Francesco Orlando, L'altro che è in noi. Arte e nazionalità, con due interventi di Giorgio Cusatelli e Claudio Gorlier, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 91
di Manuela Gardenghi

 

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Trasferita dal volant al manent delle pagine di un volumetto di recente pubblicazione, la lezione pubblica tenuta ad Aosta da Francesco Orlando per la Giornata Sapegno 1996 solleva interessanti questioni inerenti al rapporto arte-nazionalità, questioni che se da un lato trascendono l'ambito specificamente artistico - in quanto legate soprattutto a realtà storico-politico-ideologiche - dall'altro vanno a toccare in modo particolare la letteratura, per le evidenti implicazioni di questa con la politica e con l'idea di nazionalità (si pensi innanzi tutto alla tradizionale, seppur riduttiva, equazione identità nazionale e lingua).
Il titolo della lezione, L'altro che è in noi, indica - come sottolinea in apertura al suo intervento Giorgio Cusatelli - «un avvio della ricerca nella direzione socio-psicologica (ruolo dell'artista nella collettività; autodefinizione della creatività in rapporto all'ambiente)» e ben sintetizza la trattazione di Orlando: una sorta di fenomenologia dell'io (inteso sia come singolo sia come comunità) di fronte all'altro che, con la vivacità discorsiva del parlato e la ricchezza di citazioni ed esempi tratti dalla storia della letteratura e della musica europee, mostra la necessità del confronto e dello scambio con il diverso nella costruzione dell'identità culturale, andando così a corrodere la concezione di immagine nazionale quale sostanza. Nell'ampio panorama della letteratura europea, ad esempio, le Lettres anglaises di Voltaire, De l'Allemagne di Madame de Staël, Le Roman russe di Vogüé, così come i romanzi di Conrad e l'opera di Kipling, rendono evidenti gli apparenti paradossi secondo i quali «il nativo capisce ed esprime meglio la propria realtà a contatto con l'estraneo» e «l'estraneo capisce ed esprime la realtà del nativo meglio di lui», ovvero «ci si riappropria del di dentro passando dal di fuori» come pure « ci si appropria del di dentro venendo dal di fuori». Affrontata in termini di resistenza o di accettazione, la diversità reca spesso il beneficio di una prospettiva imprevista, di una crescita, dunque, sul piano culturale, di contro al blocco alimentato dai pregiudizi.
Presa allora coscienza della fittissima rete di scambi e mediazioni culturali fra le diverse aree geografiche che caratterizza il nostro passato, ma ancor di più il presente, l'autore si chiede se abbia ancora senso oggi, per il letterato, trattare (anche istituzionalmente) la storia della letteratura da un punto di vista strettamente nazionale. Ed ancora, ampliando gli interrogativi ad un livello più generale, se sia possibile attribuire all'idea di nazionalità una consistenza meno rigida e più verosimile che quella di sostanza. Richiamandosi alla logica simmetrica di Ignacio Matte Blanco interprete di Freud, Orlando propone, in chiusura, una concezione delle sostanze nazionali come «sottoinsiemi di insiemi più generali», nei quali, pur non venendo meno il principio di generalizzazione, non vadano mai perdute le caratteristiche individuali.
Due interventi più specifici seguono, nel testo, la lezione di Orlando: il primo, di Giorgio Cusatelli - Il Reno separava (qualche volta univa), si limita ad approfondire il rapporto, già accennato da Orlando, tra area culturale francese e area germanica nell'Ottocento, evidenziandone però la complessità di mediazioni nel passaggio dal terreno della storia a quello della letteratura e del mito (dal conflitto franco-prussiano del 1870 alle città ideali di Jules Verne), mentre Il discorso dell'altro nelle letterature del post-colonialismo di Claudio Gorlier si spinge fuori dal «territorio magico e privilegiato dell'Occidente», dove i conflitti fra le identità culturali si fanno più radicali, e le ambiguità, i punti di contatto più profondi. In questo terreno di confine, più che altrove, le semplificazioni interpretative diventano rischiose: «l'altro non parla mai con una voce sola, e deve inevitabilmente continuare a riprogettarsi, ben sapendo di procedere su un filo teso...». Così, se la conoscenza dell'altro avviene per identificazione, nell'interpretazione del diverso il critico sembra non poter disdegnare il ruolo del funambolo.

 

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Giugno-Dicembre 1997, n. 2