchizza i generi» e «promuove i generi considerati tradizionalmente minori»,5 le forme brevi insorgono come discontinuità privilegiate: costitutivamente critiche delle forme tradizionali di rappresentazione. L'iperbole del dettaglio gremisce le strutture di continue intermittenze, di "buchi" cortocircuitanti: che fanno della narrativa, più che un solido prisma, una specie di oggetto frattale. E a questa riduzione - come, in laboratorio, isolando e prelevando un campione del reale ai fini di osservazione e descrizione sperimentali - fa spesso riscontro un'accentuata componente metalinguistica. Allora il racconto descrive se stesso: porgendosi a esempio di un'idea di letteratura o, tout court, di un'idea della letteratura.

 

§ III. Echi romantici e leopardiani Torna al sommario dell'articolo

II. Alberto Savinio

Si veda il precedente - senz'altro da Landolfi tenuto d'occhio - di Alberto Savinio. Il quale non concepisce un insieme testuale, si può dire, se non a partire dalle sue lacune, dalle sue segmentazioni, dai suoi "vuoti". Ed è questa anche una sua ossessione tematica: in un gioco di specchi in cui non si può mai dire quale dei due sistemi allegorizzi l'altro. (Piuttosto, con fluidità squisitamente saviniana, si assiste a un'incessante osmosi fra i due piani.) Ed è tanto più eloquente, detta situazione, in quanto sul piano strutturale, nelle sue opere mature, Savinio traspone - radicalizzandola - la fluida indecidibilità linguistica dell'opera prima, Hermaphrodito: nella quale, ha scritto Guglielmi, «l'impasto di materiali linguistici eterocliti è una scelta che privilegia l'improprio contro il proprio e vuol far giustizia del mito di un'identità cosa-parola».6 Ma la medesima funzione riveste appunto, nel séguito dell'arte saviniana, l'impianto frammentario - "polimaterico", viene da dire - della sua narrativa. Scrittore che con mezzo secolo d'anticipo indaga incubi ed estasi del post-human, a volte disegna "corpi senza organi" (come quello del Signor Münster di Casa «la Vita», che contempla la scomposizione del suo corpo);7 più spesso mette in scena - in effetti - organi (narrativi) senza corpo. Si veda per esempio, in Achille innamorato, l'Orto di ortaggi umani: cinque "freddure" che è difficile evitare di leggere in chiave metanarrativa. Nella prima di esse l'occhio di vetro di «Napoleone il guercio», abbandonato dopo la morte del padrone, assiste al tradimento della vedova col miglior amico di Napoleone e, «raccolto quel poco di forza di cui può disporre un occhio di vetro», schizza fuori dal suo bicchiere e si lancia contro il muro, per ricadere «in una pioggia cristallina sul pavimento».8 Così è questa "narrativa": una costellazione di occhi mai svegli e mai addormentati, orbi d'intenzioni, abbandonati a luccicare nella penombra d'un intérieur borghese. («Occhi» sono definiti da Savinio, si ricorderà, anche i brevi interludî in light verses che, a mo' di tipografici "occhielli" appunto, punteggiano l'ordito narrativo - e verbovisivo - di Casa «la Vita».) Con severità ironica e lieve (ma non per questo meno tremenda), questi occhi non cessano di fissarci: ricordandoci le pretese insoddisfatte della nostra anima, l'infinita fragilità del nostro corpo. Della nostra vita.9

 

