Livio Lepratto
Università degli Studi di Parma

Da «Gli indifferenti» a «La grande bellezza». La rappresentazione della borghesia romana da Moravia al cinema italiano

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.

V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
«Gli indifferenti», ovvero la "scoperta del borghese"
Tra le varie "borghesie": il caso del "generone" romano
La borghesia nel cinema italiano: dai telefoni bianchi al neorealismo
Topografie della borghesia romana nel boom economico:
da «La dolce vita» a «L'eclisse»

L'"uomo medio" nell'opera di Pier Paolo Pasolini e Moravia
I "mostri borghesi" della commedia all'italiana
Il "generone" redivivo: da Ettore Scola a Nanni Moretti
I nuovi "idealtipi" della borghesia romana del terzo millennio
La "borghesia intellettuale di sinistra": da «La terrazza» a «La grande bellezza»
La "sopravvivenza" della borghesia moraviana: l'attualità de «Gli indifferenti»


 

§ II. Tra le varie "borghesie": il caso del "generone" romano

 

I. «Gli indifferenti», ovvero la "scoperta del borghese"

Per chiunque si appresti a esaminare la rappresentazione della borghesia romana nella letteratura e nel cinema italiani, un ruolo di ineludibile punto di riferimento è tutt'oggi ricoperto da Gli indifferenti (1929), romanzo d'esordio di Alberto Moravia, nonché opera destinata a lasciare una traccia profonda nel nostro panorama letterario. In uno scenario letterario italiano dominato ancora in gran parte dagli «ambienti altoborghesi o falsonobiliari»1 dei romanzi di D'Annunzio, irrompe Moravia, il quale dimostra, già sin appunto dal suo romanzo d'esordio, un'inedita capacità di appuntare uno sguardo scettico e disincantato sulla società e sull'uomo di quel tempo.
A tal proposito, è bene forse avviare la nostra indagine interpellando direttamente l'opera in oggetto, Gli indifferenti appunto, a partire dai cinque personaggi che muovono l'intera macchina scenica. Personaggi che, a ben vedere, possono ridursi addirittura a due: Leo Merumeci, di professione impiegato al Ministero di Grazia e Giustizia (ma che in realtà ci viene descritto come uno speculatore immobiliare dedito alle donne); e il potenziale avversario di quest'ultimo, Michele Ardengo, dal cui labile e velleitario sentimento di rivolta muove appunto l'intera fabula, già sin dalle prime battute da lui rivolte alla sorella Carla: «Vengo proprio ora dall'amministratore di Leo. [...] Ho saputo che siamo rovinati. [...] Vorrebbe dire che dovremo cedere la villa a Leo in pagamento di quell'ipoteca, e andarcene, senza un soldo, andarcene altrove».2
Proprio in tale dialogo quasi fortuito tra fratello e sorella, scandito dal linguaggio semplice e banale di quella quotidianità borghese, Moravia profila abilmente l'azione dei due giorni successivi, sino allo scioglimento finale. La vicenda si prolungherà per ben trecento pagine, senza tuttavia mai complicarsi o infittirsi con elementi di intreccio nuovi o inaspettati, ma palesandoci bensì l'istanza moraviana di svelarci la borghesia italiana di quegli anni, ritratta in ogni sua crepa, anfratto o zona d'ombra. Come ci suggerisce esemplarmente Ugo Dotti,

«la scoperta del borghese e l'affresco (per così dire) della sua mentalità e del suo modo d'essere esigeva, per essere davvero afferrato nella sua inconsistenza, vacuità e, alla fine, "indifferenza", un profluvio di parole, suoni o silenzi prevalentemente scambiati nei luoghi deputati: pranzi, cene, ritrovi».3

Quella intrapresa da Moravia è tuttavia una strada differente da quella tracciata a suo tempo dai vari scrittori del naturalismo e del verismo, le cui rappresentazioni crude e violente delle angherie e meschinità umane obbedivano a una marcata istanza di denuncia sociale. Dal canto suo, il romanzo d'esordio moraviano supera ogni intento di denuncia e condanna, mirando piuttosto alla «rappresentazione della sudiceria borghese come riflesso di una sua interiorità morale che era poi, ancor più che assenza dei valori morali tradizionali, indifferenza per i medesimi».4
Lo stesso Moravia si troverà poi in più occasioni - e sovente con spirito di forte autocritica - a riflettere su Gli indifferenti. A catturare la nostra attenzione è in particolare un testo del 1945, in cui Moravia ci informa sulle autentiche spinte socio-culturali che fecero germinare in lui il progetto di quel suo primo romanzo, ridimensionandone inoltre le istanze antiborghesi alla base dell'ideazione e ispirazione originarie. Quella rappresentazione tanto completa e veritiera della vita quotidiana di una famiglia borghese romana di fine anni Venti sarebbe semmai risultata frutto di uno sguardo autoptico e "autoctono" rivolto dall'interno della borghesia stessa: «Se per critica antiborghese si intende un chiaro concetto classista, niente era più lontano dal mio animo in quel tempo. [...] Ho scritto Gli indifferenti perché stavo dentro la borghesia e non fuori».5
Attraverso tale risoluta e perentoria dichiarazione, il nostro scrittore ammette quindi di appartenere endemicamente alla classe sociale da lui artisticamente raffigurata, e di immedesimarsi in essa: «Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso (almeno per quanto riguardava il modo di vivere) Gli indifferenti furono tutt'al più un mezzo per rendermi consapevole di questa mia condizione».6
Tale ammissione dischiude tuttavia nel Moravia autore una soluzione alternativa, ossia la liberazione da quelle "catene" di vita borghese: liberazione che tuttavia può raggiungersi unicamente passando proprio attraverso un «bagno totale nella miseria della normalità borghese».7
Come prosegue poi Moravia in quello stesso intervento, la cifra e la componente antiborghese sarebbero semmai affiorate in un secondo momento, a una lettura successiva del romanzo, ingenerando tuttavia un'eccezionale e retroattiva portata di natura socio-culturale:

«Hanno detto che questa pittura è acre e crudele. In realtà essa rispecchia molto fedelmente quel sentimento di noia e di insofferenza che [...] destava allora nel mio animo la vita normale. [...] Che poi Gli indifferenti sia risultato un libro antiborghese questa è tutta un'altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia, specie quella italiana in cui ben poco o nulla è suscettibile di ispirare non dico ammirazione ma neppure la più lontana simpatia. Tutto questo è tanto vero che soltanto molto tempo dopo aver pubblicato Gli indifferenti mi accorsi della reale portata del libro e cominciai a sentire ripugnanza per il modo di vivere borghese nel suo complesso».8

 

§ III. La borghesia nel cinema italiano: dai telefoni bianchi al neorealismo Torna al sommario dell'articolo

 

II. Tra le varie "borghesie": il caso del "generone" romano

Tale ampia digressione iniziale su Moravia e Gli indifferenti si rivela uno strumento alquanto utile per tornare ora a rivolgerci - con uno sguardo più attento e avvertito - alla presenza della borghesia romana nel cinema italiano. Già sin da ora si pone tuttavia una focale quanto irrimandabile questione di fondo, ossia la definizione del concetto di borghesia. Di quale borghesia si parla - infatti - nei numerosi casi del cinema italiano che ci accingiamo ad affrontare?
A tal proposito, ci può soccorrere ancora il romanzo d'esordio moraviano, il quale - come recentemente evidenziato da Maurizio Basili - ci restituisce a ben vedere una classificazione analitica e quasi scientifica dei vari sottoinsiemi che compongono la macro-classe borghese: dalla "borghesia autentica" - che sta lentamente perdendo ogni rapporto con la realtà della vita e che si aggrappa a gesti, parole e apparenze per non affondare -, alla "borghesia imprenditoriale" - ovvero la nuova borghesia piena di sé, egoista, falsa e calcolatrice, priva di alcuno spessore morale, e bramosa di sesso e denaro -, per giungere infine a una terza sottocategoria, quella appunto degli "indifferenti", incapaci di conformarsi alla massa, ma ugualmente incapaci di opporvisi efficacemente, e per questo destinati a una progressiva e inesorabile emarginazione dalla stessa società.9
Attraverso tale esemplare e coraggiosa delineazione dell'intera "scala tassonomica borghese", Moravia preconizza, a ben vedere, tre categorie di borghesi che riaffioreranno poi ben riconoscibili anche in tanto cinema italiano, il quale raffigurerà infatti una galassia borghese tutt'altro che uniforme o monocorde, ma suscettibile bensì di svariate e impensabili declinazioni.
Il pluralismo e la versatilità che contraddistinguono la tavolozza borghese del cinema italiano possono trovare una prima valida spiegazione da una rilevante scuola di pensiero, che considera difficilmente individuabili i caratteri identitari della borghesia, e quanto mai labili i confini tassonomici di quest'ultima. Già lo storico Eric Hobsbawm ci aveva fatto notare come l'alta borghesia - per i suoi stessi principi ispiratori che ne avevano decretato la nascita - non potesse separarsi formalmente dai "ceti inferiori", in quanto «la sua struttura doveva rimanere aperta a nuovi adepti, questa era la caratteristica della sua natura».10 È proprio tale permeabilità - aggiungerà poi di lì a poco Perry Anderson - a distinguere la borghesia

