Luca Lenzini
Autonomia e biblioteche. Appunti e corsivi preliminari

 

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1. Negli ultimi anni il dibattito sulla riforma dell'università italiana è stato ampio e affollato: tra pamphlets e inchieste, saggi e interventi su giornali e riviste, la bibliografia in materia è lievitata sino ad essere difficilmente controllabile. Sia detto senza ironia: è vero, infatti, che la furia scribaiola e presenzialista degli opinion-makers e la stagnazione intellettuale nel nostro paese van volentieri di pari passo, tuttavia non pare lecito, in questo caso, negare lo sforzo di rinnovamento che si coglie in numerosi tentativi di ripensare il modello complessivo dell'università. Senza entrare nel merito dei singoli contributi, farò qui - ringraziando il «Bollettino» per l'invito - alcune osservazioni a partire da un punto di vista particolare: quello di chi opera in una biblioteca universitaria.

2. La prima osservazione è di ordine generico, e riguarda i limiti del dibattito in corso, che mi sembrano - sempre dal punto di vista di cui sopra - almeno due, e non secondari. Innanzitutto, che i soggetti della discussione sul futuro dell'università siano "addetti ai lavori" - nella gran maggioranza docenti, con qualche voce di sindacalista dal loggione - è un fatto almeno in parte inevitabile, ma non contribuisce certo ad eliminare una certa aria di chiuso, assai poco piacevole per chi non guardi all'"accademia" come ad un universo separato dalla società e dal mondo del lavoro e dai suoi rapidissimi e profondi mutamenti. Questi ultimi, ovviamente, riguardano da vicino anche le biblioteche, e proprio in quanto luoghi di riproduzione e trasmissione del sapere che sono, ad un tempo, "servizi": sicché chi ne sottovaluta le conseguenze, pensando di rubricare il discorso in un ambito semplicemente "strumentale", introduce una potente mina a tempo proprio in quel che intende rinnovare.
Vengo al secondo limite, che non è senza nessi con il primo. Uno sguardo di sorvolo al dibattito può facilmente evidenziarne una malformazione: quasi tutta l'attenzione è monopolizzata dai problemi che dirò, sinteticamente, dell'Accesso. In altre parole, i due temi principali e prioritari sono: (A) in che modo trasformare il reclutamento della classe docente, e (B) come e se limitare l'afflusso degli studenti all'università. Ebbene, non c'è chi non veda quanto questi aspetti siano importanti, anzi decisivi, nell'agenda delle riforme; ma la scarsa riflessione sui modi della gestione concreta, sia sul piano amministrativo che su quello dei servizi, della "cosa universitaria", è la spia significativa di una cultura riconoscibile e tutta nostrana, per cui da una parte la controversia si concentra sul contrasto ideologico tra élitisti e demagoghi, dall'altra si lasciano in ombra i meccanismi che, di fatto, regolano il (non)funzionamento dell'istituzione. Questa è materia di commissioni ristrette, di esperti e salvifici managers: e così un sinistro cono d'ombra investe una serie di aspetti assolutamente centrali per riportare l'università all'altezza del proprio compito, che dovrebbero essere oggetto di analisi e ampia discussione.

