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Massimiliano Tortora
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"
Raccontare solo il conoscibile: «Gli indifferenti» di Alberto Moravia
Sommario
I. «Gli indifferenti» come momento di svolta
È opinione critica ormai condivisa quella secondo cui Gli indifferenti rappresenta un vero e proprio turning point nella storia del romanzo italiano e della narrativa in genere. Nonostante siano state di volta in volta fornite periodizzazioni differenti, c'è una certa convergenza nell'interpretare l'opera di Moravia come l'atto simbolico con cui si chiude la stagione modernista, o almeno - per dirla con un eccesso di retorica - la fase "eroica" del modernismo,1 e si apre il trentennio all'insegna della narrativa realistica (fino al '63, sempre per individuare date simboliche, ma non prive di sostanza e di significato).
Certamente, se confrontato con La coscienza di Zeno (per tacere di Joyce o Proust), un romanzo come Gli indifferenti colpisce per la linearità della trama, l'attendibilità del narratore, la concretezza del mondo rappresentato (ossia la referenzialità delle descrizioni), la sintesi e non l'analisi della vita interiore, l'adozione di un italiano standard. Sono elementi questi che, con inevitabili varianti, contraddistinguono anche la produzione di Alvaro, Soldati, Bernari, Brancati, Silone.2
Ovviamente il cambio di passo è influenzato anche da altri fattori, oltre quelli più squisitamente estetici. In primo luogo ha giocato un ruolo essenziale il cambio generazionale: nel '28 muore Svevo, tre anni dopo che Pirandello ha scritto il suo ultimo romanzo, mentre Tozzi - che pure gode di una sua ricezione tra le due guerre - è scomparso già nel '20. E soprattutto a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta esordiscono nuovi scrittori: oltre a quelli già citati (Alvaro, Silone, Brancati, ecc.), che certamente sono più vicini al modello moraviano, vi sono Vittorini, Morante, Pavese, Buzzati, Masino.3 È chiaro insomma che la schiera dei modernisti e decadentisti, nata tra il 1860 e il 1880, viene sostituita da una nuova generazione di giovanissimi nati per lo più a inizio secolo (fa eccezione Alvaro - 1895 - che però ha avuto una carriera sui generis, particolarmente segnata da un complicato rapporto col fascismo).4 Il cambio generazionale, poi, è agevolato dal regime, che ha già tra le sue parole d'ordine la "giovinezza", e dunque promuove quella che possiamo chiamare la nuova narrativa. Ovviamente è implicito nella politica culturale del regime un messaggio palingenetico, nonché l'obiettivo di creare discontinuità con la precedenza produzione primonovecentesca, letta come manifestazione di debolezza e di immoralità. Infine contribuisce al cambio di guardia il mercato editoriale. Come ha a suo tempo mostrato con puntualità Alberto Cadioli, è proprio dalla seconda metà degli anni Venti che le vendite del "prodotto-romanzo" aumentano, e il loro incremento, fatta eccezione per il periodo postbellico ('45-'51), continua fino agli anni Sessanta: quando insomma anche la narrativa rifiuta il suo statuto di racconto e istituisce modelli sperimentali, colti e sostanzialmente d'élite.5
Se ne ricava che Gli indifferenti di Moravia si colloca all'alba di una nuova fase: quella che possiamo definire della cultura romanzesca. Il lettore comune, infatti, ha uno status sociale più variegato rispetto al passato (più basso per intenderci) e non riconosce più, come ancora accadeva negli anni Venti, alla poesia il primato assoluto tra le varie forme di espressione letteraria. Nel sistema e nella gerarchia dei generi dunque il romanzo si svincola da subalternità e deficit di prestigio, e si offre al lettore senza ulteriori giustificazioni. Inoltre proprio la passata stagione modernista ha dimostrato che l'opera romanzesca può essere difficile e complessa, e dunque colta ed elaborata. Moravia raccoglie i frutti di questo cammino, e può pertanto scrivere un romanzo più leggibile, per un pubblico più ampio, senza cadere nel commerciale e nel facile. Apre davvero la stagione del "libro per tutti".6
