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Luigi Preziosi
Per coerenza e per dovere: due esami di coscienza.

Sommario
I. Abstract
La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale ha sollecitato in alcuni scrittori l'approfondimento di "esami di coscienza", che, preso spunto dalla propria particolare situazione esistenziale, hanno costituito non solo momenti di autoanalisi personale, ma anche riflessioni etiche di carattere universale.
Nello studio si affronta il parallelo tra due testi scritti nella medesima contingenza storica, non esattamente sovrapponibili, e tuttavia nemmeno direttamente contrapponibili: Vita e disciplina militare di Luigi Russo e Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra.
Attraverso un'analisi delle loro motivazioni etiche e psicologiche, prima ancora che letterarie, si giunge a cogliere tra i due testi un nesso di complementarietà, che fonde le ragioni ideali e quelle private della consapevole partecipazione, se non dell'adesione, di una generazione di giovani letterati alla Grande Guerra.
II. Introduzione agli «esami di coscienza»
La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale della generazione di giovani letterati compresa tra gli anni Ottanta e Novanta ha favorito una cospicua fioritura di opere diaristiche, narrative o poetiche che in maniera immediata o mediata si ricollegano all'esperienza di vita militare. Alcune di queste opere si distinguono per non essere repertoriabili facilmente in un "genere" letterario compreso tra quelli tradizionali. Piuttosto costituiscono meditazioni etiche suggerite sì senza alcun dubbio dalla particolare contingenza in cui il loro autore si trovava al momento del loro concepimento, ma che la trascendono per attingere a significati diversi, tali da svariare dalla riflessione esistenziale al bilancio della propria attività letteraria, dalla spiegazione di se stesso al tentativo di prima approssimativa sistemazione del proprio mondo morale.1 In questa particolare prospettiva, possono compararsi senza particolari stridori, non tanto e non solo allo scopo di verificarne la tenuta allo scorrere del tempo, quanto piuttosto per farle reciprocamente reagire una sull'altra, due operette scritte nella stessa contingenza bellica, ma in occasioni del tutto diverse, da due giovani critici letterari e scrittori: Vita e disciplina militare di Luigi Russo, del 1917, e Esame di coscienza di un letterato, di Renato Serra, del 1915. Opposta la sorte dei due autori: Russo, fresco di laurea, era alla seconda prova letteraria, dopo la pubblicazione della tesi su Metastasio; l'Esame di coscienza, invece, per Serra, che di lì a pochi mesi sarebbe caduto sul Podgora poco più che trentenne, concludeva l'attività letteraria. Opposta anche la fortuna dei due testi: vastissima, quella dell'Esame, per anni ridottissima e quasi confinata nelle Scuole militari quella del saggio di Russo. Non altrettanto immediatamente contrapponibili, ma comunque diversi, anche lo scopo e l'occasione della composizione dei due saggi. L'Esame di coscienza nasce come articolo per «La Voce» che, originando dalla riflessione sul rapporto tra scrittore ed un evento di così gigantesche proporzioni come la guerra («certi conti con me stesso; esame di coscienza di un letterato davanti alla guerra»: così Serra in una lettera a De Robertis del 20.3.1915),2 può divenire figura del tormentoso rapporto tra singolo individuo ed il fluire incommensurabile della storia. Vita e disciplina militare, invece, forma un vero e proprio libro di testo scritto da Russo in qualità di ufficiale istruttore per il corso di morale militare della Scuola militare di Caserta, che tuttavia supera la contingenza per la quale viene concepito per porsi, pur nella schematicità ed elementarità patentemente dichiarata dall'autore, come operetta morale tout court, rispondente «ad una necessità educativa d'ordine più generale che non fosse quello della vita di una caserma, perché, nel respiro della grande guerra, il problema dell'educazione militare stricto sensu si allargava necessariamente in un problema di educazione umana e nazionale».3 E tuttavia sottili ma non impercettibili linee di collegamento connettono i due scritti. Già lo stesso Russo pare autorizzare un accostamento tra la propria operetta e quella di Serra, quando in un «curriculo dell'attività didattica e scientifica» redatto nel 1925 a Firenze, qualifica il proprio saggio come «esame di coscienza»:
«Quel volumetto, in fondo, è stato un po' come l'esame di coscienza dell'autore, il quale, nel problema dell'educazione militare, riusciva a proporsi il problema in generale dell'educatore; sicché anche oggi il sottoscritto guarda a quelle sue lezioni, come ad una prima sistemazione riflessa della sua vita morale, di quella vita morale, da cui traggono alimento i problemi tecnici, anche quelli apparentemente meno impegnativi e più astratti...».4
