Marco Zonch
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Come quell’altro totalmente fuori che non azzecca un congiuntivo ed è passato dal porno a San Francesco, il nome non mi viene ma ci siamo capiti. G. Culicchia, Culicchia1 |
I. Introduzione
Quello di Aldo Nove (1967) è uno dei nomi - pseudonimo, per l'esattezza, di Antonio Centanin - che più hanno contribuito alla formazione dell'immagine del presente. Fin dal suo esordio come narratore, con Woobinda nel 1996 e per i quattordici anni successivi, la sua produzione in prosa è stata infatti letta come caso esemplare di tendenze e direzioni generali percorse dalla letteratura nazionale. Prima pulp e cannibale, con Woobinda, Il mondo dell'amore (in Gioventù cannibale, 1996), Superwoobinda (1998), Puerto Plata market (1997), Amore mio infinto (2000), La più grande balena morta della Lombardia (2004); poi della crisi e del precariato, con Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese... (2006); infine autobiografica e autofinzionale, con La vita oscena (2010). Un lungo elenco, quello delle opere di Nove abitualmente lette dalla critica, che contiene la maggior parte di quanto pubblicato dall'autore in prosa, appunto, tra il 1996 e il 2010.
Precisando, potremmo dire che la prima fase di utilizzo critico è quella impegnata nello studio dei cannibali, della Nuova narrativa italiana,2 e che si chiude forse con la monografia Aldo Nove di Fulvio Senardi (2005); dopo questo momento, infatti, gli interessi critici cambiano, e l'interpretazione dei cannibali finisce per stabilizzarsi. La seconda e più recente è quella in cui Nove è stato chiamato in causa per parlare di letteratura della crisi e del precariato - per Mi chiamo Roberta - e più in generale nel contesto della discussione apertasi con la pubblicazione di Gomorra (2006).3 Detto altrimenti, quella di Nove è stata una notevole (e meritata) fortuna critica, che si è però a un certo punto interrotta. Quasi nulla, infatti, è stato detto sulle opere successive alla Vita oscena, che del resto non vengono di solito nominate neppure durante i tentativi generali di censimento e classificazione del contemporaneo.
Si tratta di un silenzio quanto meno peculiare, che non sembra possibile giustificare solamente con i risultati raggiunti. Se è cioè vero che non sempre le opere recenti sono all'altezza di quelle degli anni Novanta e Zero - complice forse il definitivo abbandono di alcune forme di scrittura che lo avevano reso uno dei migliori cannibali - lo è anche che questo da solo non basta a spiegare la disaffezione critica tout court. Alla sua origine ritengo si trovi infatti una ben precisa difficolta, o distanza, che impedisce di leggere le opere successive alla Vita oscena con le categorie del pulp o con quelle che dominano il dibattito letterario contemporaneo. Detto altrimenti, per Tutta la luce del mondo. Il romanzo di San Francesco (2014) o Il professore di Viggiù (2018), ma anche per Zero il robot (2008) e per la stessa Vita oscena le categorie impiegate oggi dalla critica non sono sufficienti. Al centro di queste opere si trova infatti una spiritualità sincretica, in cui cioè cristianesimo, religioni orientali, elementi platonici e altro si mescolano, e per la cui descrizione l'unica categoria adatta sembra essere quella di postsecolare. Etichetta sotto la quale possono venir collocate le forme assunte dal credere dopo/durante la secolarizzazione, più in generale una condizione in cui secondo i sociologi «è ormai diventato quasi una banalità sostenere che [...] [in Occidente] si sia in presenza di una nuova cultura spirituale».4
È tuttavia evidente che una simile definizione del problema non è sufficiente. Postsecolare è infatti categoria sociologica, sviluppata per rispondere a problemi e domande che sono, appunto, in prima battuta sociologici: il dibattito da cui emerge ha a che fare con lo statuto della secolarizzazione - abbaglio o processo realmente avvenuto? - si interseca all'individualizzazione, si estende al ruolo pubblico delle religioni, arriva alle migrazioni e al pluralismo, alla fede come brand.5 Insomma, il punto è che la categoria non può venir ripresa e impiegata, così com'è, dalla critica. Proporrò dunque di affrontare lo studio di Nove facendo ricorso ad alcune categorie - poetiche della preghiera e scritture postsecolari - che ho sviluppato nel corso degli ultimi anni, e che ritengo utili ad affrontare la questione nella sua declinazione letteraria. Forse, più in generale, a chiarire la natura di alcuni dei cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi venti o trent'anni. Ritengo, infatti, che molti di questi si possono comprendere solo tenendo conto del loro appoggio spirituale: il mondo abitato da Nove non è di sola materia, e vero non significa «conoscenza di un campo di oggetti»6 ma accesso a una dimensione superiore di senso.
Una volta stabilito questo, apparirà evidente che il ruolo da attribuire alla spiritualità (postsecolare) nella scrittura di Nove è quello della chiave di volta. Ci permetterà, infatti, non solo di tenere insieme i due rami della produzione di Nove, l'uno in versi e l'altro in prosa, ma anche di tracciare una linea su cui coerentemente collocare Fuoco su Babilonia! (2003), Woobinda ecc., e arrivare fino al Professore, ai Pometti della sera (2020). Facendolo, ci si accorgerà inoltre della relazione che esiste tra scelte formali e distanza relativa della spiritualità dal centro della scrittura. Benché, infatti, la sua presenza rimanga sostanzialmente costante (con delle eccezioni) lungo tutto l'arco cronologico della produzione di Nove, radicali saranno le differenze di trattamento. Anticipando un po', potremmo infatti dire che esistano delle fasi, che essa compaia in maniera esplicita all'inizio della carriera di Nove, si inabissi a un certo punto per riemergere un decennio più tardi circa. Queste fasi non sempre corrisponderanno a quelle criticamente attestate: al contrario di quanto è stato detto da chi si è accorto del problema - si legga la citazione di Culicchia in esergo - quella spirituale non può venir intesa come "svolta tarda". È cioè del tutto sbagliato pensare a una qualche forma di conversione, a una trasformazione di Nove «addirittura [in] un poeta mistico».7 Nove lo è sempre stato.
II. Poetiche della preghiera
La prima comparsa del problema spirituale nella scrittura di Nove avviene quasi di nascosto, con la pubblicazione sul novantunesimo numero di «Poesia» di una silloge intitolata Madre di Dio.8 Siamo nel gennaio del 1996 e Aldo Nove non è ancora Aldo Nove; Woobinda non è ancora Woobinda. A quest'altezza, infatti, al suo posto troviamo Antonello Satta Centanin,9 redattore di «Poesia», che pubblicando alcuni inediti coglie l'occasione per accennare alla futura pubblicazione della Merce che è in noi.10 Quando però, pochi mesi dopo, La merce che è in noi verrà pubblicata avrà cambiato titolo: sarà diventata Woobinda, e il suo autore avrà lasciato il posto ad Aldo Nove.11
Aldo Nove prima di Aldo Nove,12 insomma, già mette al centro della sua scrittura la spiritualità. Ne troviamo infatti traccia in due dei cinque componimenti di Madre di Dio. Nel primo di questi, Eroina, l'io poetico dice che avrebbe voluto nascere in epoche passate, vivere episodi della storia sacra cristiana e si identifica con personaggi biblici. Ci si arrischia anche all'imitatio Christi:
«Vorrei avere atteso che Pilato scegliesse
assieme a Caifa la mia sorte e dopo
essere stato trascinato Sul Golgota
sconfiggere la morte, - non ritornare
da un supermercato con quattro borse
piene e una consorte».