Naturalmente il modernismo non chiude i battenti da un giorno all'altro, e continua a essere pervasivo anche per i più giovani narratori. I quali, però, non hanno più l'ebbrezza della scoperta di un «mondo nuovo»,7 come accadeva a Svevo e Pirandello, ma danno per scontati alcuni presupposti: relatività del mondo, frattura tra teoria e prassi o tra pensiero e azione, multiprospettivismo, importanza della vita psichica, rilevanza dei dettagli. Insomma Moravia e gli altri non puntano a riformulare l'essenza del personaggio e di conseguenza del suo mondo, ma solo la sua rappresentazione. Come ha efficacemente sostenuto Stefano Guerriero:
«Con accenti debenedettiani, Moravia si rende conto che "evidentemente questa crisi del personaggio corrisponde ad una simile crisi del concetto dell'uomo" (ivi): da qui riparte nella sua opera - e con lui i nuovi narratori della sua generazione. Naturalmente non si tratta di una restaurazione, ma piuttosto della metabolizzazione di quanto di nuovo il modernismo ha portato. Siamo ormai in una fase diversa: anche il modernismo sta diventando tradizione».8
Ecco, con Gli indifferenti di Moravia si apre quella stagione realistica che non taglia i ponti col passato: il modernismo non viene sfiduciato, ma diventa appunto «tradizione» introiettata, che non necessita mediazioni e spiegazioni. E tutto ciò avviene per chi scrive, ma, elemento ancora più decisivo, anche per chi legge. Moravia infatti sa di poter contare su un lettore che è stato contagiato da Joyce e Svevo (indipendentemente dalla sua lettura diretta) e che dunque non deve essere istruito sulle dinamiche psichiche del personaggio. Per questo motivo nel suo romanzo d'esordio - così non sarà nel fallito Le ambizioni sbagliate, nonostante gli obiettivi siano gli stessi - le istanze realistiche, ossia il patto di lettura all'insegna di una parola referenziale e attendibile, si coniuga con una visione del mondo ampiamente novecentesca: quella istituita dal modernismo.9
II. Il patto di lettura
Rileggendo a tappeto il romanzo, con l'ottica di indagare il funzionamento della macchina narrativa, e in maniera particolare le regole che governano la voce narrante, si ricavano dati che confermano una matrice realistica.
Il narratore infatti non cade mai in contraddizione o si rivela bugiardo - come invece accade in Svevo e Pirandello -, né mostra titubanze che rivelano una sua insufficiente conoscenza per quanto concerne gli eventi accaduti: domina perfettamente l'universo diegetico ed è in grado di guidare il lettore con sicurezza nei meandri della villa. Inoltre, invertendo la tendenza modernista che prevedeva per lo più una focalizzazione fissa (anche imposta da un narratore omodiegetico - Uno, nessuno e centomila - e per lo più scrivente: Il fu Mattia Pascal, I quaderni di Serafino Gubbio, La coscienza di Zeno, Ricordi di un giovane impiegato), Moravia adotta un narratore che gode il privilegio di una focalizzazione zero, che spesso si autolimita nelle forme della focalizzazione multipla o alternata: è pertanto in grado di vedere il mondo con gli occhi di tutti i personaggi, ma anche di leggere nei pensieri di Michele, Carla, Leo, Maria Grazia, Lisa. Torneremo tra poco su questo punto; per ora sia sufficiente sottolineare che un narratore di questo tipo pretende e ottiene immediatamente la fiducia incondizionata del lettore. Il patto tra chi racconta e chi legge è dunque all'insegna della verità. Detto più direttamente, stabilite le regole del gioco narrativo, quanto raccontato nel romanzo è vero.
Il patto di fiducia così saldo rende attendibile anche la mimesis del mondo extradiegetico. Gli indifferenti, per motivi che sono sin troppo evidenti, è un affresco sociale della decadente e lasciva borghesia romana sotto il fascismo.10 Il mondo degli inganni economici, dei tradimenti per fini carrieristici, il moralismo di facciata vengono offerti come rappresentazioni fedeli del mondo contemporaneo. E il coefficiente di realismo è ulteriormente avvalorato dal rapido e chirurgico squarcio sugli oggetti e sui luoghi: il night dove i personaggi passano la serata, le automobili che usano, il palazzo in cui vive Leo così come la casa ormai malandata, ma un tempo elegante, di Lisa. Non solo, ma anche gli abiti contribuiscono a rendere il mondo de Gli indifferenti rappresentativo di quello romano tra le due guerre: denotano infatti una cura un po' vanitosa, frivola, e certamente curata.