Gaetano Trombatore, uno degli allievi della scuola militare di Caserta, per i quali fu scritto il libro, in un saggio del '34 individuava per la prima volta esplicite contiguità tra le due opere:
«Quest'opera è nella sua essenza reale un esame di coscienza, ma nel senso alto, quando cioè la coscienza dell'individuo singolo coincide con quella di una generazione. Esame di coscienza di un letterato (da contrapporre idealmente a quell'altro del Serra), che, strappato dalla violenza degli avvenimenti al suo mondo appartato, si trova bruscamente dinnanzi alla realtà della storia nel suo aspetto più sconvolgente e spietato. Ma nel Russo non v'è il letterato che vede dentro di sé e intorno a sé tutto un mondo crollare; cresciuto nel clima della filosofia idealistica, egli fa appello virile a tutto ciò che fino allora era stato vita del suo pensiero, per trarne luce necessaria a chiarire e a giustificare».5
Ed Eugenio Garin su «Belfagor» nel novembre 1961 in questo modo abbozzava un collegamento tra la partecipazione di Russo e quella di Serra alla Grande Guerra:
«...Il tono con cui Russo rievocava lo stato d'animo dei giovani di famiglia borghese - dei migliori - che andavano alla guerra del '15... non era né dannunziano, né futurista... non era neppure quello disincantato - e così sconsolato - di Renato Serra, che studiosamente cercava la moralità di un gesto scaturito da un'esigenza di solidarietà umana, così antiletteraria anche se quasi nascosta da "ragioni" letterarie. No! Luigi Russo, e non pochi con lui, alla guerra, erano andati non soltanto con serenità consapevole, ma con entusiasmo, a compiere l'opera del Risorgimento, a combattere per la libertà di italiani ancora oppressi, per la giustizia violata da un'aggressione crudele. Pochi possono immaginare qual era l'entusiasmo schietto e ingenuo della gioventù di allora per la guerra per liberare Trento e Trieste, la quarta guerra del Risorgimento italiano».6
III. Militare est necesse: Vita e disciplina militare, di Luigi Russo
In Vita e disciplina militare si manifesta immediatamente l'intento educativo che anima l'autore, fin dal primo capoverso, in cui si dichiara che «compito di un educatore, di un maestro, di un insegnante, è quello di stimolare l'esperienza morale o intellettuale nell'alunno, ma non di darla bella e coniata, che sarebbe cosa assurda».7 Tuttavia, l'esame di coscienza individuale, la tensione verso lo svelamento del proprio mondo morale, che potrebbero anche collocarsi ai margini di un'esperienza educativa che assumesse l'aspetto, pur meritorio, di sollecitazione di «virtù scolastica di cultura»,8 vengono in piena evidenza poco dopo, e la forza con cui vengono proclamati certi concetti indica da subito che impregneranno di sé l'intera operetta. I problemi etici sottesi alla riflessione sulla guerra non comportano soluzioni pacificanti ed apodittiche, ma un procedere tormentato intarsiato di perplessità, che investono chi ha il compito di educare non meno dei giovani allievi ufficiali cui le lezioni e il testo sono indirizzati, ed a cui l'altrettanto giovane docente promette: «...procederemo in questo svolgimento con cautela e sempre dubbiosi: cioè, io guarderò con voi alle cose e i vostri dubbi saranno i miei dubbi. E dopo aver dubitato insieme, crederemo anche insieme».9 Si prefigura in queste parole, tacitiana enunciazione insieme di un metodo critico e di un sistema educativo, la vigorosa passione esistenziale, prima e più ancora che squisitamente letteraria, propria del Russo delle maggiori opere della maturità, così come poco dopo viene in evidenza (nello stesso capitolo iniziale ed in un paragrafo dall'emblematico titolo Eternità ideale della guerra) anche il fondamento etico della robusta vis polemica russiana:
«Tutta la vita è lotta, e lotta è tutta la storia: anche la vita dell'individuo è una perenne lotta con se stesso. E gli uomini maggiormente pugnaci con se stessi sono anche gli uomini più forti. Un pensatore combatte col suo stesso pensiero, per assurgere ad un più alto pensiero; un artista si travaglia e lotta con le sue immagini per assurgere ad un'immagine più pura». 10
In qualche modo, le finalità pedagogiche sono quindi anche autopedagogiche, e viceversa, e l'essere pugnaci con se stessi consente l'attingimento di quel più alto pensiero da porre in condivisione con altri. Di qui ha origine uno dei motivi dominanti dell'intera operetta: la ricerca di una giustificazione etica alla vita militare - per il singolo - e all'esistenza stessa dell'esercito - per le nazioni: e si noti che tale ricerca precede quella, più pressante indubbiamente per chi la vive, ma anche più legata alla contingenza storica e meno connessa a qualsivoglia "eternità ideale", della spiegazione, se non giustificazione, della guerra in se stessa. E tale indagine individua il proprio obiettivo nell'educazione nazionale, che non a caso possiede una sua ontologica "eternità" e non soggiace alla sussistenza o meno di conflitti in atto.