Eroina è insomma un testo in cui l'immaginario e i valori cristiani vengono opposti alla vita nella società dei consumi, con effetti grotteschi («Pilato» «supermercato») derivanti dall'incompatibilità dei due universi di senso. Detto altrimenti, mi pare che il desiderio dell'io poetico non possa venir derubricato a escapismo, a ricerca di divertimento. È al contrario ricerca di un appoggio, di un appiglio che permetta di trovare una vera alternativa al «supermercato». Nel finale, però, questa funzione viene assunta dalla droga del titolo: una parodia nera di quello che potrebbe essere un rapporto panico, mistico, con il tutto.
«Perché mi sento un uomo solamente
quando mi metto un ago nella vena,
e il colpo arriva al centro della
mente.
Salendo come quando un fiume in
piena di luce cresce incessantemente dal
braccio al cielo, attraverso la schiena».13
L'eroina che permetterebbe di arrivare fino «al cielo» è l'ultimo disperato prodotto della società dei consumi, utile solo per fuggire (falsamente) da essa. Ma se l'eroina è falsa consolazione, falsa elevazione, nell'ultimo testo della silloge, intitolato appunto Madre di Dio, si ritorna a cercare conforto nel cristianesimo e più di preciso in Maria. La Maria di Nove è infatti sia madre di «Betlemme» che di «Bustecche», di «Baranzate», viene insomma invocata dalla periferia urbana in cerca di conforto: «Tra i gas dei camion gli occhi, la scintilla | degli occhi tuoi, Madre, prima che taccia | la sera madre abbracciami...».14 Nella società dei consumi ci si muove, insomma, con le mani giunte.
Tuttavia, a dispetto forse dell'importanza del componimento e della silloge, capaci di chiarire, come detto, la prospettiva dalla quale Nove guarda alle merci e alla società dei consumi, la loro pubblicazione passa inosservata. Quando esattamente undici anni dopo, e nella stessa sede editoriale, Andrea Cortellessa presenta alcune parti di Maria (2007) - un poema in trenta canti dedicato appunto a Maria - lo fa con stupore. Sostiene, anzi, che il testo sarà destinato a dar vita a uno «"scandalo"», che andrà ad aggiungersi a quello provocato l'anno prima dalla pubblicazione dell'impegnato Mi chiamo Roberta: la «"conversione" del già "cannibale" al cristianesimo.» Come appena visto, però, quella segnalata da Maria non è una conversione, tantomeno al cristianesimo. Detto altrimenti, ciò a cui Nove afferma a quel punto di aderire non è il «nucleo più intimo e popolare della cristianità: il culto per il "sacro cuore" di Maria».15 Non ovviamente perché la figura di Maria non sia cristiana, ma perché la fede di Nove non è il cristianesimo. Quest'ultimo viene infatti ibridato con motivi di origine orientale dando vita, come accennato nell'introduzione, a un sistema di credenza di tipo sincretico e postsecolare.
Ne troviamo traccia nel penultimo testo di Madre di Dio, titolo che questa volta indica una sezione, datata 1995, di Fuoco su Babilonia!. A dispetto della titolatura, l'unico dei componimenti che viene qui ripreso dalla silloge di «Poesia» 91 è quello eponimo, che è qui incluso come settima parte di Una volta soltanto, e l'unica con un titolo non soltanto numerico. Il testo che ci interessa è, infatti, il numero VI, che pur datato 1995 viene pubblicato qui (che mi sia dato sapere) per la prima volta. Si tratta di un componimento centrale per l'intera raccolta, il cui titolo, Fuoco su Babilonia!, riprende infatti un verso di VI in cui si invoca appunto, a più riprese, la distruzione del mondo per opera del fuoco.16 Tuttavia, a dispetto della presenza di Maria e del richiamo veterotestamentario, non ci è consentito chiudere il mondo, per come lo concepisce Nove, nei confini del cristianesimo.
«fiamme sugli U.S.A., sulle mie mani,
nella mia bocca, lungo le autostrade,
fuori da questo cerchio ripetuto».17
Il «cerchio ripetuto» di cui qui si parla rimanda a una ciclicità di origine non cristiana. È forse quello di un mondo concepito come ciclo di creazione e distruzione, rinascita, di matrice induista; forse è il desiderio di uscire dal cerchio di morti e rinascite che si propone di ottenere il buddismo; forse un riferimento alle quattro fasi di cui si compone il ciclo di cui staremmo vivendo, secondo l'autore ma non solo, l'ultima e decadente: Kali Yuga (età attuale).18 Insomma, comunque lo si legga, questo cerchio è indizio di una concezione ontologica non cristiana, che Nove probabilmente accoglie prima ancora di chiamarsi, appunto, Aldo Nove.
Possiamo allora fidarci di quanto più tardi afferma il narratore (autobiografico) del Professore di Viggiù, quando sostiene di essersi sempre interessato di mistiche di varia provenienza.19 È tuttavia innegabile che con la nascita di Aldo Nove e la pubblicazione di Woobinda cambi qualcosa. Si apra cioè una fase, che dura dal 1996 ai primi anni 2000, in cui le questioni spirituali vengono messe sullo sfondo, trattate in maniera molto differente. Se così è, la doppia dedica a Maria (1995 e 2007) da cui siamo in qualche modo partiti, finisce per segnare dei confini, al cui interno collocare le opere del periodo cannibale. Più esattamente, dovremmo parlare di un percorso di inabissamento e riemersione. Si potrebbe cioè sostenere che tra il 1996 di Madre di Dio e il 2007 di Maria - e con l'esclusione di Fuoco su Babilonia! - la spiritualità si inabissi. Riemerge, appunto, con Maria, acquisendo inoltre una centralità forse davvero scandalosa - nel senso di Cortellessa - quando la si accosti al Mondo dell'amore, al Bagnoschiuma e agli altri racconti dell'"intermezzo" cannibale.
Maria non è, però, solo il momento in cui Nove prova a chiarire a tutti quale sia «il punto di partenza come predisposizione e intento»20 della sua scrittura, ma è anche quello in cui per la prima volta formula (o espone, non ci è possibile saperlo) una ben precisa concezione poetica. Ne troviamo indicazione in un verso all'apparenza poco significativo, «La parola: vibrazione»,21 dietro cui si nascondono però un'ontologia, un'idea di verità e una riflessione sul problematico rapporto tra mondo, verità e letteratura. Nove ne parla in un'intervista del 2019, su cui dobbiamo soffermarci per introdurre alcuni problemi che ci aiuteranno nella ricostruzione del nostro percorso, che da Madre di Dio ci porterà fino a Malebolge (2021).
«Io sono ciò che scrivo e viceversa. Non ho mai mirato al successo. Faccio ricerca. Attraverso la lingua o, meglio, il linguaggio. La mia grande passione, che coltivo da più di quarant'anni, è la poesia: ritmo e "simpatia" (in senso etimologico) di particelle sonore. Collegate al respiro: Paul Celan, forse il più radicale poeta del Novecento, ha scritto in "Der Meridian", il suo unico testo poetologico, "poesia è una svolta del respiro". In fondo e sempre, quindi, musica: la terra vive immersa nella vibrazione di Schumann. E anche le cellule emettono vibrazioni/suoni. L'universo è l'eco di un suono ancestrale, che gli indù hanno riconosciuto nell'AUM: espirazione/ intervallo / inspirazione. Di chi sia quel respiro, in fondo, non è importante. Ogni cultura gli dà il suo nome. Ma negarlo significa semplicemente negare ciò che chiunque, a un livello non superficiale, sente e sa».22
La parola-vibrazione di Maria è dunque concepita come una sorta di forza neoplatonica - il "così in alto come in basso" della tabula smaragdina attribuita a Ermete Trismegisto - che permetterebbe di percorrere il cosmo rivelando la segreta unità del "cielo" e della "terra"; seguendo la catena delle analogie, di arrivare alla scrittura passando per il cristianesimo, l'induismo, la fisica e la biologia. In ultima analisi, di produrre una «cosmografia analogica»23 che oppone all'episteme della modernità,24 al «materialismo grossolanamente fideistico» degli ultimi «trecento anni»,25 un'ontologia altra e spirituale.