In ogni caso la descrizione dei vestiti - al pari di quanto accade con gli oggetti in generale e spesso anche con i personaggi - non concerne mai tutto l'insieme, ma si sofferma solo su alcuni piccoli dettagli, che si impongono all'attenzione del lettore. Ad esempio nell'incipit Carla non indossa un abito, ma «un vestitino di lanetta marrone»,11 mentre il completo di Michele, sempre nel primo capitolo, non è di un sarto, ma di «Nino»;12 allo stesso modo Lisa ha «bianchi i mobili […] rosei i tappeti [...] una piccola biblioteca dai libri multicolori […] fiori smilzi sulle mensole laccate».13 L'esibizione del particolare, che non sarebbe così visibile se non fosse accompagnato dal silenzio sul resto della scena, ha lo scopo di conferire maggiore autorità alla voce narrante, la quale si configura come un'autorità che, se può riferire addirittura di aspetti minimi, probabilmente domina e conosce l'intero universo diegetico, e che tace su ciò che non è rilevante. E probabilmente è così. O almeno è questa la percezione che ha il lettore.
III. Raccontare la realtà in mondo cambiato: la condizione modernista introiettata
Eppure, così come è opinione condivisa da molti quella secondo cui Gli indifferenti apra una nuova stagione narrativa, è altrettanto sostenuta, spesso non in termini oppositivi, la tesi che riconduce la prima opera moraviana alla temperie primonovecentesca.14 È una delle tante aporie che sono nate attorno al dibattito modernista. Tuttavia, anziché ragionare in termini di aut aut, è più proficuo impostare il discorso sul piano dell'evoluzione culturale. Ciò che era sorprendente e rivoluzionario per gli scrittori degli anni Sessanta - come Svevo e Pirandello - è ormai scontato per chi è nato all'inizio del XX secolo: anche grazie a opere come Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno. Che sia tramontato ogni punto di vista oggettivo e marmoreamente veritiero non è più oggetto di discussione; così come la consapevolezza che vi sia un inconscio che spinge l'io verso esigenze profonde che sfuggono allo stesso soggetto è ormai sapere comune. Lo scrittore esordiente degli anni Venti e Trenta non deve più giustificare questi concetti e li può considerare un orizzonte condiviso.
Non solo, ma, come implicitamente suggerito prima, proprio perché vi è stata la grande stagione modernista di Joyce, Proust, Woolf, Svevo, Kafka e Pirandello, l'esordiente del 1929 può contare su un lettore più preparato e colto: un lettore che ha già vissuto, nelle pagine dei maestri di inizio secolo, un mondo che ha perso ogni baricentro stabile e messo in scacco da un relativismo imperante. Pertanto, da un'ottica specificamente modernista, il compito di Moravia è più semplice: non deve più costruire "il lettore modernista" così come aveva dovuto fare Svevo (ancor più di Pirandello). Tra chi scrive e chi legge vi è ormai una comune visione del mondo, che rende superflui molti discorsi.
Liberatosi dal fardello di dover rappresentare le inspiegabili contraddizioni dell'io e la soggettività di qualsiasi interpretazione del mondo,15 l'esordiente del 1929 può tornare al mondo concreto, tangibile, materiale; quel nocciolo duro della realtà, che rende in ogni caso quello in cui viviamo un mondo comune. Al tempo stesso, all'interno di questo strato condiviso di realtà, occorre mostrare tutte le incongruenze che sono tipiche di quella condizione modernista, che è deflagrata all'inizio del Novecento e che ha caratterizzato, con temperature diverse, tutto il secolo. E Moravia non esita a disseminare il suo testo di tracce moderniste, senza appunto sottoporle allo scandaglio analitico a cui si sarebbe abbandonato Svevo.
IV. L'alternanza dei punti di vista
L'elemento strutturale in cui Moravia fa convergere coscienza modernista ormai acquisita - un'antropologia modernista potremmo dire - e racconto realistico, senza che questi due fattori entrino più in rotta di collisione e si amalgamino invece congiuntamente, è il narratore.