Sotto un duplice profilo, allora, la vita militare educa la persona. Dal punto di vista della vita collettiva, contribuisce fortemente alla formazione di una coscienza civica. Poiché «solo il sacrificio educa negli uomini il sentimento di quello che essi sono o che pretendono di essere nella vita del mondo», il cittadino «educa in sé veramente il sentimento civico, se le condizioni storiche gli impongono doveri e sacrifizi; e i tributi pecuniari o personali (come il servizio militare) che lo stato impone ai citttadini, sono appunto, indirettamente, mezzi educativi per questo approfondimento del sentimento nazionale e civico»: l'educazione militare assume conseguentemente finalità etiche, trascendendo la stessa funzione bellica, che non è più di un'occasione contingente, e connotandosi come educazione nel senso più ampio del termine, in quanto «fine a se stessa: vuole educare l'uomo nel soldato, l'uomo in quanto è individualizzato dalla storia militare d'uno stato».11 Ne discende l'interpretazione russiana della lotta come valore positivo, in qualche modo posta a fondamento stesso del vivere inteso come agere, poiché «lottare, militare, vuol dire semplicemente vivere; e vivere non possiamo non volere».12 Una volta depurato il sistema dalle deprecabili e deprecate degenerazioni del militarismo, la milizia, nella specifica accezione di Russo, assume il senso di vivificante necessità propria dell'animo umano: non uno dei possibili modi di atteggiarsi dello spirito nei confronti degli accadimenti dell'esistenza, un habitus più o meno presente e pertanto relativo alle circostanze e allo stile con cui esse vengono vissute, ma un impegno improrogabile ed assoluto, identificante l'essenza stessa della vita di un uomo. Infatti, «la milizia è una forma fondamentale dello spirito umano, ed è inerente a tutta la vita, e non a una sola forma di vita... Militare est necesse, se è necessario appunto vivere».13
L'ampliamento del concetto abbraccia dunque significati che superano di gran lunga l'idea di educazione militare come addestramento alla guerra, nozione che costituisce ormai, alla luce delle osservazioni svolte, un momento marginale del pensiero russiano, se non addirittura estraneo ai suoi interessi preminenti, poco più di un pretesto per lo svolgimento di riflessioni di ben altra pregnanza. Comincia infatti a venir in considerazione il secondo giudizio di valore di Russo sulla vita militare: non più solamente palestra per la formazione del civis, ma anche e soprattutto «...scuola di umanità... poiché la milizia, nel suo significato ideale, non è la professione di chi indossa la divisa per qualche anno, ma è semplicemente la divisa di tutti quelli che si fanno un vanto di essere uomini».14 Tuttavia, la formazione di un uomo, nell'accezione integrale di cui Russo si fa alfiere, si arricchisce di valori diversi, talvolta divergenti, talaltra addirittura antitetici, la cui composizione è spesso problematica. In certe circostanze, è giocoforza si tratti non di reale composizione, ma di vero e proprio sacrificio dell'uno a favore di altro preminente valore, e nel contrasto tra utile individuale ed utile collettivo, è sempre il primo ad affievolirsi a favore del secondo. In altri casi, uno dei termini dell'antitesi ha tale ampiezza di significato etico, da poter ricomprendere in sé anche l'altro. È il caso della conciliazione degli opposti che Russo opera tra libertà individuale e disciplina militare. Quest'ultima, lungi dal costituire disvalore per la formazione della personalità, viene reinterpretata come strumento di accrescimento di libertà dell'individuo, in quanto la potenzia e la canalizza verso uno scopo individuato:
«la libertà è sempre limitazione; ma limitazione non nel senso di impoverimento, bensì nel senso che con la disciplina definiamo un confine al nostro essere, per realizzare quello che veramente abbiamo, ed espungendo quello che ci è estraneo, liberandoci dalla falsa realtà... La libertà dunque non è altro che ordine, disciplina, e un uomo anarchico non è mai un uomo libero... libertà e disciplina si riducono ad essere sinonimi, e l'una non può sussistere senza l'altra e l'una condiziona ed è condizionata dall'altra».15
Siamo nel cuore delle riflessioni russiane: la ricerca e la conseguente scoperta del valore etico della disciplina militare. Mentre per Serra l'adesione alla vita di guerra è, come si vedrà, conseguenza di un lungo e tormentato argomentare e si esprime in prima battuta come individuale moto affettivo, l'accettazione della disciplina militare di Russo scaturisce con pienezza e senza tentennamenti dal suo postulare un'identità di fini tra la stessa disciplina militare e la disciplina morale lato sensu. Serra, per contro, non accenna nemmeno alla questione della disciplina: per lui, il centro del problema è il rapporto dell'individuo nei confronti della guerra in senso generale, nonché il rapporto di un paese nel suo divenire storico con la guerra ed il confronto tra la somma immensa dei dolori che la guerra comporta con le ragioni che nonostante tutto l'hanno resa necessaria o giusta. Russo delinea invece nella disciplina militare un elemento, e, al tempo stesso, una figura della disciplina individuale che ogni uomo deve darsi se vuole essere appunto uomo, consapevole della propria esistenza e capace di porre le proprie migliori risorse a disposizione del bene dei suoi simili. Per lui, anzi, l'arrovellarsi sull'ossimoro libertà - disciplina, l'interrogarsi sulla liceità del sacrificio della libertà individuale costituisce il vero "esame di coscienza", «l'unico che possa giovare a placare i tormenti della nostra vita di sacrifizio, a renderci più forti nella consapevolezza che la disciplina è legge di tutta la vita».16 La disciplina diventa quindi un mezzo per far scaturire il meglio dall'individuo, una forma di «liberazione dall'incertezza e dal disordine: tutta la nostra educazione è volta adunque ad una perfetta disciplina dello spirito: il che poi vuol dire a una perpetua conquista di libertà».17
Con tali premesse, non solo viene accettata l'autorità del superiore, ma anche giustificata e condivisa nei suoi fini ultimi l'obbedienza agli ordini altrui, ancora una volta mezzi per il miglioramento del singolo individuo nei suoi doveri (o debiti) verso la collettività. L'obbedienza è a tal punto interiorizzata che si identifica quasi paradossalmente con la persuasione: «l'obbedienza autentica è persuasione; io obbedisco veramente, in quanto sono persuaso»; e quando nei casi più sgradevoli lo devo fare,