È tuttavia evidente che i problemi toccati da Nove in queste poche righe sono troppo estesi per venir trattati qui esaurientemente: chi volesse approfondire potrà leggere Il Tao della fisica (1975) di Fritjof Capra, testo indicato come introduttivo al problema dallo stesso Nove.26 Basti allora ricordare che il mondo di Nove non è materialistico, e che la verità a cui si fa accenno nelle ultime righe e in altri passi di questa stessa intervista non è quella della scienza.27 Dobbiamo invece fermarci a riflettere sul posto che Nove assegna alla letteratura nell'ordine delle cose. Passando attraverso gli aspetti non semantici del linguaggio,28 Nove riesce infatti a collocare la letteratura nella stessa "casella ontologica" in cui si trova la meditazione («AUM»). La cosa avrà tutta una serie di implicazioni e conseguenze tra cui, per esempio, il fatto che la parola venga descritta come sempre insufficiente, costitutivamente incapace di contenere la verità: «La Verità [...] non è esprimibile a parole se non per approssimazioni». A ridosso di questa collocazione, per analogia, della letteratura nel cosmo, verrà definendosi un rapporto ambiguo e problematico, segnato da incertezze29 e passaggi da un'immagine/principio di corrispondenza all'altro.
Alla richiesta di chiarimenti su linguaggio, ritmo, simpatia, mondo e respiro (da intendersi probabilmente come prana), Nove risponde infatti ampliando il problema nella direzione della luce, e a partire dalla sua definizione fisica come onda e particella. Il punto d'arrivo è una riducibilità del tutto a luce - «potrei semplicemente dire che tutta questa fenomenologia dell'apparente non è altro che luce» - da cui consegue la riducibilità anche di «Linguaggio, ritmo, simpatia», da cui viene fatto derivare il titolo di uno dei suoi romanzi, Tutta la luce del mondo. Comunque sia, che cioè si debba scegliere tra vibrazione o luce, o che le due siano equivalenti perché interscambiabili30 - di certo il meccanismo che consente il percorso è il medesimo: l'analogia - ciò che conta è che da un certo punto in poi la scrittura di Nove venga informata da una simile concezione poetica, che senza difficoltà potremmo includere tra gli esempi di poetica della preghiera. Etichetta che prende ispirazione da una definizione di Emmanuele Trevi, il quale intende la letteratura come una «preghiera atea»,31 e sotto cui propongo di collocare tutte quelle concezioni di letteratura che la immaginino - costitutivamente o accidentalmente - capace di trasmettere contenuti spirituali.
III. «i ciaccra, puttanate»32
Come detto, tra fuoco "veterotestamentario" e parola-vibrazione la spiritualità si inabissa. Leggendo le opere del periodo cannibale, sembra infatti impossibile trovare traccia dei problemi di poetica e, più in generale, di quelli spirituali che tanta parte avranno nel definire la scrittura di Nove dopo Maria. Guardando più da vicino, però, l'impressione iniziale risulta confermata solo a metà. Se è cioè vero che al centro di queste opere non si trova la spiritualità, lo è anche che Dio, Maria e la fede compaiono. Lo fanno, però, in versioni reificate. Sono, in altre parole, figure ridotte alla condizione di merci, o idoli, a cui votarsi nella speranza di guadagnare «tre milioni a testa senza stronzate».
La speranza è quella di Ivano («dei Pesci»), protagonista fratricida di Gesù Cristo (Superwoobinda), che oppone all'immagine di Cristo quella del fratello, ucciso perché «bloccava la pace che è in me, la tranquillità della gente che lavora» con la sua attività politico-sindacale. I sindacalisti sarebbero infatti colpevoli di non aver capito «la forza di un uomo che un giorno di gloria è resuscitato per noi.» Il Dio cristiano è insomma un idolo da pregare - «Pregavo che Dio lo mandasse sotto un autobus» - per il soddisfacimento di un qualunque desiderio, per quanto contrario ai principi della religione stessa; lo stesso dicasi per la sua idea di salvezza, che è una molto materiale questione di ricchezza, e non di vita dopo la morte.
«Allora non serve parlare o fare male agli altri. Un giorno tutti saremo salvati. Un giorno la gente guadagnerà tre milioni a testa senza stronzate.
Si parlerà con gli animali. Le ciminiere saranno fiori e nessuno si ammala. Questo uomo è Gesù Cristo».
Si tratta di un evidente rovesciamento di tutta una serie di ideali cristiani, per cui non solo si uccide, ma si sostituiscono i beni dell'anima con quelli materiali. Biblica è del resto, probabilmente, l'ispirazione del racconto stesso: l'omicidio commesso da Ivano viene infatti scoperto, come quello di Abele, per colpa del sangue del fratello ucciso.33 Dopo averne fatto a pezzi il corpo utilizzando il «coltello elettrico che regalavano alla gita al santuario di Padre Pio», Ivano lo nasconde nel congelatore e mette il sangue in alcuni sacchetti di plastica che, però, si rompono. È proprio pulendo il sangue fuoriuscito («Il sangue dell'uomo [...] non viene via») che Ivano provoca un corto circuito, sviene, e finisce per venir ricoverato e arrestato: «Quando mi sono svegliato ero nell'ospedale e c'erano i carabinieri. Non era l'aldilà e mi faceva male la testa, mi faceva male tutto».34
Una simile riduzione di figure della tradizione cristiana a idoli,35 una messa al centro di una religiosità popolare e materialistica anch'essa (padre Pio)36 avviene del resto anche in altri luoghi di Superwoobinda. Per esempio, in un racconto intitolato Gesù che balla, che si conclude con un «vecchio convinto che Madonna era la Madonna, una volta trasmettevano il video di Like a Prayer, ha detto in televisione c'è Gesù che balla perché questo vecchio confondeva Gesù con la Madonna». 37 Si tratta di un finale che punta a mettere in rilievo la sostituzione, o la confusione, tra merce/icona pop - probabilmente letta da una prospettiva francofortese38 - e simbologia religiosa.39
Tuttavia l'esempio per noi più interessante, quello che meglio di tutti gli altri chiarisce il trattamento riservato da Nove alla spiritualità in questa fase, è quello offertoci da un breve racconto intitolato io allora me ne sono andato a puttane e contenuto nel fagiano jonathan livingstone. manifesto contro la new age (1998). Si tratta di un volumetto d'occasione che contiene, tra gli altri, testi di Niccolò Ammaniti e Tommaso Labranca, i cui intenti polemici si agganciano al successo mondiale del best-seller The Celestine Prophecy di James Redfield (1993). Il racconto di Nove è, appunto, anch'esso critico nei confronti della new age, nel modo in cui lo sono le parti "religiose" di Superwoobinda.
Nel concreto, per bocca del protagonista stesso - «Mi chiamo Michele Collura, ho ventisette anni (h 1.74, peso 80 chili, dell'Inter)»40 - ci viene raccontato l'incontro con un gruppo di new agers:
«Io una volta sono andato in un posto in campagna un agriturismo pieno di new age dove dei cretini stavano tutto il giorno chiusi in casa a guardare i film della campagna, io le ho detto cazzo state tutto il giorno in casa a guardare i film della campagna se fuori c'è la campagna?
