Sara Teresa Russo
Università degli Studi di Pisa

Le riscritture sceniche de «Gli indifferenti» tra Francia e Italia

 

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La riduzione de Gli indifferenti, scritta nel 1944 e pubblicata nel 1947 su «Sipario. Rassegna mensile dello spettacolo»,1 è uno dei primi tentativi di scrittura per la scena di Moravia: pur non essendo un prodotto completamente autonomo, in quanto redatta in collaborazione con Luigi Squarzina, e malgrado mostri i limiti di una prova acerba, contiene elementi utili a mettere a fuoco la sua poetica teatrale.
È evidente fin dagli anni Venti il rapporto di grande complessità che l'autore romano instaura fra narrativa e drammaturgia: la contaminazione continua di forme e contenuti accompagnerà tutta la sua carriera a partire dai primi due copioni, rispettivamente rielaborazioni de Gli indifferenti e La mascherata (bisognerà aspettare il 1955 con la Beatrice Cenci per leggere una tragedia priva di un referente romanzesco alle spalle).
Nel periodo tra il 1928 e il 1944 Moravia matura un interesse sempre più spiccato per il teatro, tanto da comporre numerosi articoli che dimostrano una progressiva acquisizione di consapevolezza di questa forma espressiva. Risalgono agli anni Trenta Il teatro comico2 (1934), La tragedia3 (1935), A teatro con i cinesi4 (1937), Il teatro di Epidauro5 (1939); negli anni Quaranta escono invece il breve saggio Teatro e cinema6 (1942) e Contro il teatro di poesia7 (1947).
Dopo l'atto unico Dialogo tra Amleto e il principe di Danimarca del 1928, che degli Indifferenti rappresenta una sorta di ipotesto, Moravia torna alla scrittura drammatica sedici anni dopo con il lavoro di traduzione del primo romanzo. Il testo fu commissionato dalla casa di produzione cinematografica «Lux Film», che inizialmente aveva espresso l'intenzione di trarre una pellicola da Gli indifferenti. Non possiamo definire con certezza quanta parte ebbe nella riduzione Luigi Squarzina, appena diplomato all'Accademia d'Arte drammatica,8 dal momento che Moravia non ci ha lasciato alcuna testimonianza del lavoro di cooperazione. Possiamo affidarci solo alle ingenerose dichiarazioni del regista9 interpellato da Aline Nari a proposito di questa esperienza creativa a quattro mani:

«Con mio grande stupore mi fu proposto [...] di affiancarmi a Moravia, anzi di portare il mio contributo a Moravia, che di teatro non ne sapeva niente - non vorrei dire che Moravia era un pessimo autore teatrale, ma si potrebbe anche dirlo. [...] e lavorammo abbastanza. Il romanzo si presta facilmente a una riduzione e decidemmo insieme i tagli scenici e la struttura e poi praticamente lavorai solo io sul testo. Ci mettemmo d'accordo per esempio che bisognava mantenere il lungo monologo dei pensieri del ragazzo sulle scale».10