«dalla nobiltà che la precede e dalla classe operaia che la segue. Queste presentano una omogeneità strutturalmente superiore: l'aristocrazia si definiva tipicamente attraverso uno statuto legale in cui si combinavano titoli civili e privilegi giuridici, mentre la classe operaia si delinea complessivamente attraverso la condizione del lavoro manuale. La borghesia non possiede una pari e intrinseca unità di gruppo sociale».11

Ciò si ravvisa ad esempio nelle molteplici declinazioni di borghesia - fedelmente restituiteci da molto cinema italiano - che esulano nettamente dalla categoria borghese più prettamente capitalistica e affaristica. Già a inizio del Novecento Max Weber aveva d'altronde puntualizzato come la borghesia non si identificasse nient'affatto con il capitalismo.12 A far eco al filosofo tedesco troviamo poi, a quasi un secolo di distanza, la storica canadese Ellen Meiksins Wood, secondo cui «borghese non è necessariamente da identificarsi con capitalista»,13 come la storia della borghesia francese starebbe a testimoniare.
Tali teorizzazioni dimostrano come, più che di un'unica entità borghese, sarebbe più corretto parlare di cultura borghese «multicolore»,14 come scrive uno dei massimi studiosi della borghesia, Peter Gay, a conclusione dei suoi cinque volumi su The Bourgeois Experience.
A corroborare tali tesi è recentemente intervenuto un illuminante saggio di Franco Moretti, Il borghese, fondato sulla convinzione di come «parlare di "un" borghese, al singolare, è una scelta discutibile»,15 proprio alla luce di quella permeabilità di confini e di quella debolezza di coesione interna già ravvisate nella borghesia dagli studiosi sopra citati.
Dopo tale doverosa premessa di inquadramento della sfuggente classe sociale borghese, conviene ora interrogarci sull'esistenza di eventuali peculiarità proprie della borghesia romana, oggetto appunto del nostro presente studio. Nel caso specifico del contesto romano, risulta inevitabile volgere la nostra lente d'indagine a quello che nel linguaggio corrente viene comunemente designato come "generone": nome che inizia a diffondersi a Roma, negli ultimi decenni dell'Ottocento, per indicare quella parte della nuova borghesia - affermatasi e arricchitasi nel corso dei secoli nella capitale dello Stato pontificio - e protesa a gareggiare con l'aristocrazia nel lusso, nell'eleganza, nella raffinatezza. Per estensione, l'appellativo "generone" sarebbe giunto in seguito a designare un settore della società contemporanea che ostenta ricchezze e privilegi conquistati recentemente, specificatamente con riferimento a Roma e agli ambienti della capitale.16
Ceto urbano "autoctono" di Roma a tutti gli effetti, il generone sopravvivrà e si trasfigurerà nella rappresentazione letteraria, come esemplarmente testimoniato da Gli indifferenti, che contribuirà in maniera determinante al definitivo sdoganamento della borghesia quale tematica romanzesca e cinematografica. Memore della lezione di Moravia, il cinema italiano del secondo dopoguerra contribuirà a offrire numerose e variegate letture della borghesia romana, spesso raffigurata come aggregazione smarrita e caleidoscopica, e come compagine sociale in contrapposizione a quel "popolo romano" così ben descritto tra anni Quaranta e Cinquanta da Carlo Levi.17

 

§ IV. Topografie della borghesia romana nel boom economico: da «La dolce vita» a «L'eclisse» Torna al sommario dell'articolo

 