Quelli mi hanno detto che era una dimensione interiore i ciaccra, puttanate, io gli ho detto guarda che tu sei un esaurito, voi siete peggio dei preti, vi siete bolliti la scatola cranica con la profezia di Cielestino, [sic] quelli mi hanno detto che ero violento perché era evidente che io mangiavo troppa carne e che la carne fa diventare violenti, io le ho detto che i vegetariani sono dei pirla, che voglio vedere se preferiscono mangiare un finocchio al posto di un kingbecon [...], quelli mi hanno detto di stare zitto, che rovinavo tipo l'aura, che facevo vibrazioni negative hanno spruzzato una cagata all'orzo aromatizzato non so una specie di sprai new age. dopo hanno respirato tutti profondo hanno iniziato a ballare una cosa tipo Battiato sempre uguale.
Io me ne sono andato a puttane».41
Il racconto - appena due pagine - si conclude con una celebrazione della pornografia, che viene opposta al disvalore della new age. Si tratta di un testo che dietro alla facciata dell'apparente semplicità nasconde un'ambiguità difficile da sciogliere. Intendo dire che il racconto rende difficilissimo capire che cosa, esattamente, si voglia dire della new age: per come è costruito, leggendolo, si altalena cioè tra la sensazione che per antifrasi si celebri la new age - a parlare è uno degli individui televisivi a cui Nove ci ha abituati - o che al contrario la critica sia vera. Probabilmente, o almeno così mi pare, la critica è qui doppia.
Da un lato abbiamo cioè la solita narrazione che si risolve di fatto in una condanna di un sistema capace di produrre soggettività come quella di Michele; dall'altro, incontriamo una critica a quella che è una spiritualità presentata come merceologica, come null'altro che un fenomeno pop - è anch'essa un prodotto del mercato. Ritengo cioè si debba prendere sul serio l'affermazione seguente: «La new age è Eleonora brigliadori [sic] che beve la piscia al Costanzo, ora voglio dire a me piace certa pornografia». La si deve prendere sul serio, nel senso che anche noi lettori dobbiamo considerare la new age come una spiritualità-prodotto, una follia "televisiva" a cui in absentia si contrappongono le spiritualità vere. Una simile lettura è legittimata da almeno due passi più tardi. Il primo è tratto da Milano non è Milano (2004), breve guida turistica sui generis, in cui tra le altre cose si parla anche di un centro commerciale per ricchissimi, che viene descritto come segue:
«Un mix di glocalismo e seduzione esotica.
A Milano, città globalizzata, ce n'è bisogno.
Almeno per chi ha tempo di avere bisogni di tipo "spirituale", nel luogo in cui è massima la concentrazione di quelli Materiali».42
Le virgolette ci indicano dunque che esiste una versione merceologica e impropria della spiritualità, merce tra merci: viene venduta in un centro commerciale; è un lusso glocal, esotico, per chi ne ha il tempo. Il secondo di questi due passi è tratto dal Professore di Viggiù, dove dopo aver discusso alcune concezioni ontologiche si sostiene che la scienza stessa avrebbe confermato cose che i più «considererebbero magie da ciarlatani o da poveri seguaci dell'ultimo guru della new age, tanto per tirare in ballo un'altra etichetta che è paradigma dell'ottusità del nostro tempo.»43 Insomma esiste una spiritualità falsa, perché merceologica, da cui si dovrebbe distingue quella vera.
Volendo a questo punto provare a schematizzare, potremmo dire che la spiritualità che compare in questa fase della scrittura di Nove - con un accenno precedente in alcune poesie datate 1992-199544- è una sorta di accusa verso quella che, altrove, viene chiamata «cialtroneria spirituale».45 Si tratta insomma di un atteggiamento generale di accusa al credo pornografico-merceologico, televisivo e contemporaneo. Esisterebbe dunque, come mostrato con chiarezza da io allora me ne sono andato a puttane una versione degradata di spiritualità, che in absentia - perlomeno nella fase cannibale - viene opposta a una spiritualità vera: prima di Maria, il Nove cannibale parla cioè di spiritualità e religione nello stesso modo in cui parla di bagnoschiuma, finendo per cantare il «Poema di Gerry Scotti e padre Pio».46 Si tratta, insomma, di celebrazioni per antitesi, simili a quella che nella cover di Smells like teen spirit contenuta Nelle galassie oggi come oggi, fa esprimere al «poeta di città» disgusto nei confronti di Franco Battiato, uno dei modelli celebrati da Nove autore, che gli ha recentemente dedicato una bibliografia intitolata appunto Franco Battiato (2020).
IV. Mistica cannibale
Il trattamento che Nove riserva alla spiritualità nella prima fase della sua produzione si riflette sulle caratteristiche dei mondi delle sue narrazioni. Tutte le opere in prosa di Nove, fino almeno a una certa data, sono cioè perfettamente chiuse in quel "materialismo grossolano" che più tardi verrà esplicitamente criticato. E se la fede raccontata in Superwoobinda è falsa, o pervertita dalla televisione, quella autentica compare invece in Maria e nelle altre poesie di cui abbiamo brevemente parlato. Ciò non significa, però, che si possa considerare la produzione in versi come una sorta di recto, di luogo in cui Nove cala la maschera, né che l'abbandono della modalità cannibali sia brusco e immediato. Detto altrimenti, la riemersione della dimensione spirituale e il reincanto che qui cerchiamo di descrivere è trasversale a poesia e prosa. Avviene inoltre per fasi: comincia in un certo senso già con Amore mio infinto (2000), produce più di un "ibrido", e si conclude davvero soltanto con il 2010, data di pubblicazione della coppia composta da A schermi di costellazioni e La vita oscena: è il momento in cui verranno definendosi alcuni dei temi e delle costanti formali dell'ultimo decennio della scrittura di Nove.
Maria è insomma, per quanto importante, soltanto fase di un processo che dura all'incirca un decennio, e che porterà Nove a rivedere profondamente le sue modalità di scrittura riprendendo elementi già presenti nella primissima fase della sua produzione. Possiamo dunque provare chiarire le linee di massima, le direzioni di questa transizione a partire dal peculiare ruolo che ha finito per assumere Amore mio infinito. Potremmo infatti considerare quest'ultimo come una sorta di cantiere, di deposito di materiali che nel corso di dieci anni, fino appunto alla Vita oscena, subiranno opera di riscrittura e revisione. Per esempio, già in Milano non è Milano (2004)47 vengono riprese alcune pagine (139-141 e 158-162) di Amore mio, testo in cui del resto vengono già raccontate la malattia e la morte della madre, assieme a tutta un'altra serie di eventi (autobiografici), che torneranno nella Vita oscena.
Tuttavia, al di là di trame e temi, la differenza che corre tra Amore mio e le riscritture successive si colloca, macroscopicamente, sul piano della prospettiva. Benché, infatti, a quest'altezza comincino già a comparire articoli48 in cui Nove abbandona la maschera dello «scrittore che piace»,49 è soltanto con Milano che per la per la prima volta il personaggio intellettuale - per come lo intendeva Calvino nel 1955 - smette davvero di nascondersi o cancellarsi.
«E se vediamo i nuovi protagonisti muoversi tra carneficine, stupri e atroci storie di miseria, e a loro stessi capitare talvolta di spaccare crani o fendere grembi o chieder l'elemosina sempre con uniforme tranquilla ottusità di giovani bruti, non ci impressioniamo, sappiamo che questo non è che l'estremo travestimento del protagonista lirico-intellettuale, cui non resta ormai altra carta su cui puntare se non la cancellazione di se medesimo».50
Con Milano Nove mette da parte il bisogno di nascondersi dietro a carneficine e stupri. Comincia anzi a parlare di centri commerciali, luogo simbolo della sua prima produzione, con paragoni impensabili per i protagonisti del Mondo dell'amore: «Metropoli, [il centro commerciale di cui si parla qui] come il film di Fritz Lang di cui evoca il nome, è un condensato dell'idea di città.»51 Insomma un calare la maschera, non più in articoli ma sulla lunga distanza del libro autonomo, e che prima di realizzarsi pienamente dovrà passare attraverso tutta una serie di fasi e passaggi intermedi.