§ IV. Il "primo" Landolfi Torna al sommario dell'articolo

III. Echi romantici e leopardiani

Ma l'«eccentrico ottocentista in ritardo»10 poteva trovare anche nel repertorio a lui più caro - quello romantico - un'anticipazione già pienamente consapevole del nesso tra frammentazione delle forme e loro criticità. La pietra lunare, il libro che segue di due anni Dialogo dei massimi sistemi, ostenta due epigrafi "d'autore". Quella in coda è un lungo pastiche leopardiano campionato dallo Zibaldone; l'altra, iniziale, è dai Discepoli di Sais di Novalis.11 Novalis è in questi anni al centro dell'attenzione di Landolfi (che nel '42 proporrà una traduzione parziale dall'Enrico di Ofterdingen entro Germanica, l'antologia narrativa curata per Bompiani da Leone Traverso),12 al quale presta numerosi spunti d'intreccio ma che con ogni probabilità incoraggia, in primo luogo, sulla strada del "frammento infinito".13 I protagonisti della Frühromantik non compiangevano affatto l'opera di Novalis ridotta a congerie di "frammenti": piuttosto, la esaltavano proprio in quanto tale. Senz'altro questa la concezione di Friedrich Schlegel, per il quale il frammento «non è l'abbozzo destinato a essere ampliato o il lacerto di una trattazione che doveva essere più estesa: non è divenuto frammento ma è nato come tale».14
E chissà - per venire all'altro phare della Pietra lunare - se conosceva una lettera tarda dell'amato Leopardi, Landolfi, nella quale (riferendosi all'edizione Starita appena iniziata) traccia una specie di consuntivo terminale della propria attività: «malgré le titre magnifique d'opere que mon libraire a cru devoir donner à son recueil, je n'ai jamais fait d'ouvrage, j'ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder, mais ma carrière n'est allée plus loin».15 Di là dall'understatement terminale di Leopardi, la frase ben si presta a commentare (anche per la sfumatura musicale del préluder...) la poetica delle «prove di voce»: da Landolfi a lungo praticata e infine, in una nota pagina diaristica di Des mois, col consueto sarcasmo limpidamente enunciata:

«Secondo X io sarei un di quei tali vocalizzatori (meglio si chiamerebbero, alla russa, oanti) che forniscono straordinarie prove di voce, e son poi incapaci di filare una romanza, per non dire di cantare un'opera, o comunque non si decidono mai a farlo. Giusto! Ma, se giusto davvero, la risposta alla perplessità del critico sarebbe già nell'Ottavio, là dove si afferma press'a poco che basta poter fare una cosa perché non sia più necessario o diventi inutile farla. Questa delle prove di voce sarebbe dunque una poetica come tutte le altre».16

(E in effetti già in Ottavio di Saint-Vincent si leggeva, di nuovo leopardianamente...: «egli era forse di coloro i quali, come oggi si dice, scontano in anticipo gli eventi e fino i sentimenti: a lui bastava che una cosa fosse possibile per intenderla già avvenuta e per giudicare in certo modo inutile che avvenisse»).17

 