III. La borghesia nel cinema italiano: dai telefoni bianchi al neorealismo

Tale nostro excursus non può non prendere le mosse dal cinema dei telefoni bianchi, sottogenere cinematografico di commedia in voga in Italia tra la metà degli anni Trenta e la caduta del fascismo. Come evocato dallo status symbol borghese dei telefoni bianchi che danno il nome al filone in questione, si tratta appunto di pellicole dall'evidente ambientazione borghese, esteticamente e culturalmente debitrici in tal senso alle commedie borghesi del cinema hollywoodiano dell'epoca, in particolar modo a Frank Capra.
Tale rappresentazione di una società benestante, progredita, emancipata e istruita risuonava tuttavia enormemente contrastante con la situazione reale dell'Italia dell'epoca, la quale si presentava infatti allora come un Paese sostanzialmente povero, materialmente e moralmente arretrato, in gran parte analfabeta, per di più soggiogato dalla dittatura fascista, e con la guerra alle porte. In tal senso, non si può non convenire con le lapidarie quanto incontestabili osservazioni di Guido Fink, secondo il quale l'epopea dei telefoni bianchi si risolse sostanzialmente in «commedie leggere che in epoca fascista si distinsero [...] per il loro garrulo e luccicante parlar d'altro».18
Tra i registi più rilevanti del genere, un'attenzione particolare merita un autore quale Mario Camerini, il quale nel 1932 dirige un giovane e debuttante Vittorio De Sica ne Gli uomini, che mascalzoni..., «garbata ed accattivante commedia sentimentale d'ambientazione piccolo-borghese»,19 inaugurando così quella che sarebbe stata definita la cosiddetta "pentalogia borghese" cameriniana. Autentico oggetto prioritario di attenzione nel cinema di Camerini è costituito per l'appunto dalla piccola-media borghesia, rappresentata come unica classe sociale auspicabile, a cui lo stesso proletariato urbano avrebbe potuto e dovuto ambire.
Tale modello rappresentativo borghese era però destinato a subire un brusco e sensibile cambio di rotta in occasione del secondo conflitto mondiale, autentico turning point in tal senso. Nell'immediato dopoguerra italiano, in particolare, la rappresentazione della borghesia pare infatti in qualche modo latitare per alcuni anni, come ben testimoniato dal neorealismo, il quale mette in scena «disoccupati (Ladri di biciclette), pensionati (Umberto D), ragazzi di strada (Sciuscià), mondine precarie e ladruncoli avventurieri (Riso amaro)»,20 faticando invece a riservare la ribalta appunto ai borghesi. Con l'intento ideologico di raccontare gli "ultimi" e di focalizzarsi sulle piaghe sociali dell'Italia appena uscita dalla guerra, il cinema neorealista tende quindi a trascurare «quell'aggregato sociale insondabile, misterioso, velleitario, frustrato, conformista, narciso, rancoroso, perennemente insoddisfatto di sé e del mondo che è stato e forse ancora è la borghesia italiana».21
Tale particolare concezione di cinema inteso come pratica di incontro diretto e di contatto fisico con il reale risulta fortemente improntata alle teorizzazioni di Cesare Zavattini,22 figura chiave non solo per il movimento neorealista, ma anche per i successivi sviluppi "militanti" della cinematografia italiana, la quale nei decenni a venire tornerà spesso a utilizzare la macchina da presa quale «"arma" per liberarsi dell'ideologia borghese e intervenire attivamente nel contesto storico-politico circostante».23
L'abbondanza di sottoproletari, marginali, "poveracci" e "pezzenti" offertaci da tanto cinema dell'immediato secondo dopoguerra rivelerebbe quindi una certa riluttanza, propria del neorealismo, a raccontare la borghesia, quasi come se la borghesia - stando a un recente saggio di Antonio Canova - fosse «una colpa da scontare, un male oscuro da nascondere, una tara da curare».24
Una possibile spiegazione allo scenario delineato da Canova ci viene fornita dal sociologo e mediologo Alberto Abruzzese, il quale individua la causa di tale riluttanza alla rappresentazione borghese nella stessa natura tecnica e socio-culturale della pellicola cinematografica, «prodotto di un lavoro collettivo che poco si adatta ai parametri della autorialità individualista borghese, quella che ha prodotto quadri, statue, monumenti, spartiti, libri, testi teatrali».25 È quanto in parte confermato anche da Sergio Ricossa nel suo spericolato e brillante pamphlet Straborghese, in cui si legge che «la borghesia non è una classe sociale, la borghesia è un tipo umano, è un carattere, e forse il più adatto a parlarne è il romanziere o il commediografo».26
Tuttavia - a ben vedere - lo stesso neorealismo cinematografico non risulta affatto scevro di rappresentazioni della borghesia, offrendoci bensì taluni pregnanti ritratti borghesi romani, assai funzionali all'intera macchina narrativa e rappresentativa neorealista. Ciò è riscontrabile già sin da Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945), e in particolare nei due personaggi dell'ingegnere Manfredi e di Marina, appartenenti appunto con tutta evidenza alla borghesia romana. Tale connotazione sociale vale anche per un ulteriore personaggio rosselliniano di poco successivo, la Francesca protagonista del III episodio (intitolato appunto "Roma") di Paisà (Roberto Rossellini, 1946), la quale si prostituisce con i soldati americani, e la cui abitazione è decisamente medioborghese: proprio il contrasto tra ciò che Francesca era sino a pochi mesi prima e la sua attività e ceto sociale attuali conferisce un'intensa forza drammatica al personaggio. Lo stesso si può dire infine per il già citato Umberto D. (del film omonimo), ex-funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici, scivolato nell'indigenza a causa della misera pensione riconosciutagli dopo trent'anni di lodevole lavoro. Anche in questo caso, è proprio il suo cambiamento di status sociale - da borghese a semi-povero - a ledere e addirittura distruggere la sua dignità e il suo senso di sé.
Come si può ben vedere, quindi, la presenza della borghesia sembra così riaffiorare di volta in volta come acqua carsica perfino nella stessa fase neorealista. Fase in cui, inoltre, la rappresentazione della borghesia si rivela quanto mai funzionale a una rappresentazione indiretta della temperie fascista, dalla quale l'Italia dell'immediato dopoguerra era appena faticosamente uscita.
Quella stessa temperie risulta inoltre già ravvisabile con tutta evidenza ne Gli indifferenti, il quale forse meglio di qualunque altro romanzo sa davvero tradurre - con il suo plumbeo ristagno morale e la sua consapevole impotenza a reagire - l'atmosfera di esasperante e soffocante grigiore nonché la cinica e ripugnante immoralità borghese del tempo, finendo così per divenire l'emblema, e insieme il monumento funebre, dell'epoca e della società fascista. Già sin da quell'opera prima, si delineano quindi quei nodi cruciali intorno a cui si dibatterà l'intera opera moraviana, tra i quali possiamo annoverare - oltre che l'indifferenza e la noia quali disorientamento esistenziale e cognitivo - anche una spietata analisi della decadenza culturale e morale della borghesia fino, appunto, alla sessualità,27 intesa quale unica chiave di lettura delle dinamiche sociali e del rapporto con l'altro.
Tali nodi riaffiorano in tutto il loro vigore ne Il conformista (1951), tentativo moraviano di innestare nel racconto la discussione politica sulle aberrazioni delle derive ideologiche. Tale esperimento moraviano troverà una degna rappresentazione nell'omonima trasposizione cinematografica firmata da Bernardo Bertolucci nel 1970, la quale ben ci restituisce l'inquietudine del protagonista borghese Marcello Clerici, colto nella sua più recondita finalità di raggiungere l'abiezione del conformismo fascista, quale unica soluzione alla colpa e alla malattia che oscuramente egli sente in se stesso.28

 

§ V. L'"uomo medio" nell'opera di Pier Paolo Pasolini e Moravia Torna al sommario dell'articolo

 