Nello stesso anno di Milano Nove pubblica infatti anche La più grande balena morta della Lombardia (2004). Si tratta del segno più tangibile in nostro possesso del tentativo di trovare un compromesso tra esigenze spirituali e "forma cannibale"; è per esteso un punto a metà strada tra il nascondersi e il rivelarsi del protagonista intellettuale. In questo senso, l'elemento macroscopico da considerare è l'utilizzo di un narratore bambino: ancora una volta un non-intellettuale, certo, ma in un senso molto diverso da quello in cui lo sono Ivano e gli altri di Superwoobinda, o in cui lo è il protagonista di Puerto Plata Market. Si tratta, ed è importante sottolinearlo prima di entrare nel merito della Balena, non solo di una soluzione già impiegata in Amore mio52 ma anche di una vera e propria riemersione. Il primo, il terzo e il quindicesimo capitolo della Balena sono, infatti, contenuti in un gruppo composto da sei racconti, complessivamente intitolati Piccolo stillicidio occidentale; presentati a «RicercaRE '95»,53 e pubblicati in parte sul diciottesimo numero del «Maltese» (1996) con il titolo Sezione infanzia,54 e poi in Narrative Invaders.55
Uno dei tre - l'eponima Balena - reca traccia di quei riferimenti spirituali che (ancora?) comparivano nella primissima ora. In questo senso è sufficiente leggere la prima frase del testo, rimasta invariata dall'edizione del 1996: «E migliaia di anni fa, prima che Dio si fosse proposto di trarre Adamo dalla polvere».56 Si tratta di un'affermazione difficilmente comprensibile al di fuori di una concezione ciclica del cosmo, concezione che però non viene chiarita e che, dunque, rimane a prima vista una semplice stranezza, una delle tante affermazioni acide che non è difficile leggere nel Nove degli anni Novanta. Vale poi la pena soffermarsi anche su questa frase di Donatella: «Donatella usciva fuori, sapeva che la notte aveva una pelle delicatissima da infrangere, oltre di essa c'erano stelle molli e odorose, fiumi di latte dove galleggiavano le teste decapitate degli amici di suo marito.»57 Si tratta di un passo che, come sarà evidente dopo, si colloca a metà strada per contenuti e tono tra la parte cannibale e quella più propriamente spirituale del percorso di Nove. E in effetti è questo il tono generale della raccolta, che parla sì di spiritualità, ma con toni stralunati e senza darle quella centralità che le sarà poi propria. La spiritualità, insomma, non è ancora del tutto (ri)emersa; sta appena sotto il pelo dell'acqua.
In questo senso, si legga per esempio il seguente passo tratto da Il giorno dell'arresto di Enzo Tortora sotto le scale ho incontrato un extraterrestre che (Balena) in cui il protagonista bambino trova finalmente spiegazione di quanto ha visto in televisione, e del commento di sua madre: «Io ho chiesto a mia madre perché arrestavano Enzo Tortora e lei ha detto che un conto è Portobello, e un contro è la vita».58 Non trovando nessun adulto disposto ad ascoltarlo e a chiarire i suoi dubbi, decide di pregare.
«Mi sono nascosto nello sgabuzzino [...] e ho iniziato a pregare finché non mi è apparso un extraterrestre che mi ha detto che tutte le cose sembra che esistano, ma non è vero.
Non completamente.
E che ci sono molti altri mondi.
E ci sono molti miliardi.
E tutti spariscono.E insieme esistono e non esistono».59
Si tratta di affermazioni che cominciano a esplicitare la condivisione di tutta una serie di concezioni ontologiche di matrice orientale. In particolare, lo si osserva nell'idea che le forme sono illusione (māyā) da superare lungo la via che ci conduce all'ātmàn; insomma, «tutte le cose sembra che esistano, ma non è vero.» Ma se così è, il passo ci consente allora anche di mostrare come venga usato il narratore-bambino, che si posiziona a metà strada tra "lo scrittore che piace" e l'intellettuale: permette di nascondere Dio, Maria e le filosofie orientali dietro a un extraterrestre.
Il nuovo equilibrio raggiunto con la Balena si rivelerà tuttavia precario. Da lì a poco, infatti, il personaggio intellettuale smetterà di nascondersi, e di spiritualità si comincerà a parlare senza più indossare maschere. Se, infatti, in Milano di tanto in tanto ancora si impiegano i toni stralunati o acidi delle prime opere, già con Mi chiamo Roberta (2006) il cambio di tono è definitivo. Inoltre, le ricomparse di narratori bambini che proseguiranno fino appunto a Zero il robot (2008) e a Un bambino piangeva (2015) potranno essere considerate degli esempi tardi o, più esattamente, degli utilizzi molto differenti della stessa prospettiva. Dal mascheramento si passerà infatti al racconto di bambini per bambini - in Zero il robot il racconto sarebbe il resoconto di sogni di bambini con la febbre60 - e il racconto di un'infanzia (Un bambino piangeva), entrambi all'insegna della mistica.
V. «Ma io non. | Potevo. | Rinascere.»61
Nei versi che chiudono la Balena,62 e nel desiderio di uscire «fuori da questo cerchio ripetuto» di cui si parla in Madre di Dio (Fuoco su Babilonia!), troviamo per la prima volta traccia di un problema che diventerà centrale a partire dalla Vita oscena: l'impossibilità di raggiungere l'illuminazione, e più in generale quello della rinascita.63 Da questo momento in poi, infatti, i narratori dei romanzi di Nove saranno tutti individui non-illuminati; provano e, pur aprendo la porta a possibilità ulteriori, falliscono (La vita oscena), o si assumono il compito di raccontare la vita di chi ce l'ha fatta (Tutta la luce, Il professore). Di rinascita, inoltre, si parla abbondantemente anche nell'altro testo del 2010, A schermi di costellazioni.64 Si tratta di una raccolta poetica che non a caso contiene testi scritti nel periodo 2004-2009, dopo la Balena dunque, e chiusi da un gruppo di liriche dedicate a una specie di medusa (Torritopsis nutricola) che «alle soglie della morte [...] si rigenera completamente, vivendo così per sempre».65 La questione è dunque centrale, e non lo è solo per comprendere il chiudersi del decennio della rielaborazione, ma anche per capire la direzione presa successivamente della scrittura di Nove. Dobbiamo dunque fermarci e affrontarla: lo faremo leggendo la Vita oscena, racconto dai tratti autobiografici in cui Nove ripercorre gli eventi che dalla morte dei genitori arrivano fino a un tentativo di suicidio per overdose.