§ V. Tre forme di metaracconto Torna al sommario dell'articolo

IV. Il "primo" Landolfi

Quella "frammentaria" del Landolfi narratore entro il Dialogo dei massimi sistemi era, in ogni caso, scelta fortemente consapevole: da un lato facendo riferimento con grande precisione "filologica" al repertorio d'elezione,18 dall'altro strizzando l'occhio alla più recente vague letteraria. Al di là di Savinio - di lui ancora più "isolato" - negli anni delle prime raccolte di Landolfi l'istanza metanarrativa è fatta propria, infatti, dal gruppo "solariano". Esemplare, per esempio, la parabola di una narratrice come Gianna Manzini: che tesaurizza la lezione "europea" di un Gide, di una Mansfield, soprattutto di una Woolf, offrendo proprio in quegli anni interessanti esperimenti di "metaracconto" come (nel '36) Casa di riposo, che reca il sottotitolo Romanzo da fare19 (attitudine coltivata da Manzini anche oltre, col suo capolavoro Lettera all'editore).20 A livello europeo Gide fa da modello per giovani autori fra loro anche molto distanti (sino a filiazioni "eversive", ormai mescidate con il surrealismo, come nel caso di Michel Leiris);21 e alla sua evoluzione Landolfi resterà sempre attento».22
In ogni caso, nel por mano ai suoi primi racconti Landolfi ha già chiarissima l'idea, e anche le possibili aporie, di una letteratura scritta col controcanto parodico interno di una vigile coscienza autocritica. Di una metaletteratura, insomma. L'eccezionale incunabolo di Fantasia pusckiniana - pubblicata su «Letteratura» (una delle due costole nelle quali s'era scissa «Solaria») nello stesso '37 del Dialogo - non potrebbe essere più chiaro».23 Sin dall'inizio il nostro scrittore si colloca in quella «posizione al limite» che meglio di tutti ha descritto Guglielmi («la posizione del narratore la possiamo allora definire una posizione al limite. Landolfi infatti non sovverte le trame del racconto per crearne delle nuove, ma si colloca al margine del racconto. È di qui che gli viene l'impulso al raccontare. Il suo racconto nasce dove muoiono i racconti»).24
In questo senso, davvero la scrittura di Landolfi «conduce sempre un doppio discorso: l'uno propriamente narrativo e l'altro che riflette sul primo».25 La componente metanarrativa si rinverrà allo stato colloidale, per così dire, in quelle fantastiche formazioni di compromesso che sono i "diari" (LA BIERE DU PECHEUR, 1953; Rien va, 1963; Des mois, 1967): nei quali si assiste a un continuo dibattimento fra la scrittura e il suo doppio, un proliferare di autocommenti malevoli, un vero e proprio sdoppiamento della personalità stilistico (senza negarsi neppure la mise en abîme, il meta-meta-commento...: «Che significa poi questo continuo e supremamente sciocco giustificarsi e mostrare che si capisce da sé quello che non va bene? Ma questa parentesi è anch'essa una giustificazione e una mostra di comprendonio; e così quest'ultima frase, e così via all'infinito: ci sarebbe da impazzire»).26
Ma essa non manca neppure nei racconti della prima stagione. A parte il racconto eponimo dell'opera d'esordio - il cui titolo, falsamente ironico, è in tal senso tutto un programma - si pensi a quello che dà il titolo al Mar delle Blatte, dove il sangue che esce dalla ferita procuratasi da Roberto Coracaglina, infestato di oggetti perturbanti destinati nel prosieguo del racconto a subire fantasmagoriche metamorfosi oniriche, allegorizza un'interiorità minacciosa e, alla lettera, indicibile (se non, appunto, sotto forma di laboriose e quand'anche scintillanti formazioni di compromesso).27 Ma - più in generale e su "scala" più fine, per così dire - quasi sempre nella narrativa di Landolfi, ben sintetizza Alberto Pezzotta, «il narratore esterno (quello che la tradizione identifica, ingenuamente, come portavoce dell'autore) prende la parola per commentare le finzioni cui sta dando espressione. Incurante dell'economia e della credibilità del racconto, tale narratore svolge un ruolo perturbante e intrusivo, così da compromettere la tranquilla accettazione della finzione. Il racconto, da semplice resoconto dei fatti, diventa quindi racconto di secondo grado, racconto di racconto».28

 