Sarebbe un errore liquidare il testo come una semplice operazione di trascrizione meccanica nella quale Moravia abbia avuto un ruolo del tutto marginale. È possibile infatti riscontrare un primo tentativo di concretizzazione scenica delle teorie intorno all'arte teatrale elaborate dall'autore di Agostino proprio in quegli anni.
Questa del 1944 non è però la prima riscrittura scenica del romanzo poiché tra il 1937 e il 1938 Paul Vialar11 compone Les indiffeérents, pieéce en 5 tableaux d'apreés le roman de Moravia12 dietro la proposta di Paulette Pax cui il dramma è dedicato.
Possiamo, con un buon margine di certezza, azzardare l'ipotesi che Moravia conoscesse il testo di Vialar e che avesse assistito al debutto parigino fra gennaio e febbraio 1938 al Théâtre de l'Oeuvre.13 Per comprovare tale supposizione giungono in ausilio da una parte l'analisi comparata del copione francese con quello italiano, dall'altra la testimonianza di Elsa Morante che, da pochi mesi compagna di Moravia, in un significativo passaggio del suo diario ne annuncia l'imminente partenza nel febbraio 1938: «Lui è celebre e ricco fra pochi giorni va a Parigi [...] per il suo trionfo attuale e io?».14
Confrontando i due drammi appare innegabile la coincidenza di una serie di scelte che riguardano sia la struttura d'insieme che la costruzione dei dialoghi; molti dei tagli e delle inversioni dei capitoli del romanzo adottati dallo scrittore francese saranno riproposti nell'adattamento del 1944. C'è un'evidente corrispondenza che investe soprattutto alcune operazioni di condensazione e accostamento di brani che nel romanzo sono invece lontani: nei due copioni è ad esempio gestita nello stesso modo la lite fra Michele e Leo durante il pranzo di compleanno di Carla, e uguale è anche la gestione dello spazio scenico della prima parte, concentrata nel salotto di casa Ardengo.
Sussiste però uno scarto fondamentale fra i testi in quanto Vialar si attiene a una traduzione pedissequa che esplicita, nel confronto intersoggettivo, le dinamiche interne alla coscienza dei personaggi mentre i due autori italiani, nella seconda parte dell'opera, ricorrono a un'ardita e articolata rappresentazione della fantasticheria di Michele, scardinando i principi che regolano il teatro tradizionale.
Quando Squarzina sostiene che il romanzo si presta facilmente a una riduzione, certo non ha torto perché Moravia, il cui proposito era quello di concepire una tragedia in forma di romanzo,15 aveva lavorato su pochi personaggi e ambienti, attenendosi all'unità di tempo, e aveva creato dialoghi informativi e descrizioni sfrondate da ogni orpello, come a richiamare lo stile delle didascalie. Cinque personaggi e due giorni è infatti il titolo a cui Moravia pensa inizialmente per il suo romanzo, omaggio a Pirandello e spia della compattezza dell'impianto.
Il testo teatrale italiano Gli indifferenti, ambientato, come vuole la didascalia iniziale, «a Roma, nel primo lustro del terzo decennio del Ventesimo secolo»,16 è diviso in due sezioni: la prima, che consta di due quadri, ha uno sviluppo lineare, mentre la seconda, composta di quattro quadri, esprime un aspetto più innovativo dal momento che contiene una lunghissima visualizzazione della rêverie di Michele.
Moravia e Squarzina hanno adattato il romanzo attraverso una selezione di momenti salienti e hanno compiuto tagli e inversioni temporali.17 Anche se svariate battute sono rimaste immutate, a riprova del carattere prettamente teatrale dell'ipertesto, appare interessante notare come ogni figura del dramma possieda una propria "voce" e un proprio modo di esprimersi, che si riflette a livello più macroscopico su una doppia gestione del valore del linguaggio: da un lato il dialogo riproduce mimeticamente la convenzionalità del vaniloquio quotidiano, imbevuta di luoghi comuni, dall'altro veicola concetti e pensieri incarnando quel teatro di parola che Moravia stava teorizzando. Secondo chiare indicazioni dell'autore i personaggi devono essere interpretati come la rappresentazione antropomorfica di concetti astratti, incarnazioni di posizioni etiche;18 di conseguenza le relazioni da loro intessute non sono altro che confronti dialettici fra idee contrastanti19 e dunque anche fra codici comunicativi antitetici. Nel testo teatrale si amplifica una "polifonia"20 che caratterizzava il romanzo del 1929 in cui il personaggio è soggetto autonomo, regolato da una sua logica interna e da un linguaggio proprio.