Questo è il punto d'arrivo di una parabola discendente in cui, dopo essersi trasferito a Milano, il protagonista comincia a far uso di cocaina e a incontrare prostitute e mistress. La cocaina e il sesso-merce non devono però trarre in inganno. Se è cioè vero che questi elementi della narrazione sono affini a quelli delle opere degli anni Novanta, lo è anche che qui vengono declinati in maniera molto diversa. È infatti cambiato il narratore, la cui intellettualità non è più nascosta - nel senso di Calvino - dietro a situazioni estreme. Anzi, queste ultime assieme al sesso-merce servono ora (in maniera esplicita) alla costruzione di un racconto iniziatico, e lo si può notare semplicemente osservando i mutamenti di vocabolario. Il sesso-merce non viene più raccontato solamente con quello della pornografia. A quest'ultimo si sovrappone, infatti, quello della spiritualità, che pretende di essere preso sul serio66 e che anzi piega alle sue esigenze il racconto del sesso-merce. Insomma, se nella Balena si era raggiunta una qualche forma di equilibrio tra prospettive cannibali ed esigenze spirituali, con la Vita oscena ci troviamo al di là di una soglia - sono a questo punto comparsi persino dei cavalli bianchi che, a differenza di quello del Bagnoschiuma, sono davvero liberi67 - dopo la quale al centro della scrittura non troviamo più la critica delle merci e i centri commerciali ma la spiritualità.
Che sia così ce lo indica, appunto, il vocabolario. Si possono in tal senso leggere alcune pagine in cui si parla esplicitamente di pornografia, e di «maschi in ascetica contemplazione» di fronte a delle riviste esposte in un'edicola. Un topos della letteratura degli anni Novanta, la visita all'edicola per l'acquisto di materiale pornografico, la cui contemplazione diventa però qui «viatico verso un percorso di iniziazione a buon mercato»; o ancora, i cinema a luci rosse sono paragonati a chiese: «si entrava e usciva ma come lo si può fare in chiesa, durante l'ostensione del sacramento [...] la pisside era la donna».68 Questi utilizzi, oltre a distinguere radicalmente i protagonisti del Mondo dell'amore da quello della Vita oscena, proseguono lungo la strada che ci veniva indicata con chiarezza circa venti pagine prima, quella appunto del viaggio iniziatico-merceologico.69 «La dipendenza da pornografia» prova insomma a trasfigurarsi, «da stato patologico, in vocazione metafisica e accesso mistico al Tutto»,70 senza però riuscirci davvero.
All'inizio di questo percorso si trova, infatti, una sorta di visio Christi. Il protagonista si trova in ospedale per le ferite riportate in seguito all'esplosione di una bombola di gas che ha distrutto la casa in cui vive dopo la morte dei genitori. La visione ha all'origine una bottiglia di Coca-Cola di sottomarca, portatagli da una zia in visita.
«Quella bottiglia mi sembrava simile alla vita dei più, di quelli che non ce la fanno, oh quanti, mi portava alla commozione e piansi.
Era da tempo che non mi accadeva. Aveva, quella bottiglia, qualcosa di cristiano, un'imago Christi da poveracci, inconsapevole. Lei aveva fatto la sua ascesi dalla fabbrica ai banconi del discount dove aveva atteso di essere scelta in quanto oggetto di minor valore, in quanto imitazione ma dignitosa, quasi uguale, e si sarebbe manifestata nel suo splendore quando fosse riuscita ad assurgere alla stessa grandiosità del modello, e non ci sarebbe riuscita mai, povera bottiglia, e sarebbe rimasta una merce tra tante. Ma era mia.
Era la mia bottiglia sul comodino dell'ospedale.Sentivo che dovevo prendermene cura.
Sentivo che lei si sarebbe presa cura di me».71
La bibita è dunque un'«imago Christi da poveracci» perché, a dispetto degli sforzi, non potrà mai diventare ciò di cui è copia. E questo è già il finale del romanzo: il percorso di autodegradazione che comincia qui, e che vedrà il protagonista/narratore assumere massicce dosi di cocaina,72 accompagnarsi con prostitute «grass[e] e impresentabil[i]»73 e via dicendo, si risolverà nel fallimento. Il tentativo di suicidio non riuscirà,74 e allo stesso modo non riuscirà la rinascita.
Di questo parla il finale del romanzo, occupato da una visione che comincia nel momento in cui il narratore entra nella portineria del patronato milanese in cui a quel punto vive. Tuttavia, da subito è evidente che il locale in cui entra non è quello per lui reale: «Non so dove fossi, non ero in patronato. Ero quasi in patronato.»75 Si apre insomma uno spiraglio nel velo di maya, che ci consente di vedere «Oltre il vetro della portineria»76 un tavolo su cui si trova stesa la madre del protagonista. La donna, assistita da quattro chierichetti dal volto cangiante (a tratti diventa un teschio) e da «un bambino zoppo, con la faccia da vecchio» intento a spargere incenso da un turibolo, sta per dare alla luce un bambino che il narratore identifica con se stesso.77 Compare anche un travestito, che tiene per mano il protagonista e si trasforma in suo padre; si parla del fatto che «tutto il mondo fosse lì a guardare o semplicemente mi facesse sentire la sua presenza, come cercassero di addossarmi una colpa».78 Di quest'ultima non ci viene data spiegazione, ma si può forse supporre, ricorrendo a uno psicologismo, che abbia a che fare con la morte del padre e della madre di cui il protagonista sembra qui accusarsi.
Si arriva così al problema della nascita che il doppio del narratore non vuole compiere: «non voleva nascere».79 A dispetto di tale volontà il parto avviene, il corpo della madre si dissolve, e la visione si conclude lasciando narratore e doppio uno di fronte all'altro, dai lati opposti di un vetro.
«[...] Tese una mano verso di me.
Voleva toccarmi.
Voleva darmi la mano.Io lo so perché. Lo sapevo.
Ma io non.
Potevo.
Rinascere».80
Benché i motivi psicologici presenti in queste pagine abbiano un peso che non può essere sottovalutato - abbiamo nominato quello della colpa -, il problema centrale attorno a cui ruota la visione, e più in generale il romanzo, rimane quello della rinascita spirituale.
Con il finale ci accorgiamo insomma che il tentativo di imitazione della bottiglia di Coca-Cola è una mise en abyme dell'intero racconto. Anche il narratore compie una sorta di ascesi "merceologica", scende «le scale dell'abiezione»81 aggrappandosi alla cocaina, alla pornografia e al sesso mercenario, fino ad arrivare a pensare «di essere Gesù Cristo [...] un santo»;82 a mettere in discussione il senso dell'io, in modo però diametralmente opposto a quanto proposto dalle filosofie orientali, attraverso appunto la cocaina.83 Un tentativo fallimentare, come detto, su cui in maniera molto differente riflettono anche i versi dell'altro testo del 2010, A schermi di costellazioni. La potenziale immortalità della medusa che dà titolo agli ultimi cinque componimenti, infatti, apre la porta a una serie di considerazioni sul rapporto tra vita (da intendersi come forma finita e temporale) e infinito (da intendersi probabilmente come ātman/brahman).
Per discuterli sarebbero necessari più sofisticati "strumenti vedici", tuttavia ciò che importa qui segnalare è che quello della medusa non è un esempio di rinascita fallita ma di falsa rinascita: il «mistero | che noi chiamiamo vita [...] | [...] inaridisce» nel «gesto»
«elementare dell'eterno vivo: in
filamenti d'acqua alla radice del suo
ritorno è solo un movimento,
chimica differente l'infinito».
Il «ritorno» allo stato pre-sessuale della medusa (la rinascita) è insomma falso, perché altro non sarebbe che processo biologico e non spirituale («chimica differente l'infinito»). Come la medusa anche noi non faremmo altro che tornare perennemente allo stato di gameti («labbra | bagnate 'adesso vengo'»), dando a questo processo un significato e un ruolo che non ha. Dalla medusa, infatti, Nove passa a una riflessione sull'uomo/individuo - «(è questa guerra, l'individuo?)» - dal sapore nietzschiano.