IV. Topografie della borghesia romana nel boom economico: da «La dolce vita» a «L'eclisse»

Nel frattempo, parallelamente alla parabola letteraria di Moravia, anche il cinema degli anni Cinquanta si presenta quanto mai ricco di narrazioni e rappresentazioni della borghesia italiana, raffigurata ora in tutta la sua «incapacità di agire e reagire nella sfera sentimentale e familiare».29 È quanto traspare già dai quattro film post-neorealisti di Roberto Rossellini interpretati da Ingrid Bergman, noti come "tetralogia della solitudine", ovvero: Stromboli, terra di Dio (1950), Europa '51 (1952), Viaggio in Italia (1953) e La paura (1954).
Gli interni e insanabili dissidi dei protagonisti rosselliniani troveranno poi la propria più compiuta manifestazione con l'approdo al nuovo decennio dei Sessanta.
È quanto traspare già in tutta la sua evidenza e prepotenza sin da La dolce vita (Federico Fellini, 1960), opera definita giustamente da Tomaso Subini «un vero e proprio casus belli ideologico, in un'Italia sul crinale tra modernità e tradizione».30 Proprio nella borghesia protagonista delle cronache mondane di via Veneto, Fellini legge i segni di un'Italia che sta cambiando, segnata da una svolta storica epocale, dall'avvento del benessere e della società dello spettacolo, e dalla minaccia invisibile della guerra fredda. La portata socio-culturale e ideologica del film è tale da scatenare reazioni spropositate negli italiani dell'epoca, come testimoniatoci da taluni aneddoti riferitoci da Maurizio Cabona, secondo cui Fellini sarebbe addirittura stato più volte oggetto di ingiurie e di sputi per strada, con l'accusa di consegnare il paese in mano ai bolscevichi e di screditare la borghesia.31
L'autentico "scandalo" che tanto avrebbe destato risentimento nella borghesia viene ben individuato provvidenzialmente dallo stesso Moravia, in un'intervista rilasciata in un documentario su Fellini (André Delvaux, Fellini, Belgio, 1962): «Fellini ha rappresentato, per la prima volta, la classe dirigente, insomma la classe borghese. Prima non era stato mai fatto. Quindi lo scandalo è stato creato da questa classe, cui non piace essere giudicata né rappresentata, almeno in Italia. Lo scandalo è stato un vero scandalo di classe».
Parallelamente al solco inaugurato da Fellini, vi è un altro autore che intraprende un proprio percorso di osservazione e indagine della classe borghese romana. Mi riferisco ovviamente a Michelangelo Antonioni, e alla sua capacità di sezionare compiutamente le tematiche dell'alienazione e dell'incomunicabilità - i grandi mali dell'uomo (non solo borghese) del Novecento -, come trapela già sin dal suo lungometraggio d'esordio, quel Cronaca di un amore (1950) prontamente recensito dallo stesso Moravia, il quale in quell'occasione offre una propria acuta motivazione alla "severità" e al rigore critico mostrati dal cinema italiano nel portare sullo schermo la classe borghese: «Probabilmente il difetto [...] sta nel manico; ossia nelle deficienze ormai storiche della nostra borghesia, nella sua mancanza di giustificazioni culturali ed etiche, nella sua scarsa conoscenza di se stessa».32
Il discorso sulla borghesia portato avanti da Antonioni raggiunge poi il suo pieno compimento con la celeberrima tetralogia avviata da L'avventura (1960) e proseguita con La notte (1961), L'eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). Ne L'eclisse, in particolare, la classe borghese - ben rappresentata dai due protagonisti Vittoria (Monica Vitti) e Piero (Alain Delon) - risulta vittima di un vortice in cui si mescolano soldi e aspirazioni sociali, dimostrandosi inoltre incapace di vivere appieno il rapporto con l'altro e di comunicare i propri sentimenti.33 In tale sua ricognizione critica della nuova società del benessere, Antonioni alterna sequenze di rumore e caos (ambientate nelle sale della Borsa di Roma) a lunghi silenzi e paesaggi di architetture fredde, geometriche (quali il quartiere dell'EUR), che riflettono l'incomunicabilità dei sentimenti e l'insuperabile senso di estraneità che caratterizza il rapporto fra i personaggi. La deriva della borghesia romana raffigurata da L'eclisse ritorna poi quale tematica predominante anche nel romanzo moraviano La noia (1960), i cui protagonisti - similmente a quelli antonioniani - risultano pervasi da un insanabile taedium vitae, nonché "spersonalizzati" da un morboso quanto fallimentare rapporto con il denaro e il sesso.
I personaggi antonioniani ben rappresentano inoltre l'abdicazione della borghesia a ogni traccia residuale di eroismo, fascino o appeal di qualsiasi natura nei confronti del resto della società, come le già citate sequenze de L'eclisse ambientate alla Borsa di Roma stanno appunto a testimoniare. È quanto confermato dalle ironiche osservazioni dell'economista Joseph Schumpeter, il quale già nel 1942 individuava nella «borsa valori [...] un misero succedaneo del Sacro Graal»,34 giungendo a concludere che la vita imprenditoriale - consumata «negli uffici, fra colonne di cifre»35 - è destinata a risultare sostanzialmente «antieroica».36 Ben lungi quindi da quell'ampia galleria di intrepidi cavalieri per mezzo dei quali l'aristocrazia si era spudoratamente autorappresentata e idealizzata, «la borghesia non produsse un tale mito di se stessa. [...] Paragonato a un cavaliere, un borghese appare anonimo e indefinibile, simile a qualunque altro borghese».37
Ciò ci permette di affrontare alcuni ulteriori interrogativi, chiedendoci che cosa cambi esattamente all'altezza del miracolo economico, e in che cosa la borghesia romana del boom risulti diversa da quella precedente. Tra gli effetti maggiormente evidenti comportati dal miracolo economico registriamo, sì, un relativo benessere nelle vite di grandi masse operaie del mondo occidentale, ma, al contempo, anche l'affermazione delle merci quale nuovo principio legittimante: «il consenso si costruiva sulle cose, non sugli uomini - e meno ancora sui principî. Era l'alba dei nostri tempi: il trionfo del capitalismo, e la morte della cultura borghese».38 Tale decadenza della borghesia negli anni del boom poggia su taluni solidi ancorché banali fondamenti, primi fra tutti il sesso e il denaro: «con l'uno si scopre il piacere di vivere, con l'altro si fornisce comodità all'esistenza; con entrambi si ricostruisce la società: quella borghese nella sua primitiva fase basata sul capitale commerciale e usurario».39
Il binomio del sesso e del denaro informa non soltanto tutti i pensieri e i movimenti dei personaggi antonioniani, ma, a ben vedere, già anche ogni vana azione (o inazione) intorno a cui si dipana la vacua esistenza dei personaggi moraviani de Gli indifferenti. Ciò traspare in tutta la sua evidenza già sin dalla "rivolta" di Michele, giacché è appunto soltanto ed esclusivamente la consapevolezza della rovina finanziaria familiare che innesca in lui il primo impulso a erigersi come antagonista del borghese vincente: Leo Merumeci. Tuttavia, se Michele «ha preso ad odiare il vincitore quando la sua mente è stata devastata dalla perdita del patrimonio e del denaro, con lui si riconcilia quando la perdita, complice e garante il sesso, viene tamponata».40
Un'ulteriore peculiarità che contraddistingue la borghesia romana del boom economico - così come accortamente restituitaci dal cinema italiano coevo - è costituita dall'ascesa di un'inedita compagine di nuovi ricchi, i cosiddetti "palazzinari" romani: un ceto influente e affarista di costruttori edili e speculatori immobiliari che imprime il proprio segno sulla caotica crescita urbanistica di Roma nella seconda metà del Novecento. In tutto questo, un ruolo di assoluta centralità viene quindi a essere ricoperto dalla città di Roma, e in particolare dalla nuova scenografia urbana del boom economico: lo skyline geometrico e "metafisico" di quartieri signorili romani quali l'EUR assurge non a caso al ruolo di vero e proprio co-protagonista in molti dei film da noi presi in esame. In particolare - come recentemente ben evidenziato da Alfredo Passeri - nei citati film di Antonioni acquisisce una propria ben riconoscibile fisionomia una nuova tipologia architettonica, la "palazzina romana", che proprio in quegli anni viene a rappresentare un modello privilegiato di residenza, d'eccezione, nonché qualificativo della borghesia romana.41
La ricostruzione topografica della Roma borghese compiuta da Antonioni non può non rimandare, ancora una volta, al Moravia de Gli indifferenti. È stato in particolare Giacomo Debenedetti, nel 1937, ad aver riconosciuto come «dopo D'Annunzio Moravia è stato il primo a ricostruire una topografia romanzata di Roma».42 Dal canto suo Stefano Ciavatta ribadisce come «il continente Moravia ha la sua mappa. La vita romana del giovane borghese antiborghese si muove per il centro tra le case di via Sgambati al quartiere Pinciano, via dell'Oca a Ripetta e quella ultima sul Lungotevere della Vittoria».43
Il rapporto tra Moravia e la topografia di Roma risulta d'altronde non poco problematico e conflittuale, come testimonia ad esempio il tentativo in età avanzata da parte dello stesso scrittore romano di smentire il primato della capitale nell'economia narrativa del suo romanzo d'esordio: «Roma è un fondale, non è altro per me, i miei problemi non sono quelli di Roma, negli Indifferenti Roma non è neanche nominata. Tutti i Racconti romani sono sbagliati topograficamente apposta, non c'è una strada che corrisponda».44 Già nel 1975 inoltre, su iniziativa dello stesso Moravia, Bompiani aveva pubblicato Contro Roma, un'antologia di interventi (di vari scrittori e intellettuali) indirizzati appunto contro le "degenerazioni" di varia natura della capitale romana. Tra tali interventi spicca appunto per la sua particolare acredine il durissimo Delusione di Roma, in cui Moravia ha modo di sostenere che «Roma è un garage, non una vera capitale istituzionale e sociale. [Roma] è davvero la città eterna, appunto perché nulla vi cambia, la città si ingrandisce sempre di più ma riproduce continuamente i difetti di quando era ancora piccola, raccolta dentro le mura».45
Restando in ambito topografico, la borghesia romana - così com'essa viene a delinearsi a partire dagli anni Sessanta a oggi - designa quale proprio luogo simbolico d'elezione la zona di "Roma Nord" - o meglio, come sostiene forse a ragione Fulvio Abbate - «Romanord, scritto tutto attaccato essendo un mondo a sé»,46 ovvero un agglomerato di quartieri che «comincia nel quartiere Trieste, bordeggia Prati per salire a Belsito, svolta sulla Cortina d'Ampezzo per scendere al Fleming e Vigna Clara, attraversando il Tevere dei circoli per ritornare ai Parioli, vero centro ispiratore dell'antropologia romanordista».47 Proprio intorno a tali riferimenti topografici ruoteranno le vite e le rotte di gran parte dei personaggi cinematografici della borghesia romana negli ultimi decenni del Novecento e negli anni Duemila.