Il narratore de Gli indifferenti, anche per i motivi rapidamente già chiamati in causa, stringe con il lettore un patto di fiducia all'insegna di una narrazione realistica e veritiera. Infatti nomina con precisione gli oggetti e, sia pure con un principio metonimico,16 li descrive in alcuni dettagli; dimostra inoltre di conoscere i pensieri dei personaggi, può abitare ottocentescamente qualsiasi luogo e tempo della narrazione, e ha sensibilità per la realtà sociale. Inoltre corrobora la "sensazione del vero" anche la temporalità lineare: nel testo infatti non si registrano analessi e prolessi, e i tre giorni scorrono - oltretutto con una velocità abbastanza costante (fatta eccezione per il XV capitolo, dedicato alle fantasie di Michele) - con un ritmo che emula e mima il reale tempo umano e cronologico. Anche i pensieri dei personaggi, da quelli iniziali di Carla che vuole rovinare tutto a quelli anche più articolati di Michele (sempre nel capitolo in cui immagina il processo dopo l'omicidio di Leo), nell'anticipare l'esito, finiscono per stabilire la fine, proiettando dunque tutta la storia verso la conclusione.17 Acuiscono pertanto la percezione lineare del tempo.
Tuttavia questa robusta impalcatura realistica accoglie in sé procedimenti che smentiscono l'oggettività, che a una prima lettura sembra assoluta. In modo particolare non deve sfuggire come, sebbene la voce rimanga sempre del narratore, il punto di vista cambi continuamente, senza alcuna segnalazione. È sufficiente leggere il celeberrimo incipit:
«Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l'uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un'oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.
"Mamma sta vestendosi", ella disse avvicinandosi "e verrà giù tra poco"».18
Se si legge con attenzione questo passo si nota come all'interno di un capoverso completamente gestito dal narratore, e con un lapidario incipit che denota da subito l'oggettività del racconto («Entrò Carla;»), si mischiano tre punti di vista. La descrizione di Carla, infatti, non è affatto imparziale e nemmeno denotativa. La ragazza infatti viene tratteggiata così come la vede Leo in quel momento: è dell'uomo il punto di vista. Ed è lui a notare, di tutti gli aspetti che potrebbero essere evidenziati, la «gonna […] corta», il «vestitino di lanetta», «le pieghe lente» delle calze. Eppure, ed è fondamentale ricordarlo, in questo momento del romanzo il lettore non sa nulla di chi sia Carla, della sua età, della situazione, e nemmeno del luogo ove si svolge l'azione. Un ipotetico narratore tradizionale - ammesso che esista davvero un simile narratore - avrebbe dovuto comunque fornire altre informazioni, da cui invece il lettore viene escluso.
Esaurita la parziale e metonimica rappresentazione di Carla, vi è un lieve passaggio oggettivo e referenziale, da ricondurre all'ottica neutra del narratore («ma ella … malsicura»). Tuttavia anche in questo caso i conti non tornano pienamente, e vi è qualche passaggio saltato. L'espressione «ma non se ne accorse» non è infatti totalmente giustificabile: da un punto di vista sintattico l'avversativa riferisce che la ragazza non si accorse che la gonna era salita. Ma chiaramente un'informazione di questo tipo implica - quando ancora il lettore non sa che a osservare ci sia Leo - che la ragazza deve difendersi da occhi indiscreti, altrimenti non avrebbe ragione di preoccuparsi di una gonna alzata sopra il ginocchio. In altre parole il «ma non se ne accorse» sembra voler anche dire che Carla non si avvide che Leo la osservava e aveva scorto il lembo di gamba scoperto. L'oggettività del narratore, dunque, rimanda all'occhio osservatore che ha guidato la focalizzazione poco prima. Inoltre un solo segmento di frase - non siamo ancora arrivati al punto finale del lungo periodo - ha schiacciato la prima immagine di Carla sulla gamba furtivamente scorta: ha insomma inserito sin dalla prima riga un coefficiente erotico, che, posto come mossa di apertura, vincola il lettore per tutta l'opera. In altre parole, ciò che qui si intende sostenere è che attraverso un rapido passaggio, inserito nella posizione strategica e privilegiata di apertura, si costruisce un orizzonte di attesa di tipo sessuale, e di una sessualità non pacificata, ma rapita, rubata, saccheggiata. Il narratore non ha bisogno di dire nulla, e si limita a evidenziare un particolare, ponendolo in primo piano, e riproducendo dunque la medesima cupidigia di Leo. Non sappiamo se, al momento della creazione, Moravia immagini un pubblico maschile, né disponiamo in questo momento i dati sui lettori reali: ma certamente il lettore, tanto più se di sesso maschile, si trova ad abitare in quella frase apparentemente oggettiva, e che invece produce il punto di vista di Leo, il fremito di desiderio dell'uomo che sbircia, si appropria indebitamente di immagini, vive una sessualità che non gli spetta. Ed è proprio di questo sguardo fagocitante che Carla non si accorge. Inoltre questo meccanismo iniziale, e non dichiarato, fa sì che il lettore arrivi preparato a fine pagina, quando Leo, con la terribile espressione di «bella bambina», si avvicina con «libidine» alla figlia dell'amante, e poi poco più tardi l'attira tirandole ancora una volta la gonna. La gonna, sia detto per inciso, così come le altre parti del corpo erotizzate (gambe, seno, collo) viene continuamente menzionata, così da istituire una dorsale nel romanzo, ovvero un eros costante e continuo, permeante anche le scene estranee a dinamiche di seduzione e di accoppiamento.