3. Chi ha potuto confrontare le varie esperienze e le diverse realtà a livello di biblioteche universitarie in Italia e fuori d'Italia, sa con certezza poche ma chiare cose. Le biblioteche funzionano non in virtù di ordinamenti e regolamenti e legislazioni di particolare rigore o complessità, ma grazie alla miscela di tre elementi: investimenti continuativi, bibliotecari con una formazione professionale, gruppi di docenti impegnati a svolgere il proprio lavoro. Ora, quanto ho appena nominato con il linguaggio dell'esperienza e del buon senso costituisce il nucleo stabile di quel tessuto culturale preliminare che mentre nel nostro paese esiste solo in forma episodica, in altre realtà fa parte della tradizione (uso intenzionalmente questa parola desueta, che dovrebbe però esser cara a quanti hanno a che fare con la ricerca e l'insegnamento). Provate invece a tradurre ognuno dei tre elementi indicati sopra nella prassi, nella nostra realtà, e vi scontrerete con un alveare di contraddizioni. Non servono inchieste per sapere che gli investimenti sono intralciati ed ostacolati dalla burocrazia, nonché soggetti a spreco per eccessivo frazionamento e mancanza di coordinamento; che il quadro normativo per le assunzioni è arcaico, e inservibile quello che regola i profili; che anni di latitanza nel governo delle strutture hanno incentivato la dequalificazione e la deresponsabilizzazione; che la resistenza a introdurre figure di efficace coordinamento trasversale, nell'ambito dei servizi di automazione, consente e perpetua nelle componenti degli arcipelaghi d'ateneo situazioni paradossali; che le mansioni e le competenze dei docenti e dei bibliotecari, nei ruoli dirigenziali, tendono spesso a confliggere anziché collocarsi in una cornice definita che è pre-condizione di ogni collaborazione efficace; che una nozione autarchica, se non autistica, dell'autonomia e sovranità delle strutture costituisce un boomerang eccellente per la ricerca, tanto più se in tempo di recessione.
Non basta, però. Può essere fuorviante limitarsi a dire che è la mancanza di una tradizione a causare guasti e inefficienze: occorre aggiungere che, in assenza di essa, si è assunto all'interno dell'università un corpus di nozioni, atteggiamenti e prassi che provengono da una sfera esterna: quella delle biblioteche pubbliche statali, a loro volta dominate fino a ieri, in Italia, da una cultura conservatrice, insieme astratta ed arcaica, che è quanto di più inadatto all'universo della ricerca e dello studio universitario (ma diciamo pure dello studio tout court). È avvenuto quindi che nei paesi dove esisteva una tradizione di public libraries efficienti, naturalmente orientate sull'utenza, anche quelle universitarie hanno avuto un solido punto di appoggio (in senso lato: culturale), senza dover cominciare da zero; mentre in Italia (ma non solo in Italia) un'ampia gamma di sinergie negative ha ancor più divaricato la sfera dell'utenza da quella dei servizi. So di generalizzare fin troppo, ma siamo al punto in cui per incominciare un discorso non si può evitare di farlo.

4. I risultati prodotti dallo stato di cose appena riassunto sono sotto gli occhi di tutti. E uno di questi risultati è un diffuso scetticismo, tra gli stessi bibliotecari, di trovare nell'università un ambiente capace di stimolare le proprie risorse, e di attivare la propria professionalità e progettualità. E nondimeno, il quadro offre qualche spiraglio: le nuove tecnologie legate alla comunicazione hanno recato con sé aperture e forme di dialogo che hanno indubbiamente arricchito il bagaglio professionale, e favorito il confronto e lo scambio di esperienze.
Un altro momento positivo e di crescita, in questi ultimi anni, è stato inoltre quello in cui si è inserito gli studenti nelle biblioteche, grazie a borse di studio sia pure "leggere". Fosse soltanto quello di aver ampliato gli orari di apertura, in una situazione che vede limitazioni indecorose in questo campo, il merito dell'iniziativa sarebbe già notevole; ma vi sono altri effetti collaterali non meno apprezzabili. Timidi o baldanzosi, molti di questi studenti sono usciti dal circuito chiuso esami-lezioni per scoprire che le biblioteche non sono soltanto il luogo in cui si fanno le fotocopie. A volte ritornano.
Ma detto questo, credo che un punto di partenza molto empirico per entrare nella questione-biblioteche possa riassumersi nella domanda seguente: che cosa ha cambiato, negli ultimi anni, l'orizzonte di tutti i nostri discorsi sull'università, quindi anche sulle biblioteche che ne sono parte integrante e vitale?
Tralasciando le querelles ideologiche, la risposta non è complicata: lo scenario è mutato completamente da quando appunto l'utenza studentesca, ritualmente evocata come quintessenza dell'istituzione, è divenuta un soggetto economico fondamentale dell'esistenza degli atenei. Da quel momento, tanto la didattica che i servizi sono il primo banco di prova per chi si rivolga al "mercato" delle università; e tanto minore è l'offerta, tanto minore la risposta in termini di iscrizioni e di permanenza a livello studentesco. Contano i fatti. È ormai in gioco, anche se non ancora la sopravvivenza di Facoltà e di Atenei, il loro sviluppo futuro e la loro stessa credibilità; ed è su questo piano, di conseguenza, che occorre spostare il dibattito: sottraendolo, infine, alle fumose discussioni e alla cultura delle "circolari", così cara ai ministeri e ai loro funzionari, per portarlo entro lo spazio operativo aperto dalla reale autonomia degli atenei. E qui - hic Rhodus, hic salta - c'è poco tempo da perdere: ogni ritardo contribuirà a peggiorare la situazione.