 

§ VI. I "mostri borghesi" della commedia all'italiana Torna al sommario dell'articolo

 

V. L'"uomo medio" nell'opera di Pier Paolo Pasolini e Moravia

Un ulteriore caso esemplare di rappresentazione cinematografia della borghesia romana ci viene restituito poi, nel pieno degli anni Sessanta, da La ricotta (episodio appartenente al film collettivo del 1963 Ro.Go.Pa.G.), che restituisce fedelmente la personalità artistico-ideologica del suo autore, Pier Paolo Pasolini, attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra, e spesso fortemente critico nei riguardi appunto delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi. Ne La ricotta, sono in particolare le parole pronunciate dal personaggio del regista - interpretato da Orson Welles - a "colpire al cuore" la borghesia italiana, mettendone in luce senza pietà i limiti ancestrali e le derive ideologiche: «L'Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d'Europa».
A un'analisi più attenta, tuttavia, la "sparata" che Pasolini fa pronunciare al regista Welles risuona diretta - più che contro la borghesia - semmai contro l'uomo medio, come ben dimostrato da quest'altra sentenza proferita dallo stesso personaggio di cui sopra: «L'uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista». L'appellativo sociale di "uomo medio" non risulta nient'affatto una scelta neutrale, ma riporta urgentemente in causa quell'onnipresente e vaga etichetta di "classe media", che la cultura anglosassone ha già da tempo mostrato di preferire alla categoria di "borghesia", denotando quella ritrosia manifestata (in diversi momenti storici) da parte della stessa borghesia ad autodefinirsi appunto con l'appellativo di "borghese". Già nel 1927 Bernard Groethuysen stentava a comprendere «perché al borghese di solito non piaccia essere chiamato con il suo nome. I re son pure stati chiamati re, i preti preti, i cavalieri cavalieri; egli, invece, vuole mantenere l'incognito».48
La ragione di tale riluttanza etimologica - nei confronti del termine «borghese», e in favore piuttosto della denominazione «classe media» - è da ricercarsi a ben vedere nella storia contemporanea della Gran Bretagna, e in particolare nell'epoca della Rivoluzione industriale, quando, in una fase di frattura e polarizzazione sociale tra ricchi industriali e poveri operai, le "Middle Classes" sono chiamate a ricoprire il cruciale ruolo di anello di congiunzione e mediazione tra le fasce alte e basse, assurgendo già a partire dal primo Ottocento ad «autentici depositari del sentimento sobrio, razionale, intelligente e onesto che caratterizza gli inglesi».49
Tale nobile ruolo di mediatore e faro sociale sarebbe stato però spesso disatteso da quelle stesse "Middle Classes" in cui le varie società occidentali avevano riposto tanta fiducia. È quanto affiora appunto dall'invettiva lanciata dal personaggio del regista/Welles ne La ricotta, dietro la quale traspare la più autentica preoccupazione nutrita da Pasolini, ossia il timore che anche il proletariato e sottoproletariato - indipendentemente da una possibile ascesa socio-economica - "affluissero", con una sorta di wishful thinking (indotto dal mainstream politico e culturale), a un'autorappresentazione di sé come ceto medio, con la conseguente perdita delle loro preziose e irrinunciabili specificità culturali e antropologiche.
Ancora una volta, sarà Moravia il più attento a cogliere tutte le valenze del film, precisando come - piuttosto che per vilipendio alla religione - «molto più giusto sarebbe stato incolpare il regista di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana».50 Sulla scia di quanto dichiarato dal personaggio del regista/Welles, Moravia non può che pervenire poi alla seguente amara conclusione: «l'Italia del passato, infatti era il paese dell'uomo, in tutta la sua umanità; l'Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell'uomo medio».51
Con Pasolini, Moravia intrattiene d'altronde un fecondo sodalizio artistico e culturale, culminante nella partecipazione diretta dell'autore romano (quale interprete di sé stesso) al pasoliniano Comizi d'amore (1965). Atipico film-inchiesta, questo, realizzato dal regista friulano con l'intento di creare una sorta di sostegno didattico utile all'educazione sessuale degli italiani, e dal quale emerge un ritratto contraddittorio del nostro Paese, da cui si colgono una diffusa ignoranza, nonché una profonda arretratezza e un timore dell'italiano medio di affrontare senza vergogna un dibattito pubblico legato al tema della sessualità.
La ragione per cui il film-inchiesta pasoliniano cattura la nostra attenzione si spiega con il fatto che, tra le varie interviste raccolte da Pasolini, troviamo anche le opinioni autorevoli di vari intellettuali, amici del regista friulano, tra i quali, appunto, Moravia. Alla domanda/questione postagli da Pasolini riguardo alla possibilità e opportunità di scandalizzarsi nel mondo attuale, Moravia offre una risposta che in realtà è uno strale polemico verso la borghesia retriva e conformista dell'Italia di allora:

«una credenza che sia stata conquistata con la ragione e con un esatto esame della realtà è abbastanza elastica per non scandalizzarsi mai. Se invece è una credenza [...] accettata per tradizione, per pigrizia, per educazione passiva, allora è un conformismo. [...] Gli uomini di profondo senso religioso non si scandalizzano mai. Cristo non si è mai scandalizzato. Si scandalizzavano i farisei».

L'intervista a Moravia gioca quindi un ruolo fondamentale nell'economia complessiva del film-inchiesta di Pasolini, offrendo un apporto notevole e decisivo alla tematizzazione e al dibattito pubblico dei principali aspetti culturali connessi alla questione sessuale, e contribuendo così significativamente alla "liberazione" dalla rigida morale cattolica e ai processi di caduta dei tabù dell'osceno che interesseranno l'Italia soprattutto a partire dagli anni Settanta.52

 

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VI. I "mostri borghesi" della commedia all'italiana

Il panorama culturale italiano del secondo dopoguerra risulta poi indubitabilmente contrassegnato da un filone cinematografico che - seppur per vie e approdi differenti e talvolta inediti - ci restituisce comunque brillantemente una propria versione della borghesia italiana. Mi riferisco in particolare alla commedia all'italiana, tra le cui principali e peculiari novità troviamo la sua capacità di «far ridere con personaggi repellenti e che al tempo stesso invitano all'identificazione. E questi personaggi spesso sono borghesi».53 Nata a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, la "commedia all'italiana" si viene perciò da subito a contraddistinguere per la sua satira di costume e l'ambientazione preferibilmente borghese, spesso caratterizzate da una sostanziale amarezza di fondo, che stempera i contenuti comici. Si ascoltino, per esempio, le parole dello sceneggiatore per eccellenza della "commedia all'italiana", ossia Rodolfo Sonego: «Per la prima volta affrontammo l'idea di un uomo italiano medio, un uomo di confusione capace di tenere il piede in più staffe. Si trattava della storia di un giovanotto borghese piuttosto vile, irresponsabile [...] e stronzo».54
Più precisamente è la borghesia romana a essere rappresentata dalla commedia all'italiana, in quanto filone cinematografico creato da Cinecittà e inizialmente quindi ambientato spesso a Roma, con attori romani o, ancor più spesso, romani d'adozione (quali ad esempio Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi). Uno degli affreschi cinematografici più rappresentativi dell'Italia del benessere e del miracolo economico di quegli anni è costituito senza dubbio da uno dei capolavori della commedia all'italiana, Il sorpasso (Dino Risi, 1962), le cui scene iniziali ci restituiscono fedelmente la cosiddetta Balduina, il quartiere romano abitato negli anni Sessanta da numerosi attori e cantanti, e per questo simbolo per eccellenza del boom economico.
Il forte taglio di critica sociale e di costume è ben testimoniato dai due protagonisti del film, Bruno Cortona (Vittorio Gassman) e Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant), i quali incarnano ottimamente, da un lato, l'alta borghesia arrivista e ridanciana, e, dall'altro lato, la piccola borghesia romana lavoratrice, animata invece da sane e tradizionali virtù familiari: con quest'ultima destinata a una misera caduta e alla morte, lasciando campo libero all'Italia di Bruno, furbesca, individualista e amorale.55
Roberto e Bruno - così come le località balneari toccate dal loro insolito e casuale viaggio a due lungo la Via Aurelia - ben incarnano inoltre la contrapposizione geografica e simbolica che separa Roma sud - simboleggiata dal mare popolare di Ostia - e Roma Nord, rappresentata invece da Fregene e dalle sue "varianti" più "settentrionali" (San Nicola, Santa Marinella, Pescia Romana). Si tratta di una contrapposizione che trascende le semplici differenze geografiche, per giungere a riflettere semmai un'antitesi sociale e identitaria. Tanto che, come ci rammenta Angelo Mellone,

«i due lidi, dalle storie così differenti, ancora oggi accolgono tipologie diverse di romani e forme differenti di turismo locale: Ostia, col suo aspetto di città di medie dimensioni tra grandi strade e casermoni, è più popolare, Fregene è tipicamente borghese, con le belle ville sotto la pineta a testimoniare un passato prossimo di raffinate frequentazioni, i ristoranti dai prezzi molto pretenziosi, gli stabilimenti balneari che ammiccano alle tendenze più esclusive - soprattutto - della Versilia più qualche altra trovata transoceanica».56