«obbedisco, perché la parte più disinteressata della mia coscienza è tocca della necessità dell'obbedienza: manca in questo caso, la persuasione? Manca sì, la persuasione intesa nel suo senso volgarmente utilitario di convenienza (poiché, proprio, noi identifichiamo la parola persuasione con la parola convenienza), ma c'è l'altra, la schietta, disinteressata persuasione».18
E la stessa "clausura militare", quel «ristagno spirituale che avviene in noi, tagliati come siamo dalle nostre faccende abituali, dalle nostre cure professionali, dai nostri studi», secondo la definizione dello stesso Russo, si arricchisce del duplice valore già considerato per l'obbedienza: non è solo sacrificio reso necessario dagli obblighi che il cittadino ha verso il proprio Paese, ma rinvigorimento dello spirito dell'individuo:
«La dolorosa esperienza di questi anni, la costrizione delle attività individuali a un solo scopo militare, molte coscienze hanno maturato, molte educazioni virili hanno affrettato: siamo entrati ragazzi in una caserma, e siamo discesi da una trincea uomini».19
Ma non è il dato psicologico, a differenza di quanto avviene in Serra, ad interessare Russo, che sfiora l'accenno autobiografico solo quando strettamente necessario per dimostrare provate su di sé (o meglio sulla propria generazione) alcune circostanze significative sotto il profilo morale. Il suo discorso si sviluppa invece intorno ad alcuni corollari della disciplina militare, primi fra tutti il valore militare e lo spirito d'iniziativa (talvolta ad essa antitetico, se la disciplina militare è ottusa e soffocante). In coerenza con l'assunto che permea di sé tutto il libro, secondo il quale non esiste una disciplina militare separata dalla disciplina in senso etico, Russo evidenzia come non esista morale militare che non rientri nel più ampio concetto di morale tout court: «la morale militare non esiste. C'è una morale militare, soltanto come morale civile, nazionale ed umana. Tutti siamo militari, solo perché tutti siamo cittadini, perché tutti siamo uomini».20 Così il valore militare trova il suo significato essenziale, non contingente rispetto a questo o quell'accadimento storico, all'interno del più ampio concetto del valore umano, e l'epica della quotidianità e della solitudine nel compimento del dovere sopravanza quella del gran gesto cantato dai "retori", fino al sacrificio estremo, anch'esso solitario in un tipo di combattimento, quella delle trincee della Grande Guerra, che consente solo l'eroismo anonimo. È proprio l'anonimato dell'atto a depurare la volontà del soldato scarnificandola da ogni altro intento che non sia la volontà di compierlo: dovrà affrontare l'estremo pericolo con la consapevolezza di viverlo in una solitudine cosmica, con la certezza di essere l'unico giudice dei propri atti, perché ben difficilmente altri ne racconterà l'istante supremo, l'ultimo eroismo, o più semplicemente il gesto estremo della vita; e se morirà, non sarà la morte gloriosa e romantica idealizzata dall'iconografia ottocentesca, ma un disparire ai propri affetti senza parole o gesti che s'intarsino nella memoria di chi resta.
«Ma se la morte, comunque essa giunga, è solitudine, oggi si muore soli, ancora più che ieri: non gridi di gloria, non compianti, non strazio di spettatori, ma la morte che giunge fulminea, collettiva, sciolta già la nostra vita da ogni relazione mondana, e già rivolta e annegata, muta e impassibile, ancora prima del trapasso, nell'eterno»:21
così Russo sintetizza la nuova condizione esistenziale del soldato del nostro secolo, e, leggendolo, non si può non pensare alla morte di Serra, giunta anch'essa subitanea ed al culmine di un itinerario interiore di progressiva decantazione. Inevitabile, in questo sforzo di sistemare il valore militare all'interno del più ampio - ed onnicomprensivo - concetto di virtus, anche la definizione del coraggio come "misura del pericolo": «uomo coraggioso è colui che taglia le sue forze in esatta misura delle difficoltà dell'impresa a cui si accinge».22 Ne segue per contro l'opposta definizione di paura come "inesatta misura del pericolo". La duplice definizione è dunque presidiata da un parametro inerente ad una virtù spirituale: la conoscenza, ed è ad essa ed al suo opposto, l'ignoranza più o meno vasta delle difficoltà da affrontarsi, che occorre fare riferimento per la comprensione del pensiero russiano, che ancora una volta considera valori militari come parte di un universo di valori ben più ampio. E, si noti, i valori militari esistono in quanto possano avere quali presupposti indispensabili quegli altri valori, che li precedono e li contengono, in quanto universali appunto: dell'uomo, prima che del soldato. La conoscenza, fondamento del coraggio, è necessario antecedente di ogni atto di volizione, sia pur rudimentale, di modo che i tre elementi - coraggio, volontà, conoscenza - sono per Russo come avviluppati in un nodo inestricabile, e costituiscono per lui il cuore dell'uomo militante: «...volere significa sempre conoscere, e un atto di volontà presuppone sempre ed è anzi un atto di conoscenza».23 L'esperienza diviene così norma dell'agire, tanto da accrescersi su se stessa come
«summa delle regole autoctone del nostro spirito, una summa delle nostre osservazioni psicologiche su fatti del passato, cui qualche volta diamo la forma esplicita imperativa delle regole, ma che, anche senza codesta forma imperativa, continuano a sussistere, come norma della nostra vita presente o futura».24
Sull'accumulo di regole formate dall'esperienza, ed anche sull'infrazione di alcune di esse in considerazione della situazione di fatto, per la quale occorre l'atto di volizione concreto, si fonda lo spirito d'iniziativa, da intendersi non già come frenesia di fare, ma come «conoscenza di quel che si deve fare».25 L'azione è quindi conseguenza diretta della volontà, e la consequenzialità tra le due è tale da non lasciare alcuna sconnessura, alcun interstizio da cui possa trapelare l'errore, neanche quello in buona fede. Addirittura, l'errore non è mai in buona fede, e il ritenere che possa esserlo non è, nell'austera visione russiana, che uno scendere a patti con noi stessi, un ricercarci un'excusatio non petita, un indebito alibi morale:
«noi erriamo quasi sempre, perché vogliamo errare; e se non si sa d'errare, gli è perché abbiamo uno scarso controllo su noi e abbiamo lasciato affievolire l'accento critico della nostra coscienza... In altri termini, lo sbaglio pratico non è che sbaglio teoretico: l'iniziativa sbagliata è anche deliberazione sbagliata: l'errore, in fondo, è, solo per eufemismo, errore in buona fede».26
Un'impostazione di tale severità della vita morale rappresenta probabilmente una delle più appariscenti conseguenze della connessione intuita e teorizzata da Russo tra idealismo e realismo. Non a caso il paragrafo conclusivo dell'operetta s'intitola, certo assai poco serrianamente, Il nostro idealismo come assoluto realismo: la realizzazione delle idee si compie tramite un processo che comporti innanzitutto la conoscenza della realtà effettuale del mondo esterno, e successivamente l'intervento su di esso. La piena compromissione con la realtà conduce dunque alla possibilità di incidere proficuamente su di essa, tramite uno sforzo volontaristico che è di per sé valore etico: «qualunque ostacolo ci imbarazzi, noi ci rimetteremo sempre o proseguiremo oltre col bene che abbiamo dentro di noi, che è il cercare, il lottare, il volere», nell'ambito di un coraggioso pessimismo, intessuto della «trepida serenità dell'uomo attivo, che porta scritto nel cuore il suo motto religioso: nella volontà è tutto il bene, nella non volontà è tutto il male».27
IV. Inquietudini e speranze: l'Esame di coscienza di un letterato, di Renato Serra
L'ambivalenza ideologica di cui, ad una prima sommaria lettura, l'Esame di coscienza di un letterato pare farsi carico, risponde in realtà del significato etico che l'autore annette all'opera, imputandole una valenza non esclusivamente autobiografica, quanto piuttosto rappresentativa di malesseri psicologici ed ideali, se non di una generazione, quanto meno di un ampio gruppo intellettuale. La stessa ambivalenza consente interpretazioni antitetiche dell'operetta che, quand'anche corrose da presupposti e pregiudizi marcatamente ideologici, contengono comunque un grano di verità, qualora si sposti l'antitesi dal piano storico a quello più intimo e personale, consistente in un disagio eminentemente esistenziale. In questo modo, è possibile trovare un punto d'incontro tra letture altrimenti irrimediabilmente divergenti:
«Serra non rifiutò mai del tutto il presente, e del presente visse soprattutto l'incertezza e l'angosciosa inquietudine... Se Serra non aveva strumenti ideologici per opporsi alla guerra, non ne aveva neppure per comprenderne la necessità... Alla coscienza che la guerra non muterà nulla, si aggiunge la coscienza dell'insufficienza della letteratura come ragione di vita».28
Così Luperini. Specularmente opposto è il giudizio di Carlo Bo:
«La letteratura è per lui una specie di religione e io ebbi l'impressione che poteva esserci nella letteratura qualcosa di solenne, di altamente morale, non solo compiacimento e divertimento. Serra mi ha insegnato che la letteratura è introduzione all'intelligenza morale della vita, è un richiamo a qualcosa al di là della realtà e delle apparenze...».29
L'inquietudine di cui l'Esame è pervaso nasce probabilmente dalla difficoltà di penetrare il mistero del momento presente, dall'incapacità di signoreggiare con immutata sicurezza il proprio mondo morale ed affettivo, constatandolo tanto repentinamente cambiato, non più conoscibile se non a fatica e con tratti alterati. Nasce anche, perché no?, da una sorta di dolce rimpianto, così in fondo consentaneo a Serra, per averlo così presto perduto, quando sembrava racchiudere in sé una così diversificata ricchezza di significati, barattandolo con un'unica sensazione onnicomprensiva: un'inazione corrosiva che pervade ogni moto dell'anima:
«Ora è certo che non può esser permesso a nessuno di prender congedo dal proprio angolo nel mondo di tutti i giorni - deporre sull'orlo della strada il suo bagaglio, lavoro e abitudini, sogni e amori e vizi, via tutt'insieme come una cosa improvvisamente vuotata di sostanza e di vincoli... fare tutti questi preparativi, con aggiunta di raccoglimento e di ansia e di attesa prender l'atteggiamento della partenza; e alla fine, non muoversi; non far nulla; stare alla finestra e guardare...».30
Eppure la letteratura, in questo sfilacciarsi di sensazioni, conserva la sua capacità di interagire con il mondo, per quanto ampio ne sia il degrado e per quanto ancor più lo potrà essere al termine del conflitto:
«Ripetiamo dunque, con tutta la semplicità possibile. La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell'ordine temporale; ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l'aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì».31
Ma l'analisi del rapporto letteratura-guerra cela un altro genere di analisi (e ne è contemporaneamente rappresentazione figurale): quella che lo scrittore attua su se stesso con pervicace puntiglio ed assoluta onestà di intenti. L'autore pare quasi servirsi come schermo dell'argomento con cui inizia
la sua riflessione, il binomio letteratura-guerra («Credo che abbia ragione De Robertis; quando reclama per sé e per tutti noi il diritto di fare della letteratura, malgrado la guerra»), per sviare dalle sue reali intenzioni; poco dopo però lo abbandona, con una vigorosa divaricazione rispetto al tema iniziale: «Credo di aver detto... che la letteratura mi faceva schifo, "in questo momento": e... se non l'ho detto, ho fatto come quelli che lo dicono (e se l'ho detto, ho detto la verità)».32
E tuttavia il pensiero della letteratura continua ad essere presente allo scrittore, aleggiando per le pagine dell'operetta senza mai esserne definitivamente espunto, nemmeno laddove lo scandaglio dell'autoanalisi indaga
alle maggiori profondità possibili: né può esser altrimenti, se per lui la letteratura non è un'esperienza estemporanea, né un atteggiamento culturale, per quanto interiorizzato, né un orpello di cui far uso per pervenire ad altro di più decisivo dal punto di vista esistenziale, ma è essa stessa, se non vita, un connotarsi della vita, ad essa consustanziato, e al tempo stesso - come scrive Bo - «introduzione all'intelligenza morale della vita».