5. Come agire, quindi? In parte, ho già risposto. La parola è agli atenei, anzi alle strutture che ne costituiscono la forza trainante, quasi sempre lontana dai riflettori: il lavoro da fare è alla base, non nel chiuso dei rettorati né nelle stanze dei ministeri. A questi ultimi spetterebbe, se mai, incentivare tale lavoro e facilitarlo, ovviamente sorvegliando sugli abusi e gli sconfinamenti; il che non sarebbe compito da poco.
Sul piano locale, un test significativo della reale capacità di affrontare i problemi è dato, nell'immediato, dalla stesura dei regolamenti amministrativo-contabili. Non sembri in contraddizione con quanto ho appena osservato sulla relativa importanza di ordinamenti ecc.: mentre è tutto sommato un bene che gli Statuti non pongano troppi vincoli, limitandosi all'enunciazione delle linee-guida, nel caso specifico delle biblioteche non si può non porre chiarezza, e da subito, sul punto essenziale che riguarda la loro effettiva autonomia di spesa. Compromessi e pasticci sarebbero esiziali in questo campo, in cui il fattore-tempo è decisivo e il controllo gestionale deve riguardare il completo iter dell'acquisizione.
Non voglio però concludere questi appunti, pur svelti e generici, citando un problema di ordine tecnico-amministrativo. Il da fare è implicito nel succinto (e persino risaputo) cahier de doléance accennato sopra; ma un punto mi pare da mettere in rilievo, in un ideale ordine del giorno per il futuro immediato. In questi mesi in molte facoltà si discute il riordino della didattica, si tentano nuove strade che passano obbligatoriamente per una maggiore assunzione di responsabilità da parte di chi ne ha a cuore - e non sono pochi - lo sviluppo e una maggiore efficienza. Allora è bene che l'esistenza e i problemi delle biblioteche non restino a margine, appendice passiva della discussione (parlo in particolare per l'ambito umanistico, ma non credo in troppe differenze, a questo livello).
Occorre invece che in tutte le sedi in cui è possibile farlo sia rivendicata alla biblioteca la funzione di momento formativo essenziale nel curriculum dell'apprendimento: è a partire da questa ovvia considerazione che conseguono tutte le altre, ivi compresa la necessità di soggetti professionali in ogni livello dei servizi (non soltanto le direzioni, pure troppo spesso vacanti). Porre il problema del funzionamento delle strutture sganciandolo da questo sfondo, e pensando soltanto agli aspetti legati all'approvvigianamento, è una tentazione ricorrente nel mondo accademico, ma non fa onore a chi appartiene alla cosiddetta comunità scientifica; e investire in libri ma non in bibliotecari è a dir poco un'opzione miope.
Al contrario, l'informatica e le risorse di rete consentono di recuperare un profilo alto al ruolo di mediazione del bibliotecario, che è naturalmente risospinto là dove era il suo luogo di nascita: a diretto contatto con i soggetti della ricerca e con chi studia. Per invertire la rotta bisogna insomma riavvicinare in tutti i modi possibili la biblioteca ai propri destinatari, con una doppia azione: favorire l'integrazione di chi vi opera con le strutture che regolano la didattica e la ricerca, rendendo possibile ai bibliotecari di farsene interpreti attivi e non ricettori passivi; dall'altra, attivare all'interno dell'iter di formazione dello studente momenti d'incontro prolungato e approfondito con gli strumenti di studio (di qualsiasi genere), rompendo quel circuito chiuso esami-lezioni a cui accennavo prima e valorizzando la risorsa-tempo (è infatti solo in prossimità della tesi, cioè troppo tardi, che lo studente ha la reale possibilità di approfondire i suoi strumenti). Per far questo, certo, occorre recuperare una progettualità che né la dirigenza degli atenei, né le organizzazioni sindacali, hanno dimostrato di possedere più da tempo; ma farlo significa investire nel proprio futuro, e il momento è quello adatto.

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 1997-1999

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Gennaio-giugno 1997, n. 1