La topografia romana e il contesto borghese dei primi anni Sessanta riaffiorano prepotentemente anche in successivi film del già citato Risi: uno fra tutti, I mostri (1963). Tra i venti episodi che lo compongono, quelli borghesi si distinguono per la loro indescrivibile ferocia, come nel caso del breve quanto intenso Scenda l'oblio, ambientato in una sala cinematografica, dove marito e moglie commentano la foggia del muretto - contro cui i nazisti del film a cui stanno assistendo hanno appena fucilato delle vittime - pensando di costruirsene uno uguale nella loro villa. Siamo di fronte a una borghesia raffigurata insomma in tutte le sue deficienze: una «borghesia che ostenta consumi culturali alti ma ha perso il senso della Storia, nonché della tragedia».57
Un ulteriore arguto ritratto della borghesia romana di quegli anni ci proviene da una commedia quale Il boom (Vittorio De Sica, 1963), in cui troviamo Giovanni Alberti, declinazione umoristica e grottesca della già evocata figura del palazzinaro, in questo caso fortemente indebitato a causa delle sue scarse capacità negli affari ma soprattutto del suo elevato tenore di vita, che purtuttavia egli si sforza di mantenere anche per le pressioni della bella e frivola moglie Silvia.
Le commedie "amare" da noi sopra esaminate ben rappresentano inoltre, a ben vedere, un «tentativo - velleitario, fin che si vuole, grottesco, gaglioffo ma a suo modo rivelatore - di inventare codici comportamentali, intrecci relazionali e stili di vita con cui raccontare un'italianità che voleva essere borghese senza avere le credenziali storiche, etiche e financo economiche per poterlo essere davvero».58 Si pensi, a tal proposito, agli ultimi esiti a cui perviene la commedia all'italiana. Mi riferisco, in particolare, a un film quale Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977), il quale segna un'inversione decisa e irreversibile dal comico al drammatico.
Tratto dall'omonimo romanzo di Vincenzo Cerami del 1976, Un borghese piccolo piccolo mette in scena l'"abisso" in cui piomba la società borghese italiana di fine anni Settanta. Rappresentante insuperato di tale fase storico-sociale risulta la figura del funzionario pubblico, splendidamente impersonato - nel film in esame - dal protagonista Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi), modesto impiegato ministeriale sulla soglia della pensione. Discendente diretto degli impiegati papalini dello Stato Pontificio - come pure poi dei "servitori" del nuovo Stato unitario italiano - il funzionario pubblico costituisce un topos classico (e ancora attuale) del "romanismo", come ben restituitoci già sin dai vividi ritratti impiegatizi offertici a suo tempo da Edmondo de Amicis.59
Proprio per questa sua natura di «custode di un altro ordine secolare immenso e immobile» e di rappresentante di «uno stile di vita che le abitudini, il clima, lo spirito urbano particolarissimo, a Roma hanno trasformato in un tipo stracittadino peculiare»,60 il funzionario pubblico è stato abbondantemente raffigurato e raccontato dal cinema nostrano, a partire dal povero impiegato ministeriale Policarpo De' Tappetti - e il cavalier Pancarano, suo terribile capufficio - in Policarpo, ufficiale di scrittura (Mario Soldati, 1959). Come dimenticare poi Ercole Pappalardo, protagonista di Totò e i re di Roma (Steno, Mario Monicelli, 1952), oscuro archivista ministeriale che si trova preclusa ogni prospettiva di carriera per il sol fatto d'aver starnutito in testa al suo direttore? Le avventure e (soprattutto) le sventure della borghesia impiegatizia ben illustrateci dal suddetto fortunato "filone impiegatizio" - nel quale si annoverano anche pellicole quali Il cappotto (Alberto Lattuada, 1952) e L'impiegato (Gianni Puccini, 1960) - assumono poi contorni quanto mai inquietanti e "mostruosi" nel già citato Un borghese piccolo piccolo.
Il film di Monicelli ci restituisce inoltre un'ulteriore cifra caratteristica dell'impiegato borghese, ossia la sua intrinseca condizione economica di intermediario, anziché di produttore diretto di ricchezza: carattere che rende il ceto sociale impiegatizio romano del tutto subordinato, sul piano politico e culturale, all'élite costituita dalle classi sociali dominanti. Proprio tale posizione intermedia tra popolo ed élite costituiva d'altronde un tratto caratteristico del già citato generone, rendendo inoltre quest'ultimo inviso e impopolare agli occhi delle classi sottoposte.61
Per i suoi tratti spietatamente tragici, Un borghese piccolo piccolo è tutt'oggi considerato dai critici cinematografici «una pietra tombale sulla commedia all'italiana»,62 in quanto - come si è visto - il regista vi sembra affermare l'«irrappresentabilità degli italiani, per perdita irreversibile di tutti i caratteri positivi».63

 

§ VIII. I nuovi "idealtipi" della borghesia romana del terzo millennio Torna al sommario dell'articolo

 

VII. Il "generone" redivivo: da Ettore Scola a Nanni Moretti

Il generone romano tuttavia non smetterà mai di essere rappresentato dal cinema nostrano. Una menzione particolare merita a tal proposito la serie di "studi" cinematografici sulla borghesia romana firmati da Ettore Scola. Mi riferisco innanzitutto al film La famiglia (1987), ritratto di una famiglia borghese italiana vista dall'interno di un appartamento del rione Prati di Roma, dal 1906 al 1986: il protagonista Carlo è seguito infatti dal suo battesimo fino all'ottantesimo compleanno, attraverso riunioni e foto di gruppo di famiglia.
Attraverso tale suo «film elegiaco e malinconico sulla borghesia, un film dall'interno, pieno di nostalgia e privo di odio»,64 il film di Scola testimonia in modo esemplare la sopravvivenza metamorfica e trasformista, lungo l'intera storia dello Stato unitario italiano, del generone romano, illustrandoci inoltre un'ulteriore costante tipica della galassia borghese romana, ossia il centro di ritrovo e di riferimento identitario costituito dal "circolo", definito non a caso da Alberto Statera come «il più antico cuore del generone borghese, che nei secoli ha visto di tutto».65
Sin dall'Ottocento66 il circolo si presenta quale autentico status symbol borghese romano, giungendo - ai giorni nostri - ad assumere contorni viepiù esasperati e financo classisti di appartenenza sociale, consentendo «la possibilità di esibire la spilletta o la cravatta con su il simbolo del proprio costoso perimetro di privilegi e prestazioni garantite».67
Meglio di qualunque altro luogo o spazio urbano, i circoli riescono a incarnare quei «fitti intrecci di grandi e piccole complicità»,68 che risultano tra i caratteri maggiormente distintivi della capitale romana.
Il più pregnante e gustoso ritratto di tali identitari e variegati microcosmi di borghesia romana ci viene tratteggiato da Mellone, il quale ci informa di come proprio nei suddetti circoli

«si fanno e disfano assessori, ministri, presidenti di enti pubblici, comitati, commissioni, si presentano candidature, si discutono libri di personaggi famosi, si sponsorizzano carriere sportive, si decidono mode e dunque s'arricchiscono l'artista, il pittore, il designer, lo chef, il gallerista del momento, si fa beneficienza autoassolvente e soprattutto si rinnovano costantemente riti di appartenenza all'egemonia pubblica della forma evoluta del generone romano».69