L'iniziale rovello sul rapporto tormentato con la letteratura odiosamata, oggetto di ricorrenti ricusazioni mai però davvero attuate, anzi intimamente fuggite («questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l'ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prendere sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, tra tante altre, una delle cose più degne»),33 è, per quanto meditazione di alto profilo, pur tuttavia ancora occasionato dall'attualità della propria condizione individuale e al tempo stesso dai dibattiti culturali (interventismo, destini europei o mondiali del Paese, modalità di atteggiamenti di questo o quello schieramento di intellettuali nei confronti dell'imminente conflitto), legati anch'essi alla contingenza del momento. Tuttavia, altri motivi di riflessione esistenziale traspaiono con vigoria sempre maggiore, fino ad addensarsi intorno agli interrogativi più pressanti circa la partecipazione individuale alla guerra, sollecitati dalla situazione di "vigilia d'armi" in cui germinavano, e alle risposte in cui cercare di pacificare i turbamenti che da tali interrogativi baluginavano. Oltre a questo, un secondo movimento, anch'esso centripeto, dal mondo delle idee all'io palpitante di incertezze e bisognoso di parametri rinnovati per una più autentica conoscenza di sé, caratterizza lo svolgimento del pensiero di questi "conti con se stesso". Nella prima parte è infatti un concetto generale ad essere presente, sia esso un giudizio etico - letterario: «la forza morale e la virtù presente non hanno rapporto diretto con quel che c'era di mediocre e povero e approssimativo in certi tentativi letterari. La guerra ha rivelato dei soldati, non degli scrittori»; oppure una riflessione storica da zibaldone leopardiano:
«Popoli razze nazioni da quasi duemila anni sono accampate fra le pieghe di questa crosta indurita... La guerra è passata, devastando e sgominando; e milioni di uomini non se ne sono accorti: son caduti, fuggiti gli individui; ma la vita è rimasta, irriducibile nella sua animalità istintiva e primordiale...»;
oppure ancora:
«Crediamo pure... che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l'esito finale sarà tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra: ma non c'è bene che paghi la lacrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo... Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio all'eternità».34
Poi, progressivamente, il ragionare per concetti generali ed astratti sfuma dolcemente verso un coinvolgimento sempre più intenso, palesando in modo esplicito quel soggettivismo così intensamente presente negli studi critici che non può non pervadere di sé - ed a maggior ragione, data l'esigenza, così urgentemente risentita, di spiegare se stesso spiegando la propria partecipazione alla guerra -, anche quest'ultimo scritto. Il centro diventa allora la partecipazione al conflitto per chi, anche interventista, «nel pensoso indugio sul pro e sul contro»,35 riesce ad arrivare ad una temporanea e tormentosa consapevolezza: «la guerra non cambia niente: non migliora, non redime non cancella; per sé sola. Non fa miracoli...». Serra è immediatamente persuaso dell'insufficienza, per lo meno su di un piano etico - retributivo, di una tale conclusione: «il cuore dura fatica ad ammetterlo. Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro; più puri, tutti». La ricerca di una propria verità individuale si fa sempre più complessa, diramata in direzioni spesso divergenti, suscitando impressioni talvolta confliggenti nella loro inconciliabile contraddittorietà. L'incertezza del giudizio, la sua sospensione tanto lungamente protratta fermano a tratti l'operetta sul limite di una sorta di ambiguità ideologica, prima ancora che morale. Ma la sospensione è per certi spiriti un'esigenza da cui non si prescinde, quando il coinvolgimento emotivo si raggruma in spire apparentemente inestricabili, ed il pensiero che non trova sfogo incancrenisce in sterili e quasi ossessivi ritorni su se stesso. Serra stabilisce allora un'equazione tra sentimento e paesaggio, che ritorna al lettore come metafora di uno stato d'animo, oppure come ulteriore riprova di un soggettivismo estremo, che interpreta la natura, la traduce e la rende calco delle proprie sensazioni. La pausa necessitata nel sentimento e nella ragione si riverbera nella calma distesa, percorsa solo da un lieve senso d'attesa per il risveglio della primavera che deve ancora venire, di una pineta e dei prati circostanti:
«...sono libero e vuoto, alla fine. Un passo dietro l'altro, su per la rampata di ciottoli vecchi e lisci, con un muro alla fine e una porta aperta sul cielo... la corona del pino si sposta, si addensa, affonda i suoi aghi di un verde fosco e fresco in un cielo più vasto, che scioglie tanti stracci di nuvole erranti in una gran trasparenza scolorata. C'è una punta d'oro in quegli aghi che si tuffano nell'aria così vuota, così nuova».
