Generazione "X" e/o "Generazione MTV"?
Su Francesco Venturi, Polder, Fernandel, Ravenna, 1998, pp. 139
di Fabriano Fabbri

 

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A ben vedere, generazione "X" e "generazione MTV" vogliono dire la stessa cosa: stile di vita aperto e altamente refrattario a darsi delle definizioni, dei limiti precisi, vissuto da personaggi multiformi a "enne" soluzioni, quasi che ci fosse un antidoto, in loro, a rifiutare gli automatismi della vita ordinaria. Una vita "meno di zero", ma nel senso assolutamente positivo dell'espressione, di un rapportarsi al mondo con un meno possibile di idee e concetti prefabbricati, anzi, di riscriverlo in continuazione, questo rapporto, di accelerarlo, di variarlo a reset senza sosta. Nella cultura contemporanea, questa strada che parte da lontano, dalla nausea sartriana all'indifferenza di Moravia, la generazione MTV sembra riprenderlo in modo esauriente e soprattutto tarato sui crismi degli anni nostri, in tutto e per tutto: va bene, i romanzi di oggi sono sì pieni di indifferenti, ma quei loro alti e bassi, quella disforia sfrenata, quell'essere perennemente indecisi sul proprio destino, insomma, quell'essere "X" o "MTV", non può evitare il filtro dei fenomeni mass-mediologici, della musica, dei videoclips. Diciamolo in altro modo: la tabula rasa contro gli stereotipi della everyday life, tipica di tutta la cultura del '900, ora si fa "tabula rasa elettrificata", tanto per usare l'ultimo titolo dei CSI: lo stile di vita, meglio "l'ostile di vita", visto che una sola vita, per lo più schematica, è proprio da condannare, passa attraverso canzoni capaci di veicolare la sfera emotiva, di manifestarla in tutta la sua carica di alienità.
Prendiamo Teo, il protagonista di Polder. In molti, e non senza ragione, saranno pronti a rintracciare i debiti di Venturi con lo statunitense Bret Easton-Ellis: ma perché fermarsi lì, perché non risalire direttamente alle origini, a un accurato DNA del '900? Ecco che, lo abbiamo già anticipato, i referenti più corretti sono tutti quei personaggi novecenteschi "X" che si scoprono inautentici, troppo schematici, troppo meccanici, troppo orientati a senso unico per essere soddisfatti della loro esistenza. Come Teo, per l'appunto, che malgrado la giovane età già si sente di tirare le somme di un bollettino esistenziale assolutamente dimenticabile: stabilità sentimentale, quella da porre tra i motivi fondamentali della narrativa contemporanea, zero. Teo si è lasciato con Elena due anni prima, e ora non sa se riprendere quella relazione così sterile, così prevedibile per lui, che in fondo, come ogni altro parente letterario del momento (i personaggi di Drago, Nove, della Vinci ecc.), preferisce godere della vita da single, da macchina celibe perfettamente appagata della sua improduttività. «Niente mi serve a niente. Mi muovo senza uno scopo» (p.38), conclude Teo, ma un'affermazione del genere, che mette in risalto l'attitudine a non lasciarsi rapprendere in un ruolo e un fine unico, proprio per questo motivo va subito scrostata da un'apparenza di nichilismo di seconda mano: siamo o no in "Generazione MTV"? E allora meglio riconoscere in Teo quei caratteri di apertura incondizionata, quell'etica di disponibilità verso il mondo che non può e non deve mancare, e che il titolo del romanzo, tra l'altro, sintetizza senza ambiguità: in olandese polder è un pezzo di terra da preservare, da proteggere con cura, così come fa Teo nei confronti di se stesso e della sua autenticità, e soprattutto di sua madre. Uno spirito di sacrificio verso gli altri da "catcher in the rye" di Salinger. Si noti, poi, che tanta disponibilità eterodiretta, solo celata da una freddezza e un cinismo di prima pelle, in Teo si aggiunge a una percezione della realtà alterata, volta a metterne a nudo la piattezza: «Voglio che qualcosa di questo meccanismo perverso si inceppi» (p.74), anche a costo di passare per diverso, per strambo, per una specie di mostriciattolo. In testa a Teo risuona Creep dei Radiohead: eccolo qui, il referente mass-mediale da "generazione MTV": cos'altro vuol dire "creep" se non l'anormale, colui che ha qualcosa che non va, il bizarro, il disadattato, l'imperfetto? E visto che siamo in tema, come non ricordare il protagonista dello splendido videoclip Just, sempre dei Radiohe-ad, che un bel giorno, senza la minima spiegazione se non la solita nausea novecentesca, decide di sdraiarsi in mezzo a un marciapiede con stupore di tutti? Sarà, ma intanto il suo parente lontano-vicino Teo, da quella condizione di "creep" ha ben altre energie rispetto ai normali che gli fanno assaporare la pienezza del mondo, ha occhi vergini che gli inducono una percezione fresca, inedita, delle cose offuscate dall'abitudine, «Ed è una sensazione esaltante» (p.80), da rivelazione epifanica, sempre a caccia di nuove esperienze, sempre alla ricerca di un ricambio di valore verso il mondo.
Resta da fare un'ultima considerazione, applicabile alla narrativa degli ultimi anni: la visione delle cose promossa in via privilegiata da Teo e dagli altri personaggi del romanzo (Giorgio e Carlo, già compromessi, però, con una vita più meccanica) è spesso indotta da elementi artificiali, è una nausea anfetaminica, sul tipo di una Santacroce o di un Welsh, per intenderci. Tempi maturi, i nostri, per un Le Clézio da "ecstasy del materiale" che nel regime controllato della virtualità letteraria possiamo ancora permetterci di approvare.

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 1999

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Giugno-Maggio 1999, n. 1