I consolidati rituali celebrati all'interno dei circoli borghesi e le meschine evoluzioni (o involuzioni) imboccate dal generone romano non sfuggono ovviamente neanche alla cinematografia italiana più recente, come nel caso dell'ormai già cult Vacanze di Natale (Carlo Vanzina, 1983), antesignano del fortunato filone cinematografico del «cinepanettone».70 Ambientato a Cortina d'Ampezzo - meta turistica esclusiva delle vacanze natalizie per le famiglie italiane più ricche e rinomate dell'epoca -, il film si focalizza soprattutto sui Covelli, famiglia romana di ricchi costruttori edili, in cui si distinguono l'annoiato e disilluso pater familias Giovanni Covelli, e la sua classista quanto schizzinosa consorte, diffidente verso l'"espansione incontrollata" dei "Torpignattari".
Diverse analisi critiche hanno restituito all'opera dei Vanzina «il merito di essere riuscita a fotografare direttamente, senza filtri, le caratteristiche e le contraddizioni degli anni Ottanta connotati da un benessere percepito crescente, e da classi sociali nuove (nuovi ricchi accanto a piccolo borghesi o proletari speranzosi di ascesa sociale)».71 Dietro tale disincantata rappresentazione si cela a ben vedere il pensiero vanziniano riguardo ai falsi miti e contraddizioni interne della classe borghese romana, come ben testimoniato dal seguente testo semiautobiografico dello stesso Enrico Vanzina: «Qui non esiste una vera borghesia. Esistono molti arricchiti che invece di mandare i figli a Oxford li iscrivono al Circolo Canottieri. Perché qui conta più una laurea in calcetto che quella in business administration».72
D'altronde - come ben messo in luce da Rocco Moccagatta - nel film in questione «i Vanzina sono imbattibili nel mettere in scena (e alla berlina, ma senza acredine, con la sconsolata simpatia un po' compassionevole che si deve ai propri pari) quei borghesi e le loro manie, paturnie, ossessioni, la loro disperata ricerca di legittimazione culturale».73
Procedendo ora verso le ulteriori vie percorse dal cinema italiano degli ultimissimi decenni nella rappresentazione della borghesia, un discorso a parte merita un autore quale Nanni Moretti, capace di rimeditare la propria appartenenza romano-borghese attraverso un proprio personale discorso identitario di auto-rappresentazione. Ciò è particolarmente ravvisabile in Caro diario (1993), il cui vagabondare erratico del protagonista in Vespa attraverso i quartieri di una Roma estiva e semideserta traccia una "topografia borghese" nient'affatto dissimile da quella moraviana. È quanto confermato dalla giornalista e scrittrice Sandra Petrignani, alla quale non sfugge l'analogia tra il discorso autoriale di Moravia e quello di Moretti: «Moravia era Roma, era un pezzo della città, oggi l'unico che ti fa pensare a questo è Nanni Moretti e anche lì c'è una personalità particolare con un tragitto fuori dagli schemi. Roma non si può ereditare, la devi conquistare».74

 

§ IX. La "borghesia intellettuale di sinistra": da «La terrazza» a «La grande bellezza» Torna al sommario dell'articolo

 

VIII. I nuovi "idealtipi" della borghesia romana del terzo millennio

Con l'approdo agli anni Duemila, il discorso sulla borghesia assume poi nuovi tratti e valenze, imponendo innanzitutto una discussione sulla legittimità attuale dell'appellativo classificatorio di «borghese», alla luce innanzitutto della progressiva dissoluzione e dell'irreversibile impoverimento dei ceti intermedi, «in un momento storico [come il nostro] in cui gli stessi contorni della borghesia sbiadiscono sotto una progressiva perdita di specificità di classe».75 Se nel 1895 Max Weber poteva orgogliosamente affermare di essere «un membro della classe borghese, [di sentirsi] tale e [di essere] stato educato alle sue idee e ai suoi ideali»,76 e se, ancora un secolo dopo, Immanuel Wallerstein poteva scrivere di non conoscere «alcuna lettura storica seria del nostro mondo moderno in cui sia del tutto assente il concetto di borghesia, [in quanto risulta] difficile raccontare una storia in cui manchi il protagonista principale»,77 oggi invece difficilmente qualcuno potrebbe ripetere quelle affermazioni.
È quanto ci fa brillantemente notare il già citato Moretti, secondo il quale,

«non molto tempo fa, questo concetto [di "borghese"] sembrava indispensabile all'analisi sociale; oggi invece possono passare anni senza che se ne parli. Anche se il capitalismo è più potente che mai, la sua incarnazione sembra essere svanita nel nulla. [...] Le "idee" e gli "ideali" borghesi: ma che cosa sono [oggi]?».78

Ciò che ora attira la riflessione di molti autori e studiosi riguarda infatti la persistenza o meno della borghesia in quanto tale nella società (non solo italiana) del terzo millennio. È quanto sollevato da un recente saggio firmato nel 2004 da Aldo Bonomi, Massimo Cacciari e Giuseppe De Rita, dall'emblematico titolo: Che fine ha fatto la borghesia?.79
Parallelamente a tali scettiche riflessioni sulla persistenza attuale della borghesia, risulta però altrettanto evidente un'autentica "proliferazione borghese" nel cinema italiano degli anni 2000: Paolo Virzì, Gabriele Muccino, Ferzan Özpetek, Daniele Luchetti, Giovanni Veronesi e Paolo Genovese sono tutti narratori della borghesia, spesso romana, alla quale in molti casi essi stessi appartengono. Uno dei casi maggiormente emblematici è costituito da Gabriele Muccino, figlio di impiegati Rai, che «di questi quartieri, di queste estrazioni, di questi modi di pensare ha fatto il suo cinema e la sua fortuna».80 Tale ambientazione borghese romana a cui Muccino guarda costantemente risulta infatti ottimamente rappresentata dallo skyline di molti suoi film: dai Parioli e l'EUR de L'ultimo bacio (2001), al rione Prati - quartiere della Rai e del Tribunale, confinante con lo stadio Olimpico da una parte, e con la maestosità di San Pietro dall'altra - il quale si presenta quale location ideale per storie di adolescenti, occupazioni scolastiche, amori, pruriti sessuali - come nel caso di Come te nessuno mai (2000) - ma anche per raffigurazioni di quella borghesia "sfasciata" della quale ci ha parlato anche Luigi Malerba.81
Muccino porta inoltre in scena un'ulteriore categoria borghese, tanto ben riconoscibile e definita da rappresentare ormai nell'immaginario collettivo un ben preciso e inconfondibile idealtipo di borghese romano, quarantenne/cinquantenne in piena crisi depressiva e smarrimento sentimentale di mezza età. L'habitat naturale di tale idealtipo borghese è costituito appunto dalla Roma «mucciniana»,82 fondale urbano composto dai quartieri ricchi romani - con i loro ristoranti, scalinate e licei storici -, dall'isola Tiberina e dal laghetto dell'EUR.
Uno skyline urbano sostanzialmente analogo costituisce inoltre l'ambientazione preferenziale a cui attingono a piene mani altri vari registi contemporanei, quali Fausto Brizzi, Paolo Genovese, Giovanni Veronesi, senza dimenticare la recente produzione letterario-cinematografica di Federico Moccia. Le generazionali e roboanti faccende amorose e amicali dei personaggi di Moccia - spesso adolescenti in procinto di compiere il proprio primo ingresso nella loro "maturità borghese" - si agitano in particolare attorno a Ponte Milvio,

«altro quartiere di dominio borghese, altra zona attaccata al cuore di Roma, leggermente a Nord del centro, attaccata al Flaminio e alle falde dei Parioli. Si affaccia sui colli della Farnesina, della Camilluccia e del Fleming, verdissimi e zeppi di pini, di garages pieni d'auto e di cancelli automatici. [...] Nella fetta di territorio che abbraccia questi agiati e analoghi quartieri vive "la meglio cittadinanza" romana: gente "per bene", che bene veste, bene viaggia e bene fa sport ed affari».83

Analoghe istanze generazionali inserite in analoghi scorci urbani romani riaffiorano in certa cinematografia di Giovanni Veronesi, in particolare in Che ne sarà di noi (2004), incentrato sulla storia di tre diciannovenni figli della borghesia romana, "fotografati" sul delicato crinale tra l'età adolescenziale e l'imminente età "adulta", alle prese con angosce e incomprensioni famigliari, causate in particolare da figure genitoriali inette e nevrotiche.
Negli anni Duemila l'ambiente borghese romano risulta inoltre quanto mai attraente anche agli occhi di registi in origine estranei a quella temperie. È questo il caso di Paolo Virzì, il quale, dopo aver raccontato il proletariato livornese, si accinge a osservare gli usi e i costumi della Roma borghese dei professionisti e dei licei: emblematica la sua Caterina che va in una città (Caterina va in città, 2003) - Roma, appunto - dominata da monumenti e da colori pastello, rimanendo interdetta ma al contempo attratta da quelle dinamiche sociali di benessere socioeconomico. È questo inoltre il caso di Francesca Archibugi, la quale, dopo aver descritto con scoramento la vita dei quartieri romani più disagiati e problematici in un film quale L'albero delle pere (1998), dieci anni dopo, con Lezioni di volo (2007), sposta il proprio obiettivo sulle vite di due diciottenni appartenenti a famiglie oltremodo agiate residenti nell'altoborghese via del Babuino.

