Daniela Marcheschi, Destino e sorpresa. Per Giuseppe Pontiggia, con i suoi primi scritti sul «verri», Pistoia, Editrice C.R.T, 2000, pp. 160, € 10,33
di Stefano Cremonini

 

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Il libro di Daniela Marcheschi vuole essere, a detta della stessa autrice, un «semplice omaggio» ed un «pensiero» grato ad uno scrittore, Giuseppe Pontiggia, da lei "scelto" per una sorta di "affinità elettiva" all'epoca dell'uscita de Il giocatore invisibile (1978) e continuamente frequentato, di opera in opera e con lunga fedeltà, fino ad oggi.
Tutti i contributi di cui si compone il testo, pur appartenendo ad un arco cronologico più che ventennale, presentano un'evidente continuità, per il fatto che la produzione stessa di Pontiggia si offre al lettore come un disegno unico in cui, pur nell'originalità di ogni singola opera, sono ravvisabili alcuni elementi costituitivi di fondo. Questi, come rileva la Marcheschi, sono fondamentalmente tre: la ricerca di «un linguaggio chiaro e profondo», senza infingimenti e dissimulazioni, ma diretto e sincero; il riferimento costante all'etica e ai suoi profondi, ineludibili interrogativi; il dialogo continuo con i classici.
Il lavoro sul linguaggio presuppone una viva attenzione al recupero di quella profonda adesione delle parole alle cose che Pontiggia stesso, in un saggio su René Daumal, ha definito «significazione intenzionalmente complessa». Essa, come emerge chiaramente nei romanzi L'arte della fuga e Il giocatore invisibile, impiega il linguaggio quotidiano con una precisione tale da andare sempre oltre i luoghi comuni, attraverso un lavoro costante sui significati delle parole, spinto fino al recupero della loro etimologia, per restituirne, intatta, la pregnanza originaria. È qui che si colloca anche la polemica di Pontiggia con la concezione crociana della sperimentazione tecnica limitata solo ai motivi pratici dell'opera d'arte, laddove invece proprio la ricerca stilistica apre nuove possibilità in campo teoretico ed espressivo.
Passando dalla misura distesa del romanzo, con l'efficacissimo uso del dialogo che rileva plasticamente l'interiorità dei personaggi, ai versi di varia misura, impiegati in alternanza con le sequenze narrative ne L'arte della fuga, per giungere al saggio, spesso condensato in aforisma, e sperimentando poi vari generi, dal romanzo "a suspence" al giallo e alla biografia, Pontiggia compie un «consapevole attraversamento» delle cose e delle persone, quasi un'analisi radiologica di esse, per meglio conoscerne le dinamiche interne, le ragioni profonde.
La scrittura diviene quindi strumento non neutro per prendere posizione nei confronti della realtà: fin da La morte in banca (1959), il suo primo romanzo, Pontiggia denuncia l'ipocrisia, l'involgarimento, la spersonalizzazione, l'angoscia di una società che ha assunto l'Utile come «unica ragione e criterio di vita».
Alcune grandi metafore, evocate da Pontiggia nei titoli stessi delle sue opere e puntualmente analizzate dalla Marcheschi, aiutano a comprendere i rapporti fra l'uomo e il mondo: il tema della fuga, come vano tentativo di sottrarsi alla «consapevolezza del proprio destino», che la morte viceversa figge nel suo inevitabile appello alla meditazione sul senso della vita; il gioco degli scacchi, che rappresenta l'ardua dialettica fra il nostro desiderio di programmazione e pianificazione e la mossa a sorpresa del "giocatore invisibile", cioè il destino, che ci obbliga sempre a rinegoziare le nostre scelte, a metterci ancora in discussione; l'immagine ossimorica del "raggio d'ombra", a significare l'essenza metamorfica della verità, in bilico fra vita e morte, permanenza ed estinzione, rivelazione ed eclissi; infine il topos, tipico della modernità, della "grande sera", emblema della crisi di una cultura occidentale che maschera con l'attivismo una sostanziale inerzia, un vuoto di valori attorno a cui ruota un fantasmagorico fascio di vite parallele, salvo poi trovare la sorpresa di un dono inatteso, di un'affettuosa, solidale tenerezza.
L'attenzione all'interiorità dei personaggi - si ricordi la grande passione di Pontiggia per Svevo - non si esaurisce tuttavia in psicologismo: il narratore onnisciente afferma sempre il suo punto di vista, il suo giudizio netto, e fa sì che i personaggi stessi si smascherino dinanzi al lettore.
Dopo aver sperimentato la satira sulla società italiana, ora corrosiva e tagliente, come ne Le sabbie immobili, ora ironica, lieve, a tratti commossa, come nelle Vite di uomini non illustri, nell'ultimo romanzo, Nati due volte (2000), attraverso il «sofferto cammino di rinascita interiore» di un padre che aiuta a crescere il figlio, gravemente disabile, Pontiggia denuncia la cultura dei "sani", assillati dal mito del fisico perfetto, efficiente, sempre al massimo.
Bellezza e verità prendono vigore, in Pontiggia, dal terzo elemento ricordato dalla Marcheschi quale fondamento dell'arte dello scrittore: la frequentazione assidua dei classici. Ad essi Pontiggia ha dedicato tre libri di struttura saggistica, "aperti", cioè leggibili scegliendo a piacere un paragrafo o un capitolo, secondo personali percorsi di lettura: Il giardino delle Esperidi, L'isola volante e I contemporanei del futuro. Attraverso un personale "canone", ampliando la scelta di Harold Bloom - il quale, sostiene Pontiggia, «offre angolazioni illuminanti, non un criterio adottabile di scelta» - con poco frequentati autori antichi (Partenio di Nicea, Aulo Gellio) e della nostra letteratura (Gaspara Stampa, Torquato Accetto, Tomaso Garzoni), Pontiggia mostra il perenne valore dei classici, il fascino che emanano in quanto maestri di una ragione di cui conoscono i limiti invalicabili, ma che si sforzano serenamente di applicare al magma della storia, per tentare di dare un ordine alle cose, di trovare un principio valido di conoscenza.
Corredato da un apparato bio-bibliografico e dai cinque brevi scritti che Pontiggia pubblicò sul «verri» tra il febbraio 1959 e l'ottobre 1963 (particolarmente rilevanti, per le decise dichiarazioni di poetica in favore di una parola che, come afferma la Marcheschi, sia «eticamente accentata», «perfettamente coesa alla cosa o all'idea», e non misticamente in fuga verso un simbolismo trascendente), il volume presenta dunque, attraverso analisi concise, ma puntuali ed estremamente chiare nella forma espositiva, l'opera di uno scrittore che, per usare il motto di alcuni suoi grandi precursori lombardi, ha fatto del proprio scrivere un mezzo per comunicare «cose, non parole». Ma, come ci fa capire Daniela Marcheschi sottolineando il continuo interrogarsi di Pontiggia sulla natura e la funzione del linguaggio, alla ricerca di un'etica della responsabilità valida in tutti i campi, compresa la scrittura, le cose si comunicano appunto tramite le parole.

 

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Giugno 2003, n. 1