«V
Privato e disperato approssimarsi del
nuovo è l'uomo, vecchio, esacerbato
dai secoli e adesso non più uomo
non più ma l'erosione delle rocce
il mare continua ancòra e il cielo
e ancòra il cielo»84
L'uomo, ci viene detto, non è più oggi tale - forse perché trasformato nella società dei consumi - e questa affermazione chiude il percorso dell'intera raccolta, che era invece cominciato con il desiderio (di probabile ispirazione cristiana) a essere la ferita. Al cristianesimo, si uniscono poi alcune citazioni dal primo libro del Capitale di Marx,85 mostrando ancora una volta che - come era già con Eroina - la spiritualità viene vista come una possibile forma di opposizione al capitalismo e ai suoi effetti.
VI. Scrittori (non) illuminati
Da questo momento in poi, come accennato, la prospettiva adottata nella Vita oscena verrà replicata più di una volta. I due romanzi successivi, Tutta la luce del mondo e Il professore di Viggiù, avranno infatti per protagonista un individuo a cui è preclusa l'esperienza dell'illuminazione o rinascita: il nipote di San Francesco, Picardo, nel primo caso; l'autobiografico Antonello nel secondo. Entrambi saranno impegnati a raccontare di uomini che, al contrario di loro, sono riusciti a raggiungere una qualche forma di illuminazione. Si tratta di una (relativa) stabilità prospettica che, prima ancora di entrare nel merito del problema, ci consente di ribadire il ruolo della Vita oscena: tappa finale della rielaborazione iniziata con Amore mio.
Come appena detto, il primo romanzo in cui la soluzione prospettica della Vita oscena viene replicata è Tutta la luce del mondo. Il romanzo di San Francesco. Ritengo tuttavia sia più interessante leggere il successivo Il professore di Viggiù, perché capace non solo di mostrarci un esempio di reimpiego prospettico, ma anche di chiarie alcune caratteristiche del sistema di credenza di Nove. Inoltre, viene qui "discusso" uno dei problemi da cui siamo partiti, il rapporto cioè tra scrittura e illuminazione, verità. Viene fatto, ancora una volta, attraverso la prospettiva della narrazione, che oppone al professore eponimo un narratore (autobiografico) definito come «nient'altro che "uno scrittore"». Il professore non ha al contrario scritto nulla - non almeno da un certo punto in poi della sua vita - e rientra infatti in un gruppo, quello degli illuminati, caratterizzato proprio dal rifiuto della scrittura: «i veri sapienti non hanno scritto nulla».86 Compare insomma il problema dell'insufficienza della parola, e del suo ambiguo e problematico rapporto con la verità.
È poi importante anche sottolineare che il testo persegue un obbiettivo polemico, di cui si deve tener qui conto. Antonello, infatti, afferma di essere sempre
«stato un appassionato delle mistiche di tutto il mondo e in particolare di quella indiana, anche se i pochi che ancora si ricordano di me continuano a considerarmi uno scrittore "cannibale", cosa che è quanto di più lontano da me possa essere ma che pure mi porto dietro come una pigra, svuotata etichetta, in un paese di deficienti in cui editori e lettori non si sottraggono certo alla demenza, alla povertà mentale e di valori del resto della popolazione per il fatto che leggono o dicono di leggere libri (sarebbe troppo facile)».87
Questa autodescrizione non lascia margine di dubbio, né sul fatto che Antonello venga sviluppato a ridosso della biografia dell'autore stesso, né sugli obiettivi del testo: esplicitare alcune delle caratteristiche della scrittura che, secondo l'autore, non sono mai state capite; giungendo fino al rancore.
È dunque da questa prospettiva che ci viene presentato il professore, uomo dal passato misterioso che in là con gli anni si ritira a vivere a Viggiù. Qui il professore incontra Matteo, panettiere amico d'infanzia del narratore, del quale diventa amico e forse anche maestro. I due, infatti, intrattengono una serie di conversazioni che Matteo ottiene il permesso di trascrivere su un quaderno, purché faccia avere poi il materiale ad Antonello. Proprio dalla consegna del quaderno al narratore, con il quale il professore afferma di avere delle affinità,88 inizia il racconto. Insomma, l'espediente narrativo del manoscritto ritrovato viene qui ibridato con il modello di insegnamento della filosofia antica; con quel dialogo che ancora per Platone era superiore alla scrittura. Potremmo dire, anzi, che venga respinta qui la forma del trattato, quella argomentativa, a cui si preferisce un'esposizione «per metafore e parabole». Questo è l'unico modo attraverso cui, secondo Nove, si può approssimare la fondamentale indicibilità di un vero che la coscienza dei saggi, però, riesce a cogliere: «Il Professore è un "risvegliato" e, come tale, si muove su diversi piani di coscienza, comunque superiore a quello in cui siamo tutt'ora immersi, diciamo a tre dimensioni».89
La scelta del modello "socratico" e il rifiuto della forma trattato, argomentativa, non è insomma casuale. Dando infatti ascolto a Pierre Hadot - riletto da Foucault - ciò che distinguerebbe i rapporti antichi tra soggettività e verità da quelli moderni (dopo Cartesio) sarebbe infatti proprio l'abbandono del modello spirituale del dialogo antico.90 Mi pare dunque possibile leggere la scelta del professore di non scrivere come un indizio importante per capire quale idea di verità venga accolta in questo testo. La verità di cui si parla nel Professore non è, insomma, quella che potremmo raggiungere lungo la via dell'evidenza, ma quella che prevede che il soggetto compia un qualche percorso di ascesi, di trasformazione personale che (forse) lo porterà ad accedere alla verità dell'essere, da cui verrà per contraccolpo ancora una volta modificato.91 Se, dunque, il professore parla facendo ricorso agli strumenti della metafora e della parabola è perché del vero non si può parlare soltanto «per approssimazioni»; il vero infatti è «(uso il lessico induista codificato da Samkara nel 778 d.C.) "neti-neti" ("né questo né quello"), libera dalle costrizioni del principio di non contraddizione.»92 La letteratura può accostarsi a esso - secondo Nove - in maniera parziale, e solo nel modo in cui lo fanno le forme di meditazione (l'AUM): non si può dunque arrivare a possedere una conoscenza razionale, di un campo di oggetti, ma solo approssimativa. Le parole non sono, appunto, sufficienti.
Bisogna a questo punto osservare che, a dispetto di questa insufficienza, Il professore che più di tutti gli altri prova a usare la parola per esplicitare tutta una serie di concezioni ontologiche, come detto anche polemicamente, e a sintetizzare attivamente diverse tradizioni religiose. Il meccanismo che lo permette è, ancora una volta, l'analogia, che consente di affermare che «tutto è uno».93 Accanto a esso compaiono però anche esempi di percezione superiore, di annullamento dell'io, che il testo chiama «coscienza cosmica»94 e che non vengono raggiunti, si noti, attraverso le droghe come ancora era con La vita oscena. Vale poi la pena segnalare anche la comparsa di Plotino,95 uno dei pensatori di riferimento non solo per Nove, ma anche per scrittori come Valerio Evangelisti e Antonio Moresco. Insomma, il problema spirituale, a oggi, non solo è riemerso ma senza dubbio occupa il centro della scrittura di Nove.