§ VI. Conclusioni Torna al sommario dell'articolo

V. Tre forme di metaracconto

Volendo sintetizzare: in quello che per comodità continuo a chiamare "primo" Landolfi (sulla periodizzazione interna al corpus il dibattito è consistente) si dànno tre forme, o forse sarà appunto meglio dire tre "scale", di metaracconto (restando avvertiti del fatto, ovvio, che i tre procedimenti possono nello stesso testo coesistere e fra loro variamente sovrapporsi e mescolarsi). Anzitutto, l'apologo sulla letteratura in quanto tale; o, per la precisione (essendo l'autore in questione, com'è noto, perfettamente alieno da interessi di tipo, diciamo, sociologico), sul ruolo che essa svolge nell'esistenza di chi scrive. Un esempio perfetto è La spada, il racconto che dà il titolo al libro del '42: dove la splendida «arme inclita e portentosa» trovata «rovistando fra il retaggio degli avi» dal «malinconico scialacquatore» che risponde al nome di Renato di Pescogianturco-Longino, e con la quale egli finirà per tagliare a mezzo il «corpo di giglio» d'una «fanciulla bianca» che è apparsa per invano dichiarargli il suo amore, è allegoria d'un talento sublime (non a caso è menzionato Longino...) ma distruttivo: che l'irresoluto erede immerito «avrebbe potuto impugnare in difesa del bene o almeno per la sua felicità», ma col quale invece non può far altro che «distruggere quello che aveva di più caro sulla terra».29 Ma si pensi anche al celebre La moglie di Gogol: nell'apologo sull'autore delle Anime morte, imprevedibilmente coniugato con un fantoccio di gomma destinato a fine ingloriosa, è dato anche leggere un'allegoria spietatamente grottesca dell'atto di creazione letteraria (la bambola è «forma irripetibile», «creazione ogni volta diversa» animata dal «soffio creatore» del suo autore).30
Vi è poi il racconto che problematicamente indica e denuncia una certa idea di letteratura; nella fattispecie - Landolfi non è certo un pusillanime... - proprio quella che si sta praticando. In un intervento recente Sandro Maxia s'è spinto a leggere in questa chiave anche La pietra lunare: romanzo breve che del "primo" Landolfi è considerato il capolavoro e del quale ben si può dire che sia stato «concepito al cospetto, per così dire, di tutta la tradizione letteraria europea moderna»; sicché la stilizzazione parodica a ipotesto moltiplicato che lo contraddistingue sarebbe incarnata dalla protagonista, la capra mannara Gurù («icona stessa della poetica di Landolfi, dominata dalla dinamica dell'ibridazione»).31 Ma direi sia senz'altro questo il caso delle Due zittelle: forse la più audace e complessa fra le "favole d'identità" landolfiane. Non c'è qui lo spazio per un'analisi dettagliata; basti dire che anche il delitto di cui si macchia la scimmia - anzi, «scimia» - Tombo, nottetempo sorpresa a imitare i gesti del sacerdote durante la messa, va letto non solo quale complessiva «allegoria della letteratura»,32 nella quale la conclusiva condanna allude a quella di un «linguaggio [...] del sacrilegio»;33 è in gioco, qui, la natura di quel sacrilegio: che è precisamente la conduzione parodica - scimmiottante - della scrittura: quella che il "primo" Landolfi ha, con La pietra lunare, portato a un'espressione massima e insuperabile (nonché, con La spada, a una prima - s'è visto quanto severa - messa in discussione).
La scimmia come emblema dell'imitazione letteraria - goffa e improvvida in quanto troppo esplicita e diretta, inevitabile "brutta copia" della naturalezza dell'"originale" - è figura topica nella cultura dell'umanesimo e, in generale, nella nostra tradizione letteraria. La usa già Petrarca in una delle Familiares (XXIII, 19, 11-13) indirizzate a Boccaccio, che si legge come rapida autobiografia dell'apprendistato letterario ma anche come compiuta teoria dell'imitazione. Chi utilizzi tanto l'inventio che l'elocutio altrui si rende colpevole di cattiva imitazione: quella delle scimmie34 appunto (chissà che la scrizione scempia del titolo landolfiano non alluda alla simia del latino umanistico...; Simia Dei era ancor più topicamente detto, d'altronde, il Maligno: una cui tipica attività è proprio la messa nera - la parodia del rito, cioè). La forma inclassificabile delle Due zittelle, di nuovo a metà fra la novella e il romanzo - ha scritto Marcello Carlino - «fa mostra di imitare, con gesti rapidi e secchi quanto plateali, le forme pretenziose del romanzo»:35 e così decreta che «il romanzo non è ormai se non la parodia del romanzo della tradizione».36
Va annoverata, infine, una terza forma di metaracconto, quella più pura e, in ogni caso, dichiarata come tale: il racconto, cioè, che parla direttamente di se stesso. Prendiamo a esempio La piccola apocalisse, nel Dialogo dei massimi sistemi: testo citato dallo stesso Guglielmi, del resto, come tipico exploit metanarrativo di Landolfi».37 Nella prima sezione (intertitolata Nippies) e nelle prime parti della seconda (intertitolata La donna nella pozzanghera, e presentata come frammento narrativo partorito da uno dei personaggi della prima - convenzionalmente indicati con lettere dell'alfabeto maiuscole), la complessa congerie di elementi semplici del racconto, di motivi stremati del repertorio (la belle dame sans merci, l'ambientazione equivoca, il soffuso luminismo - «quello che vorrei chiamare, appunto, nerodiluna»), si ricombina quasi "a caso", seguendo la traccia di una vividissima serie di "scene": figurazioni d'ambiente violentemente cromatiche.
La nota che incornicia la seconda sezione del racconto avanza ipotesi in merito alla possibile continuazione del «racconto non finito» del personaggio «D» (pare, così, davvero echeggiata la Nota sul seguito che Ludwig Tieck pose in appendice all'Enrico di Ofterdingen, facendo ipotesi in merito alla possibile conclusione del torso narrativo, L'attesa, dell'amico Novalis, morto prima di poter ultimare la seconda parte, L'adempimento)».38 Tre sono le conclusioni passate in rassegna:

«(Malgrado ogni apparenza, il racconto non è finito, come testimoniano i piani confusi che ne lasciò D, quando si perse definitivamente in terra straniera [...] Pare, dunque, che in un primo momento l'autore propendesse alla composizione di un'ultima parte in cui si sarebbe gabellato per sogno tutto il fin qui narrato; la realtà sarebbe stata un risveglio più o meno disastroso, una visita al ristorante delle prime scene, un riconoscimento, in una delle sue frequentatrici, della donna del sogno, e, per finire, una corsa vana dietro di lei [...] Il commento orchestrale a detta fase suprema sarebbe stato probabilmente, dopo tante citazioni epigrafiche, una citazione da Hoelderlin (im Winde-Klirren die Fahnen), che appunto figura a conclusione del piano n. 1.
Che un tale scioglimento semplicistico e amorale non potesse soddisfare un uomo come D, non meraviglia. Vediamo infatti quest'ultimo nei piani n. 2 e 3 arrabattarsi a inventare qualcosa che faccia da contrappeso alle cupe fantasie della donna bionda: gli occorreva una vicenda aerea e lieve [...] Non la trovò, e si ridusse a immaginare, in mancanza di meglio, che passando a sole già alto vicino a quella tale pozzanghera, la donna bionda ne riemergesse all'improvviso "come un russalca" (piano n. 3) e che se ne andassero a passeggiare e a vivere in campagna, e si sposassero poi in grazia del Signore; e tutte le cose sarebbero andate per il loro verso [...] Epperò, invece di insistere sugli infelici concepimenti che questa ricostruzione approssimativa pone in luce, facciamo due parole di morale: il lettore, oso sperarlo, ce ne sarà grato:
Gli infruttuosi tormenti di D, testimoniati dai piani 2 e 3, sono la sua giusta e naturale punizione. Il suo caso infatti mostra chiaramente a quali estremi si possa giungere seguendo le intemperanze della propria immaginazione: quest'unico motivo ci ha indotti a trascrivere il racconto che s'è letto. Il quale, per il resto, non è ornato di speciali pregi letterari, né potrebbe soccorrere norme altrimenti edificanti)».39

Commenta Guglielmi: le tre ipotesi di soluzione «vengono proposte, uscendo dal livello diegetico, al livello metanarrativo, e tutte vengono scartate. Sicché abbiamo un racconto a conclusione nulla o, in luogo della conclusione, una riflessione ironico-caricaturale sulla sua impraticabilità».40 Si noterà intanto come le ipotesi di conclusione vengano scartate per la loro convenzionalità - con ciò, gettando a ritroso un'evidente condanna su tutto il resto della "narrazione". È un fatto che la "morale" che è dato trarne riguarda «le intemperanze della propria immaginazione»: «unico motivo», è detto esplicitamente, per scrivere il racconto stesso.

