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Blow-up in un megaminimondo.
Su Antonio Rezza, Ti squamo, Bompiani, Milano, 1999
di Fabriano Fabbri
Già col suo primo libro, Non cogito ergo digito, Rezza aveva dato vita a un genere narrativo difficilmente qualificabile se non all'interno di un percorso di gratuità non-sensical che la critica si ostina a riallacciare alla tradizione letteraria. Non è così. Non solo, almeno, dato che i referenti letterari, che ci sono eccome, semmai vanno arricchiti di tutti quei rimandi mass-mediali di cui è carica la cultura pop, la nostra, capace di rivolgersi a un pubblico assai vasto, goloso di divertimento, un pubblico che non ne può più dell'ispirazione lirica e sempliciotta della cultura "alla Sanremo", del ti amo mi manchi tanto tanto: per carità. Oggi, la nuova generazione di consumatori reclama una cultura che sappia reggere il confronto coi prodotti pop del videoclip, del cinema, di Internet, di MTV ecc., una cultura incredibilmente sofisticata, costruita, cioè, su un numero disparato di riferimenti stratificati, pur essendo decodificabili da un audience abituato da tempo alla coesistenza di linguaggi eterogenei (iconici, musicali ecc.).
Cosa c'entra Ti squamo con tutto ciò? C'entra, c'entra molto, a cominciare dal titolo. Questo, in effetti, ci fornisce il pattern dell'intera operazione impostata da Rezza nel suo secondo romanzo, dove lo stereotipo per antonomasia, quello del "ti amo", viene letteralmente mandato in frantumi: troppo abusato, troppo facile e banale, un "ti amo®" con tanto di marchio registrato, tanto per parafrasare Tiziano Scarpa. Meglio provvedere immediatamente a sofisticarne, ad alterarne il valore, facendo in modo che dalla piatta invisibilità del cliché sia possibile ricavare materiale da combustione, come se in ogni parola ci fosse un pulsante di autodetonazione che il protagonista certo non si esime dall'inserire: le frasi scontate hanno i passi contati. Ecco che dentro la sintassi e perfino dentro l'ortografia di ogni espressione va ad innescarsi un meccanismo che ne stravolge il senso comune per assegnarne un secondo, un terzo e via all'infinito, sull'onda di una geologia linguistica srotolata a più livelli, e affastellata in un gioco di relazioni incrociate fra saperi di vario genere. Rezza frulla assieme letteratura, proverbi, modi di dire, certo impastandoli in una unica poltiglia lessicale, passibile, a sua volta, di formare altro materiale da incenerire, da ottimizzare sotto forma di lapsus e motti di spirito di cui il lettore è il primo a beneficiare, collezionandoli come se andasse a caccia di punti bonus in un CD-Rom da PlaySta-tion.
Ma il "ti squamo" va preso anche in senso letterale, dal momento che il protagonista del libro, in perfetta sintonia con una contemporaneità avversa alla durezza della realtà tale e quale in arte come in narrativa, procura di squamare in modo selvaggio cose e persone oltre che parole, facendole a pezzi, spolpandole della loro consistenza fisica. Detto diversamente, il mondo di Ti squamo risponde a una logica ossimorica, c'è ma non c'è, appare e poi scompare di colpo in una scrittura immateriale che ogni tot si addensa a descrivere qualche momento di concretezza, qualche frattaglia di realtà "possibile", prima che il protagonista non intervenga a sbriciolarla. Una scrittura incorporea che si alterna a una realtà in corpore in carne e ossa, e del resto il protagonista stesso il suo credo lo pronuncia a chiare lettere: «Punto a disattivare ogni facoltà corporea per rimanere solamente ossa e parola» (p.53).
Dunque, se non è un personaggio a tutto tondo, dotato di corpo e psicologia, ad abitare quella strana, evanescente dimensione, figuriamoci se la natura, lì in mezzo, può mai darsi regole di verosimiglianza. Un personaggio così, che vive di cavi e cornette del telefono, copertine ecc. nel tentativo di restituire alla parola il suo valore originario scrostandola dall'uso stereotipato, vive per forza in un mondo di finzione pressoché totale, dove, per conseguenza, sono ammessi gli eventi più imprevisti e spiazzanti, compresa la possibilità di ingoiare il proprio corpo. Ecco, il riferimento alla cultura pop cui mi richiamavo all'inizio consiste proprio in questa vena inventiva paradossale e assai vicina agli special effects dei migliori videoclip. Poi, sempre a rimanere in tema di mass-media, quello di Ti squamo lo si potrebbe definire un "megaminimondo", visto con occhi che ingigantiscono a livelli ipertrofici gli episodi più neutri e normali della quotidianità, ma appunto permeandoli di una preziosità inattesa, magari inserita in una microstoria: esattamente come avviene in A bug's life, il lungometraggio d'animazione digitale uscito di recente nei cinema. Quali le microstorie di Rezza? Basti pensare, ad esempio, agli acini d'uva «... deportati come ebrei dentro carri mobili a motore» (p.35), alle migliaia di lacrime che friggono dentro la retina, oppure alla vicende dalla parola "Amore" che svolazza in aria cozzando sui mobili, o ancora alla storia di un citofono, triste perché «... pervaso solo da convenevoli e comunicazioni di servizio» (p.58). Un vero e proprio blow-up dal sapore zavattiniano, mirato a trarre un massimo di piacere da momenti di assoluta ordinarietà, ma con un gusto per l'inutilità che nella nostra cultura, prepotentemente attratta dal fascino del "no sense makes sense", oggi ha più senso che mai.

Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 1999
<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/1999-i/Fabbri2.html>
Gennaio-Maggio 1999, n. 1
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