Proseguendo nell'analisi dell'incipit, dopo la sequenza di punto di vista del narratore («Entrò Carla;»), di Leo («aveva indossato … gambe»), ancora del narratore («ma ella non se ne accorse … malsicura»), segue il punto di vista della ragazza: il lettore osserva con gli occhi di Carla. E vede, appunto, «una sola lampada», «Leo», e il resto del salotto in «un'oscurità grigia». In fondo con questo passaggio Moravia riesce a fornire uno schizzo del salotto, che da subito ha una fisionomia borghese, essendo fornito di lampade, di divani e di una metratura che non può essere illuminata da un'unica fonte di luce, ed abitato da una donna (non sappiamo ancora che è una ragazza) che ha calze e un abito curato.
Così ricostruita, la scena alterna elementi realistici (il luogo in cui si svolge l'azione) a rappresentazioni del tutto soggettive, che riproducono unicamente il punto di vista dei personaggi. Ma non è un sabotaggio al realismo e all'oggettività. Il fatto è che Moravia, che comunque scrive per un pubblico post-sveviano, sa di poter contare su un lettore senza più alcuna fiducia nell'oggettività, e consapevole che ogni rappresentazione è sempre parziale e soggettiva. Per questo motivo Moravia alterna visioni dall'alto - su quei dati concreti che sembrano meno sottoposti all'interpretazione - con lacerti assolutamente parziali. Chi legge assume come oggettivo ed equamente distanziato ciò che invece è un rimbalzo di punti di vista, con un procedimento di tipo cubista. Ma in fondo il lettore modernista de Gli indifferenti ha da tempo mandato in pensione la fiducia nella visione pura, oggettiva e imparziale del mondo; e non è disposto a ritornarvi nemmeno con un narratore (apparentemente) ottocentesco. Dà insomma per scontato che ogni rappresentazione è frutto di un punto di vista parziale e soggettivo: e quei punti di vista parziali e soggettivi vengono gettati nel romanzo, senza che - il più delle volte - vi sia un chiaro e netto segnale di soglia.
V. L'esibito monostilismo
La supposta (perché strutturale) superiorità del narratore è disinnescata anche da un procedimento linguistico. Non c'è qui lo spazio per un'analisi stilistica del romanzo, ma è abbastanza evidente che il narratore utilizza lo stesso linguaggio dei suoi personaggi: l'italiano standard, con alcuni forestierismi volti a impreziosire socialmente l'eloquio. La sintassi, sia per i personaggi che per il narratore, è tendenzialmente semplice, costruendosi raramente con subordinate di secondo grado. Anche il lessico non è molto ricercato, ma al tempo stesso mai sciatto. Colpisce però che anche il narratore - che costituisce il polo più razionale e meno interessato del multiprospettivismo moraviano - si abbandona a formule retoriche abusate e goffamente nobilitanti. Già nel primo capitolo troviamo diverse similitudini, che riproducono il modus parlandi dei personaggi, volto a un'eleganza cercata e non trovata: «queste rapide idee erano come lucidi lampi nella tempesta della sua libidine»; «la fanciulla ricevette quell'occhiata inespressiva e pesante come un urto che fece crollare in pezzi il suo stupore di vetro»; «ma ne era certa come del sole che avrebbe brillato all'indomani e della notte che l'avrebbe seguito» (ma qui potrebbe essere indiretto libero); «Fu come se avesse dato fuoco a una miccia accuratamente preparata». Sono espressioni abusate, vagamente letterarieggianti, ad alto contenuto visivo, ma che in realtà non aggiungono nulla, e duplicano solo quel vuoto cicaleggio che è tipico dei personaggi. In questo modo, oltre a creare un mondo claustrofobico in cui non ci sono alternative alle prospettive dei personaggi, Moravia declassa il suo narratore. Accostandolo a Leo, a Maria Grazia e a tutti gli altri, lo rende ugualmente debole, inaffidabile, immorale: in fondo il narratore appartiene - come il linguaggio dimostra - al mondo che sta descrivendo; e dunque non può che manifestarne (anche linguisticamente) i valori.