Moravia sembra voler illudere lo spettatore, fingendo di impostare una tradizionale commedia borghese di fine Ottocento, giocata sui classici conflitti familiari e dinamiche adulterine, per poi dirigere la sua attenzione sull'inattualità di questo genere. Se il romanzo Gli indifferenti voleva mostrare l'impossibilità della tragedia nel Novecento, il testo teatrale pare voler smascherare i meccanismi formali tipici del dramma borghese seguendo la strada tracciata da Pirandello.21
Mariagrazia Ardengo e Leo Merumeci, simboli di un'esistenza anonima, instaurano con l'altro un rapporto del tutto epidermico e talvolta ipocrita, non censurano giudizi, agiscono senza riflettere e si esprimono per frasi fatte adottando quella che è possibile definire come "chiacchiera". Nel pamphlet del 1967 La chiacchiera a teatro,22 Moravia partendo da Martin Heidegger analizza questa modalità comunicativa all'interno dell'ambito quotidiano e poi come espediente formale adottato da un certo tipo di drammaturgia.23
In Essere e tempo la chiacchiera è descritta come un discorso inautentico e convenzionale che nasce nel momento in cui si parla di un ente senza che se ne abbia una comprensione adeguata: il linguaggio, che per sua natura dovrebbe essere svelamento dell'essere, tradisce se stesso e sottolinea l'alienazione dell'individuo rispetto alla realtà in cui è immerso.
Michele e Carla, figure della crisi, mettono in evidenza per opposizione la vuotezza del contesto che li circonda. L'insoddisfazione e la consapevolezza dell'ipocrisia dei rapporti che regolano la famiglia li conduce o a scimmiottare la chiacchiera rivelandone l'aspetto artificioso o a infrangere il codice dominante attraverso un linguaggio pregno di significati. Alla proliferazione di frasi superflue pronunciate dai personaggi adulti, i due ragazzi oppongono spesso anche un denso silenzio.24
Bisogna però osservare che nella prima parte del dramma è limitata la dialettica fra pensiero e parola, essenziale nel romanzo soprattutto per quanto riguarda la costruzione del carattere di Michele. Una delle strategie frequenti nella costruzione del personaggio consisteva proprio nel descrivere le sue riflessioni e subito smentirle con una condotta di segno opposto: la congiunzione avversativa "ma" contrassegna questa frattura e ricorre lo schema «avrebbe voluto rispondere [...] ma invece disse» o «aveva intenzione di reagire ma non fece niente». Il problema nasce nel momento in cui Moravia e Squarzina, adottando la forma drammatica, devono rinunciare al filtro dell'istanza narrativa.
Essendo complesso affidare la manifestazione delle lacerazioni interiori alla sola interpretazione dell'attore, nel copione talvolta si assiste a un processo forzato di verbalizzazione di quelle intenzioni che in origine restavano relegate entro i confini della coscienza, pertanto la prima sezione del dramma, tesa a rappresentare una classe e il suo milieu di riferimento più che ad approfondire psicologie, fatica a convertire le qualità intrinsecamente romanzesche del modello.
Solo in alcuni lacerti il dramma riesce invece a mantenersi su un piano più allusivo e dunque sfruttare le potenzialità tutte teatrali delle pause e delle intonazioni. Per esempio l'interpolazione di una porzione di dialogo nella parte conclusiva del primo quadro appare utile a far intravedere, con le sue iterazioni vuote di senso e il ricorso ai punti di sospensione, l'esistenza di tensioni sotterranee e l'incapacità di comunicarle:

«Carla: Michele.
Michele: Eh?
Carla: No, niente... (si avvia anche lei per uscire). Ciao.
Michele: Carla.
Carla: Eh?
Michele: No, niente... scusa... buonanotte. (Carla lo guarda poi esce)».25

L'ipertrofico spazio che era concesso alla definizione dei dubbi e degli smarrimenti dei giovani protagonisti spesso in preda a vivide fantasticherie, si riduce radicalmente nella pièce, tanto che i due fratelli ne risultano figure più determinate e consapevoli dei loro propositi di ribellione.
In alcuni passaggi la riscrittura rischia di diventare didascalica comportando un'esplicitazione affettata del sentimento di estraneità:

«Michele (sempre meno convinto) Se sapeste quanto poco m'importa che siamo rovinati e tutto il resto!...».26

«Michele [a Lisa]. Tu non puoi capire. Mica vivo, io; mi guardo vivere. E tutto è uguale».27

«Carla [a Leo]. Io quando vedo queste meschinerie e penso che mi tocca viverci in mezzo, farei non so che cosa per uscirne. Sarei capace di rubare di uccidere, di... prostituirmi... (con ira). Io ogni gesto che faccio, anche solo così (muove una mano) mi vedo, sono cosciente».28

Questo procedimento, seppure qui adottato con relativa parsimonia, ricorre nella versione francese di Vialar in cui tutte le riflessioni sul nichilismo dei giovani protagonisti, che nel romanzo erano affidate alla voce del narratore eterodiegetico, sono tradotte in dialogo. Questa tecnica è adottata ad esempio nel lungo scambio di battute che chiude il primo quadro:

«Michel. Ça t'amuse, tout ça?
Carla. Quoi? «Tout ça»?
Michel. La vie...
Carla. Notre vie à nous ou celle des autres?
Michel. Tout en bloc! «La vie», quoi!
Carla. Ça ne m'ennuie pas positivement.
Michel. Mais ça ne t'amuse pas non plus. Moi, tout de même, il y a des moments où je me regarde faire, agir...
Carla. Vivre. [...]
Carla. Vois-tu, Michel, ce qui m'effraye, c'est que nous sommes pareils, tous les deux... Rien ne nous fait rien... Indifférents, devant la vie, devant nous-mêmes, voilà, ce que nous sommes!... Indifférents!
Michel. Oui, indifférents! Tu vois, tout à l'heure, avec Léo, j'aurais voulu l'injurier, le battre, me mettre en colère... je l'ai appelé «canaille» et ma voix sonnait faux, affreusement faux... je me regardais agir...».29

Nei primi quadri è dunque possibile rintracciare un'affinità strutturale fra dramma francese e italiano, mentre netta è la distanza che separa i due lavori nella seconda parte. Se infatti Vialar tradisce le stratificazioni semantiche del romanzo assestandosi sull'illustrazione della sola realtà fattuale, Moravia e Squarzina spezzano invece l'andamento lineare adottato all'inizio per riprodurre sulla scena il carattere pluridimensionale della pagina narrativa.
Il primo elemento a essere stravolto è lo spazio poiché dal salotto di casa Ardengo, unica claustrofobica ambientazione che ha dominato la sezione iniziale, si passa alla frammentazione della superficie del palcoscenico in tre luoghi deputati e in successione illuminati:

«La scena dovrà mostrare contemporaneamente o alternare senza soluzione di continuità tutti gli ambienti necessari all'azione, e precisamente:
A) Stanza di soggiorno in casa Ardengo
B) Camera da letto in casa di Leo Merumeci
C) Salottino in casa di Lisa
Inoltre: due scalette che portano rispettivamente agli appartamenti di Leo e di Lisa
».30

Dopo un confronto tra Lisa e Michele che si chiude con il provocatorio proponimento da parte di quest'ultimo di uccidere Leo, il ragazzo rimane solo sulla scala del ballatoio. Proprio come avviene nel romanzo, Michele si abbandona a una lunga fantasticheria che occuperà tutto il secondo quadro e che si esplica inizialmente attraverso il ricorso a un monologo in cui a poco a poco si inseriscono frammenti di dialogo con i personaggi che Michele immagina di incontrare. Più Michele censura le sue azioni, più la sua coscienza è in grado di concepire mondi alternativi: ne deriva uno sdoppiamento continuo, una germinazione ininterrotta di possibilità alternative alle circostante e alle azioni effettive.31 Il giovane Ardengo crede di recarsi a casa del rivale e recita, cambiando toni di voce e accompagnando le sue parole con dei gesti, tutti i ruoli che popolano la sua rêverie durante il tragitto solamente immaginato.
Forte è il legame tra questa sequenza e l'atto unico Dialogo tra Amleto e il Principe di Danimarca. Appurato che nessun personaggio è adatto quanto Amleto a rappresentare il senso di inadeguatezza nel momento in cui è chiamato ad agire, Moravia lo trasforma nell'emblema dell'individuo moderno dilaniato dal dubbio e inibito da un'attività psichica sempre più invasiva e castrante. Anche nel breve testo del 1928 si assiste alla concretizzazione di una scissione interiore e alla trasformazione del monologo originale in un dialogo fra entità psichiche. Il personaggio della tragedia shakespeariana, inserito in ambito borghese tramite un processo di attualizzazione, conversa con se stesso (Amleto appare sotto forma di spirito dinanzi al Principe) riguardo l'opportunità di vendicare l'omicidio del padre.
Nel suo sogno a occhi aperti, Michele Ardengo uccide Leo e si costituisce: la sua mente visualizza l'aula del tribunale dove si svolgerà il processo, sovrapponendo nella visione la balaustrata della scala con la ringhiera di un'aula di tribunale. È a partire da questo momento che la scena inizia a trasformarsi e ad assumere la foggia che l'immaginario di Michele le attribuisce. Dalla rappresentazione della realtà oggettiva si passa, senza soluzione di continuità e grazie a un uso sapiente della luce e della voce fuori campo, alla visualizzazione dei fantasmi interiori del personaggio:

«La luce è calata. Ora Michele è appoggiato a una ringhiera, al proscenio, ed è proteso in avanti. Un cono di luce cade su questa ringhiera che assomiglia più a una ringhiera di scala che alla sbarra di un tribunale.
Michele
: (continuando) Entra il giudice, vecchio e distratto, e va a sedersi sul suo trono polveroso... Mi parla come un maestro di scuola allo scolaro, fissandomi senza severità, con la testa inclinata dalla mia parte... Mi par di sentirlo... (ma le parole del giudice risuonano davvero nell'oscurità). [...]
Giudice: Si darà luogo allora all'interrogatorio dei testimoni.
(mentre la luce che investiva Michele si spegne, piove un raggio di luce in (C), dove siede Lisa in poltrona, un po' rigida, le mani abbandonate)».32

I diversi spazi allestiti sul palcoscenico (prima l'appartamento di Lisa e poi il salotto di casa Ardengo) si illuminano in sequenza per accogliere le testimonianze di Lisa, di Maria Grazia e di Carla che espongono il loro punto di vista sull'omicidio.
Alla fine del confronto tra Carla e il giudice (che nella lunga sequenza giudiziaria non appare mai ma si limita a intervenire con la sua voce acusmatica) inaspettatamente risuonano le parole di Leo che giace, ucciso dal colpo di pistola di Michele, sul suo letto:

«Voce di Leo: Un momento... un momento!
Giudice: Chi c'è ancora?
Voce di Leo: Leo... Leo Merumeci.
Giudice: Merumeci?... Ma voi siete morto!
Voce di Leo: La voce dei morti non interessa dunque alla giustizia? (Si illumina in (B) il letto di Leo. Leo vi giace riverso, come nella fantasia di Michele. È in pigiama, ma soltanto il torso esce dalle coperte. Il volto è cereo; sulla tempia, nettissimo, un rosso grumo di sangue.) Io non voglio che alla gente rimanga di me un'impressione così... così negativa. Un egoista... (Durante le battute che seguono, Leo si alza, si toglie la giacca del pigiama e appare vestito col più elegante doppiopetto, aggiusta le coperte del letto, e si siede sul divanetto. Il tutto parlando)».33

L'episodio legato alla testimonianza di Leo rappresenta una vera e propria novità rispetto all'originale narrativo e assume improvvisamente i contorni dell'incubo di impotenza, dal momento che neanche in sogno il ragazzo riesce a ridurre al silenzio l'amante della madre. Merumeci prende la parola per ribadire la propria innocenza e per smentire il punto di vista di Carla, che lo ha ritratto come un brutale seduttore. Il racconto in cui descrive il primo appuntamento con la ragazza prende corpo sulla scena e la sua ricostruzione, in un ardito gioco di scatole cinesi, si impone sul palco:

«Leo: [...] Quel pomeriggio di cattivo tempo che mi metteva l'uggia addosso, e l'impazienza con cui la aspettavo... poi quando arrivò... eh, altro, altro se me lo ricordo... (Su queste ultime parole si comincia a sentire la voce lontana e chiassosa di un grammofono che suona un charleston. La luce cresce un poco. Leo dice, con tono mutato:) Carla, hai finito di pettinarti? (si illumina dall'interno la vetrata della stanza da bagno e si vede la silhouette di Carla che si pettina)».34