Segue, immediata, la correlazione con la propria situazione interiore: «anch'io sono vuoto, e nuovo». Le cose minime osservate minuziosamente acquistano un valore quasi terapeutico, ridonando equilibrio ad una condizione esistenziale che le contingenze esterne hanno precipitato nella precarietà:
«...questa vecchia erba stinta che par che aspetti le prime acquate brillanti, fra argento e sole... e il fruscio del vento che m'ha oltrepassato ormai e corre via dietro a me come un piccolo turbine. E poi la pausa del vento e il ritorno dei colori e delle forme nelle mie pupille libere... finalmente! So che cosa è questa... il verde che si rinfresca e il turchino che s'agghiaccia, luce di primavera nel finire del giorno. Ecco quello che importa».36
C'è una sorta di adagiato compiacimento nel prolungato soffermarsi su ogni singolo elemento del paesaggio, quasi a voler trattenere con sé la neutra serenità che da ciascuno promana. Ed infine, ancora un movimento centripeto, che perviene al cuore di una materia così incandescente, prendendo le mosse dal mondo esterno, che è tuttavia periferia emotiva solo in apparenza, avendo l'autore provveduto a stabilire nessi di interdipendenza così saldi tra pensiero e paesaggio:
«...finche la tensione diventa sospiro...irresistibile onda della vita che non si può fermare... e che io non penso di trattenere... Scontentezza, angoscia, spasimo; è la mia vita di questo momento. Adesso ho capito. Ho potuto distrugger nella mia mente tutte le ragioni, i motivi intellettuali ed universali, tutto quello che si può discutere, dedurre, concludere; ma non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione. Come ieri, come sempre. Quante volte ho portato con me questa compagnia. Non mai così intima come oggi, come questa, che non ha né volto né nome; è tutta una cosa con la mia solitudine più sola e con la mia contentezza più amara 37».
Passione: l'Esame di coscienza è giunto ad uno dei suoi culmini di verità. E tuttavia, anche in questa confessione permangono motivi di ambivalenza, insiti nella collocazione stessa al vertice logico - sintattico del discorso del termine "passione", collocazione in stridente contrasto (salva l'ipotesi, peraltro improbabile, del ricorso ad un artificio retorico) con le premesse, così tormentosamente problematiche. Pertanto è più verosimile che la parola, più e prima ancora che richiamare turbinosi entusiasmi, debba, in via predominante, per lo meno, se non addirittura esclusiva, come suggerisce Flora, «esser ricondotta al significato originario del "patire" piuttosto che a quello dionisiaco dei trattati delle passioni».38 E del resto lo stesso Serra segnala l'interpretazione autentica della sua "passione":
«...dopo e prima di tutte le cose, la mia passione; angoscia: vita di questo momento. Perché non siamo eterni, ma uomini, e destinati a morire. Questo momento che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare».39
Ma l'individuale risposta alla possibilità di sacrificio ha durata e consistenza assolutamente provvisoria, il tempo di sostare ancora un poco di tempo in un'altra contemplazione paesistica, osservando minutamente l'acqua che «dev'esser ghiaccia laggiù tra il grano dove s'è fermata tra solco e solco; son rivoli e pozzette chiare...». Poi, non più improvviso ma quasi segretamente annunciato da tanti impercettibili segnali, dalla stessa effusione cordiale profusa nelle divagazioni paesaggistiche, appare il secondo vertice dell'Esame di coscienza, l'acme dell'intera meditazione morale precedente, a suggellarne il significato attestando, sul piano più alto possibile, la sincerità delle intenzioni dell'autore:
«Ritrovo il contatto col mondo e con gli altri uomini, che mi stanno dietro, che possono venire con me. Sento il loro passo, il loro respiro confuso col mio; e la strada salda, liscia, dura, che suona sotto i passi, che resiste al piede che la calca. Non ho altro più da pensare. Questo basta alla mia angoscia; questo che non è un sogno o un'illusione, ma un bisogno, un movimento, un fatto; il più semplice del mondo... Tutte le parole son buone, quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, come saremo nell'andare, domani. Fratelli? Sì, certo. Non importa se ce n'è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto... Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene... Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti... Andare insieme... Così marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; ...e tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili».40
Il pati enunciato in precedenza, inteso come impegno di assoluto rigore nei confronti di se stesso, si traduce in significato di altrettanta, se non superiore, pregnanza etica, rivelandosi in un cum pati: la passione si amplia, fino ad universalizzarsi in compassione. La passione comune, il sentire in modo omogeneo agli altri, il sentirsi parte di una collettività e partecipe del suo destino, il senso di condividere quella che nasce come una propria individuale avventura esistenziale, prima ancora che fisica, con altri uomini, inizialmente così diversi, ma che la guerra imminente rende così simili nelle loro aspirazioni quotidiane: tutto ciò rende ragione finalmente della adesione di Serra al conflitto. In un evento epocale, che sconvolge i destini di popoli, nonostante tutto quanto detto nella prima parte sulla sostanziale immutabilità della storia a seguito della guerra, lo scrittore sente la vacuità di un atteggiamento di distacco, quasi che la distanza dagli accadimenti non si rivelasse altro che sostanziale colpevole separatezza dagli altri uomini, trasformandosi in irreversibile diminuzione della propria umanità. Nella tensione dell'attesa per l'imminente conflitto, sperimenta il conseguimento di una difficile coerenza con se stesso, che coniuga il proprio passato di letterato con il precario presente e l'incerto futuro di soldato. La pratica della letteratura come personale strumento di esercizio per la propria umanità ("la religione di Serra") trova continuità nell'attuale voler esser insieme con gli altri, dentro il comune destino di tutti, in quanto forme diverse di un'identica non altrimenti sostenibile aspirazione ad un'umanità condivisa con gli altri uomini. E proprio alla confluenza tra la raggiunta solidarietà con il destino di tanti e l'adempimento di un dovere di coerenza verso se stesso, s'acquieta l'angoscia di Serra:
«Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d'intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza... Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione... Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo. Perché darti un dispiacere? Io sono contento, oggi».41
V. Conclusione: dentro e fuori da sé
Evidenti sono le differenze di impostazione concettuale tra le due operette, ma le diversità non impediscono del tutto la percezione, se non di un comune sentire, vietato dall'eterogeneità dei presupposti, di una significativa contiguità di intenzioni: lo svelamento di sé a se stesso, la confessione della propria qualità di uomini in un tempo della vita individuale e della storia in cui essa o si esalta o si perde. L'esame di coscienza, appunto, in cui ritrovare o scoprire, in un arduo processo introspettivo, le ragioni e le modalità del proprio appartenere ad un'epoca e ad una collettività. Grazie ad esso, Serra scopre e raffigura - o meglio, prima ancora di raffigurarlo, lo prefigura - un mondo in via di frantumazione, che rilascia scheggiature difficili da ricomporre in un sistema di pensiero organico. Riesce tuttavia ad affrontare con esito tutto sommato ancora positivo l'insicurezza che deriva da un mondo siffatto grazie all'appello alla propria formazione umanistica - nel senso più proprio e nobile del termine - per cui nulla che attenga all'uomo può essergli estraneo. Lo sforzo volitivo in Russo è, per contro, teso ad affermare la persistenza di una, sia pur problematica, coesione nel mondo esterno, e ad agire per la conseguente necessità di salvaguardarla, in un tentativo di reductio ad unum compiuto in ossequio ad un superiore ideale collettivo da perseguire.