VI. Un romanzo di voci
Nel gioco di opacizzazione della verità, e di pari passo, come vedremo, della sua cristallizzazione, un ruolo decisivo - sempre gestito dal narratore - è rivestito dalla vocalità del romanzo. Che Gli indifferenti sia stato pensato come una pièce (una tragedia mancata)19 è storia nota:20 e una delle tracce più evidenti di questa impostazione teatrale si trova nel dilagante discorso diretto, di cui il romanzo visibilmente abbonda. Ebbene, proprio le battute di dialogo (che peraltro rinforzano la temporalità lineare e la netta corrispondenza tra tempo di lettura e tempo del racconto) impongono al lettore - al suo orecchio mentale potremmo dire - le voci dei personaggi. Chi legge dunque ascolta i botta e risposta tra Michele, Carla, Leo, Maria Grazia e Lisa, e con le loro parole, pronunciate, si deve confrontare. Non solo, ma anche l'introspezione psicologica è declinata secondo un discorsivo monologo interiore, articolato logicamente e narrativamente: si pensi sempre al XV capitolo (il processo immaginato), o alle fantasie di Lisa mentre aspetta Michele e crede di conquistarlo facilmente (V capitolo). Ma anche i passaggi più rapidi portano a una formulazione di frasi, spesso riportate attraverso un discorso diretto («"Vediamo", pensò [Michele], "si tratta di Carla, di mia sorella"»),21 così come i sogni - il riferimento è a quello di Maria Grazia - vengono riferiti in un discorso diurno (da svegli, nella riformulazione di chi l'ha compiuto).22
Pertanto il lettore - che pure può attraverso il narratore abitare la mente dei personaggi, spostarsi da un luogo a un altro senza problemi, non rischiare colpi di scena per particolari precedenti non rivelati - è costretto a confrontarsi costantemente con un mondo di parole. È esattamente quello che accade ne La coscienza, in cui per quanto cerchiamo di arrivare alla verità, siamo fermati dalla scrittura di Zeno, oltre la quale non si può andare. Ma mentre Svevo mette in moto una tenace lotta per muoversi all'interno delle parole (e con lui chi legge; anzi quest'ultimo in forma ancora maggiore), Moravia invece non concede altro spazio che ai discorsi. Sicché il lettore è gettato in un mondo di voci23, e più precisamente in un modo di parole e di oggetti.24
È questa l'unica realtà conoscibile, e pertanto anche l'unica realtà. Ma Moravia e i suoi lettori, già consci della condizione modernista in cui sono calati, sanno anche che c'è un oltre, e che questo oltre - come hanno insegnato Joyce e Svevo - non può essere conosciuto. E non essendo conoscibile, almeno nei romanzi, può non essere indagato: si ritorna così al mondo di parole e di oggetti. È davvero un cane che si morda la coda. Ma con Gli indifferenti, Moravia, la coda (ciò che sta dietro la realtà fattuale) la taglia per sempre. Rimane solo il corpo: ed è il corpo (oggetti, azioni, parole) ciò che viene raccontato dalla narrativa italiana a partire dal 1929: anno in cui il primo romanzo moraviano mette fine alla «fiera» psicologica. Inizia l'era del romanzo realistico.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2022
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gennaio-maggio 2022, n. 1-2
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