La sequenza in cui è drammatizzato l'incontro fra l'uomo e la giovane assume dunque una prospettiva del tutto soggettiva poiché sempre inserita nell'estesa fantasticheria di Michele, quando invece nel romanzo gli stessi avvenimenti erano stati descritti dal narratore come realmente accaduti.
Infine si assiste al ritorno alla dimensione reale, con Michele che si desta e decide di mettere in atto l'intenzione omicida recandosi a casa di Leo. Il quadro terzo, ambientato nell'appartamento di quest'ultimo, riprende il filo del romanzo e in modo lineare la scena ripercorre il mancato assassinio, la decisione di Carla di sposare l'amante della madre e il compromesso cui cede Michele accettando la proposta di lavoro del futuro cognato.
Il quarto e ultimo quadro si chiude nello stesso angusto luogo che dominava il primo tempo, il salotto di Maria Grazia: la struttura circolare dell'opera rimarca la condizione non evolutiva in cui sono imbrigliati i personaggi. Rispetto al modello narrativo, da cui è ripresa l'idea del ballo in costume cui sta per partecipare la famiglia Ardengo, è qui marcata la dimensione metateatrale di ascendenza pirandelliana. Le figure perdono i connotati umani per trasformarsi in maschere dalle smorfie innaturali ed esasperate sullo stile del teatro grottesco di Luigi Chiarelli, Enrico Cavacchioli, Pier Maria Rosso di San Secondo e Luigi Antonelli.
Mentre il romanzo terminava con una ennesima descrizione del sentimento di indifferenza di Michele, la conclusione del dramma appare emblematica proprio se interpretata nell'ottica di una tragicomica mise en abîme in cui tutti i personaggi sono chiamati a partecipare alla fiera dell'ipocrisia.
Moravia e Squarzina adottano la medesima soluzione di Vialar che consiste nel riposizionamento del dialogo (inserito nel capitolo sesto del romanzo) durante il quale Maria Grazia finge di voler dare Carla in sposa a Leo.35 Collocato in chiusura il brano assume un peso maggiore e conferisce all'intera opera un colore sinistro, dato che Maria Grazia, ignara della relazione appena iniziata fra il suo compagno e la figlia, inscena un finto matrimonio tra i due: a questa grottesca recita partecipano con un'ilarità forzata anche Leo, già aduso alla doppiezza, e Carla, oramai coinvolta nell'ingranaggio della dissimulazione.
Alla luce di quanto emerso dall'analisi del testo, si può concludere che, attraverso sequenze visionarie e deformazioni temporali come anacronie e anisocronie tipiche della comunicazione narrativa o cinematografica, i due autori italiani spezzano la linearità del teatro borghese naturalista.36 L'opera, seppure non paragonabile per maturità espressiva alla produzione moraviana successiva, può essere inserita entro l'alveo di certa drammaturgia moderna che, sviluppatasi a cavallo fra Otto e Novecento, trova la sua essenza da un lato nell'introduzione di una temporalità espansa e relativizzata, dall'altro nella proiezione diretta dell'interiorità dei personaggi attraverso il ricorso al sogno e alla rêverie, rappresentati senza alcuna mediazione o parafrasi (si pensi, in ambito europeo, ad alcune pioneristiche pièce di Strindberg, Evreinov e Schnitzler e, su territorio nazionale, a certa produzione sperimentale di Svevo, Pirandello o Lodovici).
Se dunque il romanzo del 1929 aveva accolto procedimenti formali tipici del teatro, nella traduzione scenica del 1944 si assiste alla contaminazione ardita di codici espressivi e a un processo di epicizzazione:37 dando corpo sulle assi del palcoscenico all'allucinazione del personaggio, gli autori sono riusciti a salvare la dialettica fondamentale nel modello fra azione e pensiero, e la dicotomia irriducibile fra mondo reale e punto di vista soggettivo.

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