La lunga meditazione di Serra, nel suo faticoso andirivieni, raggiunge il suo scopo nell'identificare le proprie ragioni di partecipazione al conflitto mondiale in un debito di coerenza verso se stesso, verso il se stesso di ieri, che praticava la propria umanità attraverso le lettere, e trova ad essa una continuità senza interruzioni nella scoperta della passibilità di condivisione del destino di tanti altri uomini. Ma in questo complesso processo di decantazione, l'acclaramento delle ragioni della partecipazione alla guerra costituisce metafora dello svelamento a se stesso del significato di un altro oggetto di condivisione: non più solo la sorte comune di tutti coloro che combattevano insieme a lui, ma la maturazione della coscienza della condivisione esistenziale del destino di ogni uomo, senza più riferimento al tempo storico né alle contingenze della guerra in corso. I conti con se stesso che la guerra ha sollecitato costituiscono pertanto per Serra l'occasione di maturare in sé, senza scostamenti dalla precedente vita di letterato, ma con significative differenze nelle modalità di esprimerla, una "passione" per il mondo che lo circonda più viva e divorante di prima, di quando essa trovava esplicazione con la sola letteratura («Questo momento che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare»).
Non le ragioni di un'individuale superiore coerenza, da ricercarsi in un teso dibattito interiore, animano invece le intenzioni di Russo, bensì la volontà di adempiere nel modo migliore possibile al dovere di cui si sente investito. Lo scrittore siciliano indaga non già e non solo in se stesso, quanto nelle motivazioni storiche della guerra in generale e di questa in particolare (con un insistito richiamo al desiderio di concludere il processo risorgimentale), individuandovi le ragioni etiche di una partecipazione quantomeno consapevole. Anche per lui, tuttavia, questa ricerca è figura di un'altra ricerca, che conduce ad accordare privilegio ad una sorta di volontarismo etico (non necessariamente coincidente con quello vociano), per il quale è privilegiato lo stoicismo del militare est necesse: la necessità della milizia è dato ontologico, consustanziato nella vita di relazione di ogni essere umano. Non è scelta di vita, originata da una sorta di determinismo caratteriale, dal momento che ogni psicologismo è estraneo alle argomentazioni di Russo, in ciò antipodicamente lontano dall'Esame di coscienza. La milizia non è neanche necessitata da eventi occasionali che possano indurre al polemos, ed a cui ci si possa in qualche modo sottrarre. Non si può scegliere se essere in lotta o meno: se si è, si è in lotta, perché la lotta è per Russo insita nell'esistenza stessa dell'individuo e delle nazioni. All'ascetismo aristocratico di Serra, così chiuso nell'ardua investigazione di se stesso, così abile nello scandagliare le proprie più intime e sottili e quasi a sé sconosciute sensazioni per ritrovarle nuovamente sue e farne parte con gli altri uomini, si contrappone l'ascetismo russiano, che ricerca nella storia della nazione le ragioni del sacrificio collettivo di un'intera generazione, e trova nella propria storia individuale il coraggio per una cosciente accettazione di tale sacrificio. E, tuttavia, quella sia pur assai generica vicinanza di intenti di cui s'è detto consente di percepire come una comune atmosfera spirituale, che lo stesso Russo pare aver per primo colto definendone gli esatti contorni, più affettivi ed emozionali, che storici ed ideologici, se, smessi gli abiti del moralista, ed indossatine altri, che bene si sarebbero attagliati a Serra, qualche anno dopo scrive dell'Esame di coscienza questo singolare ricordo:
«"Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa, un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. S'impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni: finchè non disimparino..."
Erano parole che leggevamo in trincea, come quelle di un breviario; pur differenti di temperamento e di fede, le sentivamo come nostre. Chè questo è il privilegio delle verità, sinceramente sentite e sofferte: anche se sono sconsolate e pessimiste, invece di disanimare, incoraggiano e confortano. La sincerità è sempre incitatrice di forza. Non sono i falsi Tirtei e i soliti giostratori di frasi patriottiche che ci fanno animo e ci persuadono al sacrifizio. Temprarsi a una impassibilità attiva; sentire lo sterminio della guerra e non far nulla per sottrarvisi: misurare con distacco l'infinito silenzio delle cose attorno a noi; allontanare il pianto dei superstiti che non rimedia a nulla; toccare la soglia della morte come fosse una specie di rifugio e porto; confondere in un egual valore il vivere e il morire, in un egual valore la vittoria e la sconfitta: orbene di questo stato d'animo, comune a molti combattenti, Renato Serra fu ed è riconosciuto il confessore più nobile e più tormentato».42

Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2003
Giugno 2003, n. 1
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