VII. In coda, ancora poetiche della preghiera
La definitiva messa al centro della spiritualità, che (ri)emerge con Maria e trova una nuova sistemazione formale con la coppia Vita oscena - A schermi, è ben visibile in tutte le opere pubblicate dopo il 2010. Per fare un altro esempio di che cosa questo significhi si può dire qualcosa a proposito dell'altra opera del 2020, i Poemetti della sera. Abbondano qui infatti i riferimenti al respiro (prana?), e a quella che abbiamo chiamato poetica della preghiera. Nel primo componimento della raccolta, infatti, troviamo proprio la citazione di Celan a cui Nove aveva fatto nell'intervista a cui ci siamo più di una volta rifatti: «una svolta del respiro»,96 che a questo punto potremmo considerare vero e proprio leitmotiv delle riflessioni poetiche di Nove.97 Le occorrenze di 'respiro' sono qui infatti numerosissime, e numerosi sono i componimenti in cui si riflette su concezioni cicliche del cosmo e della vita; sullo spogliarsi dell'io; sul fatto che le forme altro non siano che «illusione» e tutta una serie di ibridi tra concezioni occidentali e orientali a cui ormai ci siamo abituati. Volendo fare un esempio, si può forse indicare L'attimo azzurro, al cui centro si pone un'esperienza mistica, oppure la Fine del mondo, in cui si invoca una scienza che affronti lo studio delle cose accogliendo i principi induisti - «la natura, ossia la musica» - e che abbia in mente la «salvezza.»98 Insomma, ancora un esempio del fatto che si può percorrere il cosmo, dall'alto in basso, facendo uso ad alcuni principi di corrispondenza, che ci permettono di tenere insieme scienza, simboli e concetti provenienti da diverse tradizioni religiose.
Nel recentissimo Malebolge poi - il testo raccoglie brevi interventi pubblicati su «Avvenire» - la riflessione dà per scontato il sistema di riferimento e assume toni quasi violenti, di accusa del "malcostume contemporaneo"; non dissimili da quelli tenuti dall'autore sui social network. Tra i testi raccolti in Malebolge quello per noi più interessante è probabilmente quello intitolato Ciò che ci salva, e datato 5 giugno 2020. Qui, infatti, possiamo leggere una dichiarazione di poetica, che ricalca in parte quella contenuta nell'intervista da cui eravamo partiti, e in cui leggiamo che la poesia è «come la preghiera».
«Mi viene chiesto praticamente sempre, ogni volta che mi trovo a parlare di poesia, il mio primo amore, se "La poesia salva la vita". La domanda, ormai diventata più una frase fatta da adoperare obbligatoriamente in certi contesti, è estremamente imbarazzante. Da parte mia rispondo che no, la poesia non salva la vita. Allora avverto delusione, e spesso, da poeta, mi sono sentito come un parroco che smentisce la fede cristiana. Ma ecco il punto. La poesia, la sua tradizione, le sue innovazioni, le sue provocazioni, hanno in comune una traccia di quanto san Giovanni, all'inizio del suo Vangelo, enuncia in unità con Dio. In questo, ci fornisce le coordinate, attraverso una lunga pratica, per avvicinarci a una Salvezza che non è mai solo parola. Tanto che grande è la sequenza di poeti della massima caratura che ne hanno diffidato, o che l'hanno praticata con amore ma anche con sospetto. Possiamo dire quindi che alla poesia manca qualcosa per salvarci, ma quel qualcosa è massimamente esperta a indicarcelo. Per questo la sua pratica è, come la preghiera, sì salvifica, ma non sufficiente».99
La poesia - potremmo estendere: la letteratura - come la preghiera ci indicherebbe la strada verso la salvezza, ma non basterebbe da sola. Si tratta di un'insufficienza che è però tutt'altro che negativa. Potremmo anzi dire che grazie a essa sia in qualche modo possibile sfuggire alle impasse del postmodernismo, rivendicando una verità che si colloca su un piano di senso altro, non riducibile al linguaggio. Una sorta di teologia negativa, insomma, che supera il linguistic turn senza negarlo.
«Non è stato, prima, il
linguaggio e non è dato
dirlo».100
VIII. Scritture postsecolari
Il caso di Nove non è isolato, né nel panorama nazionale né in quello internazionale. Lo studio del diffondersi di motivi spirituali nella letteratura Nordamericana è, per esempio, già stato affrontato da John McClure. Nel suo Partial Faiths (2007), in cui affronta lo studio di alcune opere di Don DeLillo, Thomas Pynchon, Toni Morrison e altri, McClure propone anzi di parlare di postsecular fiction.
«This body of fiction can be called "postsecular", for several reasons: because the stories it tells trace the turn of secular-minded characters back toward the religious; because its ontological signature is a religiously inflected disruption of secular constructions of the real; and because its ideological signature is the rearticulation of a dramatically "weakened" religiosity with secular, progressive values and projects».101
La definizione di McClure non è tuttavia adatta ad aver ragione della casistica italiana, per il semplice motivo che molte delle opere contemporanee in cui compaiono questo tipo di problematiche, in Italia, non sono fiction. Se l'adottassimo, non potremmo insomma muoverci agevolmente tra le scritture di cui, invece, vorremmo poter parlare. Inoltre, benché McClure parli di "impegno" nel suo studio - lo fa leggendolo attraverso Herbert Marcuse, Toni Negri e altri102 - gli dedica uno spazio forse non commisurato alla situazione italiana, da cui pure provengono alcuni dei suoi strumenti.
Ritengo dunque necessario proporre una definizione alternativa, capace di superare in qualche modo i "limiti" di quella di McClure. Propongo allora di parlare di scritture postsecolari, definizione di lavoro che prima ancora di essere categorizzazione mira a farsi strumento, utile per muoversi sul terreno accidentato delle spiritualità contemporanee. Di questa definizione ho già altrove proposto una prima versione, che mi pare di poter perfezionare come segue:
«sono scritture postsecolari tutte le opere in cui il raggiungimento di un vero di ordine spirituale è presentato come possibile, e in cui è possibile individuare in tutto o in parte una linea che dal vero passa per la parola e arriva alle condotte. A meno che tale possibilità non possa venir ricondotta alla logica del genere o a quella del gioco, e sia nel caso in cui il testo venga concettualizzato come una forma di preghiera, che può o meno risolversi nel tentativo di condurre, sia nel caso in cui vero e condotte compaiano soltanto. Si intenda spirituale secondo la schematizzazione foucaultiana e la collocazione storico-sociologica contemporanea; condurre come il tentativo di guidare gli altri e sé; gioco come "a theoretical description of a universe"».103
Per tutte le ragioni viste fino a qui, ritengo che tra queste scritture postsecolari si possano collocare anche le opere di Nove. Non mi pare possano esserci dubbi sulla presenza, e anzi sulla centralità, di una spiritualità che abbiamo visto essere sincretica, e frutto della ricerca personale. Questa spiritualità non è, del resto, in alcun modo riducibile alla logica del genere a cui le opere appartengono, né è pensabile come "semplice" creazione giocosa. Abbiamo poi più di una volta discusso le riflessioni di Nove sul rapporto tra vero e parola, anzi da qui siamo partiti. Possiamo ora anche dire che la sua concezione del rapporto è differente da quella altri autori contemporanei. Spesso, infatti, chi lega insieme vero spirituale e parola arriva a pensare alla letteratura come a uno strumento di modifica delle condotte degli altri, o della propria. Qui, però. non possiamo fare altro che indicare la diffrazione esistente attorno a "parola e verità", rimandando i chiarimenti a pubblicazioni future.
Colgo l'occasione per ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato nel complicato processo di raccolta dei materiali utilizzati per la stesura di questo articolo. Oggi, infatti, molte delle opere di Nove sono difficili o addirittura difficilissime da reperire, a dispetto della loro non troppo lontana pubblicazione. Ringrazio dunque (in ordine sparso) Marco Drago di «Maltese
Narrazioni», Raul Montanari, Chiara Malvestio, la redazione di «Poesia», il Centro Studi Movimenti di Parma.
Per approfondimenti, si rimanda a un saggio di portata più ampia e di prossima pubblicazione, che si intitolerà Scritture postesecolari. Ipotesi su verità e spiritualità nella narrativa italiana contemporanea.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2022
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gennaio-maggio 2022, n. 1-2