 

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VI. Conclusioni

In generale, nel testo sembra quasi capovolta la gerarchia tra racconto e ambientazione (parallelamente, peraltro, a una certa inversione assiologica tra testo e paratesto: si ha l'impressione, cioè, che il "racconto" venga imbastito solo in funzione delle sue "cornici", e quindi delle citazioni che figurano in esergo - che possono avere il valore di messaggi "privati", a chiave).41 La piccola apocalisse allora estremizza e, direi, caricaturizza un tipico procédé del "primo" Landolfi, sùbito segnalato dalla critica: per Pancrazi «argomenti e temi qui non contano molto più dei "soggetti" nei quadri; dove, prese le misure e creata un'aria, il pittore poi ci mette quello che vuole».42 Giudizio che anticipa più recenti descrizioni: con singolare precisione, per esempio, quella di Giorgio Manganelli: per il quale in Landolfi «la "storia" poco conta, è solo l'acceleratore, il tracciato di un divertimento - nel senso musicale - della fantasia e del linguaggio».43
Tanto poco conta la "storia", qui, che la conclusione della Piccola apocalisse, come s'è visto, non cade a uno scioglimento diegetico ma in corrispondenza di un'implosione strutturale. Terminato il «divertimento», la "musica" sfuma. Alla fine, cioè, il racconto si sfalda, si sfascia, si squaglia: proprio allo stesso modo in cui finisce per ingloriosamente disciogliersi, in una pozzanghera, la donna inseguita dal protagonista:

«Ora debbo lasciarti, caro, addio», ella disse, e avanzò risolutamente un piede nella pozzanghera [...] Non so perché, rimasi qualche tempo in silenzio e senza far nulla, come se assistessi al compiersi di un rito, guardando la donna che gradatamente affondava nella pozzanghera come in una sabbia mobile [...] Ella pareva lottare contro lo spaventoso succiamento e si torceva un poco senza rumore, ma fiaccamente e fuor d'ogni speranza, infine io mi riscossi e feci per porgerle aiuto: "È inutile" disse con un gesto appena abbozzato della mano, e bastò questo per tenermi quieto fino in fondo.
Ora la melma le arrivava alla vita: ella incrociò le mani, ormai diafane, sul petto, e senza più dibattersi stette a guardare con uno sguardo di incredibile amore. La vidi così perder altezza come una colonna di ghiaccio e diventare una cosa bassa e grottesca».44

L'«apocalisse» del titolo, insomma, è quella del testo. Ma in definitiva, e in generale, della stessa idea di narrazione "organica". Se ogni racconto di Landolfi è, teste Guglielmi, «un racconto che scherza con la propria forma e gioca a eluderla, a scomporla umoristicamente, a distruggerla»,45 La piccola apocalisse par suonare a conferma di un teorema (o assunto teologico) negativo: perfetto equivalente di quella macchina architettata da Jean Tinguely - ricordata da Mario Domenichelli - che «poteva essere messa in funzione una sola volta, e poteva essere messa in funzione solo per distruggersi».46
Notava, già nel '63, Edoardo Sanguineti: «Al limite, infine, è "La donna nella pozzanghera", dove lo sposarsi di un sublime manieristico, un liberty tutto di testa, e di prepotente angoscia onirica, raggiunge uno schematismo che, nella sua astrazione paradigmatica, riesce perfetto, e insieme insopportabile, nell'ostentazione del calcolo».47 Per aggiungere - con toni che sarà difficile non considerare, a quella data, ben travalicanti il "caso" in questione - che «il pericolo di Landolfi [...] è ormai un troppo di virtuosismo, una terribile sicurezza di plasticità stilistica, un gusto, già tutto autosufficiente, di mimesi verbale»;48 e, in clausola, vaticinare l'irreversibilità di una "svolta": se i racconti "vecchio stile" di Ombre raccolgono consensi presso «una critica affettuosa», «si tratterà, proprio all'opposto, di difendere, nella Biere, la forza di confessione con cui Landolfi affronta, fuori di ogni mediazione, il vero suo motivo estremo, la fine di una letteratura come vita, rivelantesi, crudamente, una letteratura come morte».49
Quell'anno stesso usciva Rien va: testo che ben poteva soddisfare un simile auspicio. Ma questa, appunto, è un'altra storia.

 

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Giugno-dicembre 2005, n. 1-2