 

§ X. La "sopravvivenza" della borghesia moraviana: l'attualità de «Gli indifferenti» Torna al sommario dell'articolo

 

IX. La "borghesia intellettuale di sinistra": da «La terrazza» a «La grande bellezza»

La nostra indagine non può infine non rivolgersi a un'ultima categoria tipica e di assoluto rilievo nella borghesia romana degli ultimi decenni: mi riferisco alla cosiddetta "borghesia intellettuale di sinistra".
Punto di riferimento ineludibile risulta in tal senso un film quale La terrazza (1980) del già citato Scola, interamente ambientato durante una serata mondana nella terrazza di un grande appartamento romano, e che rappresenta una patetica raffigurazione di coloro che, qualche anno dopo, verranno etichettati come "radical chic", qui ripresi nei loro riti famelici di cibo e sesso: artisti, intellettuali, cineasti, editori, produttori, sceneggiatori, funzionari televisivi, scrittori e soprattutto uomini di potere (spesso politici piuttosto mediocri), appartenenti tutti però saldamente alla sinistra.
Quella delineata da Scola rappresenta una variegata e disperata fauna borghese romana, esemplarmente restituitaci anche da diverse recenti pagine di letteratura, come ben testimoniato da un'altra "serata terrazzata" di cui ci dà conto - in maniera ironica e gustosa - Antonio Pascale in un suo recente e appassionato volume semiautobiografico:

«Sabato 28 ottobre 2006 partecipai a una festa su una bella terrazza romana. Come da consuetudine, una buona parte della serata trascorse in atti performativi. In gran parte noi partecipanti - attori, sceneggiatori, scrittori - ci impegnammo a dire la nostra sugli ultimi film visti e libri letti [...]. Nella seconda parte della serata, quando gli atti performativi avevano portato ciascuno di noi a raggiungere un'identità ben definita (e in ragione di tale traguardo s'era messo in atto un processo di selezione culturale tra i partecipanti), prese avvio la fase di rilassamento, altro momento topico delle feste - non so dire se sia una caratteristica solo delle feste romane. Ognuno fece gruppo con quelli che trovava più simili e interessati a una certa grana della conversazione».84

Un insuperabile ritratto di tale categoria di borghesia romana ci viene poi fornito con un'inusitata dovizia di particolari da un film quale La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). Particolarmente rappresentativo della borghesia sorrentiniana risulta ovviamente il "re dei mondani" Jep Gambardella (Toni Servillo). In quel teatrino confuso e annoiato di amici intimi e compagni di sventure - tutti rigorosamente borghesi - a cui Jep partecipa ogni notte, le parole di quest'ultimo risuonano in tutta la loro allarmante e disperata lucidità: «Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, prenderci un po' in giro...».
Come argutamente evidenziato da Sciltian Gastaldi, la tesi rappresentata da Sorrentino risulta quanto mai terribilmente attuale, mettendo bene in luce e senza alcun filtro «la decadenza della borghesia di sinistra e romana. [...] Una società romana cocaino-caino-borghese, over-50, di sinistra puzzettara e pseudo artistica, legata a un partito comunista che non esiste più, proprio a partire dall'egemonia culturale sul cinema».85
A ben vedere, tanto de La grande bellezza era già stato preconizzato in nuce, quasi un secolo prima, da Gli indifferenti, tanto da indurre Stefano Ciavatta a sostenere come il romanzo d'esordio moraviano fosse certamente presente nella libreria ideale di Jep Gambardella.86

 

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X. La "sopravvivenza" della borghesia moraviana: l'attualità de «Gli indifferenti»

Ogni riflessione odierna su Moravia e la borghesia conduce quindi inevitabilmente a chiedersi quanto e se la Roma borghese de Gli indifferenti sia ancora in qualche modo presente ai nostri giorni. Una risposta di parere negativo ci viene offerta a tal proposito da Vincenzo Cerami, secondo il quale «la borghesia raccontata da Moravia è sparita nell'indistinto del generone, polverizzata nel rito dei circoli».87
Su tale questione si è interrogata inoltre la scrittrice e sceneggiatrice romana Teresa Ciabatti, secondo la quale

«la Roma letteraria di Moravia non c'è più. L'arcipelago Roma è impossibile da agguantare [...]. Per questo Roma va trattata come Los Angeles, non come le altre città d'Italia. [...] Pariolini sono anche quelli che abitano in fondo sulla Cassia oppure all'Eur. A corrispondere è l'estetica più che la geografia. Idem per la periferia. Piazza Vittorio è il nuovo centro degli intellettuali, come Monti. Ma i confini sono fatti dalle persone: se il regista famoso va a piazza Vittorio anche quel posto viene inglobato nel centro storico».88

Sull'attualità moraviana si sono d'altronde recentemente interrogate anche Clotilde Bertoni e Chiara Lombardi, le quali, al fine di dirimere la questione, hanno deliberatamente scelto di ripartire proprio da talune etichette intorno a cui - talvolta a ragione e spesso a torto - l'autore Moravia è stato da sempre incardinato e ostracizzato.89 Tale perdurante ostracismo si troverebbe tutt'oggi alimentato da una presunta difficoltà al recupero attuale di Moravia, in quanto - come messo in luce da Lorenzo Marchese - «per Moravia molto di più che per altri autori, è difficile leggerlo scindendolo da questioni del Novecento che non ci appartengono più: cioè la borghesia come blocco compatto, il fascismo come atmosfera culturale, il mondo diviso in blocchi contrapposti».90
In tal senso, non risulta affatto peregrino interrogarsi se sia rimasto qualcosa di Moravia nella narrativa contemporanea italiana. A tale domanda ha tentato di rispondere il recente convegno aquilano su Gli indifferenti,91 il quale ha peraltro confermato come Moravia sia stato "tante cose" insieme, e come, a ben vedere, il suo messaggio e la sua indagine sulla borghesia non risultino poi così inattuali come molti invece vorrebbero far credere, dal momento che - come ben evidenziato dalla Bertoni - «la società borghese è, sì, passata per metamorfosi, imitazioni, ma è rimasta. La borghesia non è finita. La borghesia c'è ancora: è una serie di tranelli, di mistificazioni, di alambicchi della malafede».92 Proprio la sopravvivenza attuale della borghesia costituirebbe quindi la migliore garanzia dell'attualità di Moravia, il quale può quindi parlarci ancora, venendo così ad assumere in qualche modo la valenza di un "passato che non passa".
A ulteriore riprova della "sopravvivenza" di Moravia basti pensare all'incessante attività di trasposizione cinematografica ricavata dalla sua intera opera, come ben testimoniato dalla recentissima terza versione cinematografica de Gli indifferenti (Leonardo Guerra Seràgnoli, 2020), dopo la prima realizzata da Francesco (Citto) Maselli nel 1964 e la seconda girata da Mauro Bolognini sotto forma di miniserie televisiva nel 1988.
Alquanto chiarificatrice risulta in particolare l'evocativa testimonianza di Citto Maselli, che ci restituisce tutta la portata letteraria e culturale acquisita da Gli indifferenti agli occhi di intere generazioni di cineasti (e non solo):

«Per la mia generazione, [Gli indifferenti] è stato un libro formativo. E per me in modo particolare: l'ho trovato nella libreria di mio padre che avevo dodici anni... Mi sono così riconosciuto nella figura di Michele che nei miei primi film - Gli sbandati e I delfini - i miei personaggi erano come lui: giovani testimoni sofferti e sofferenti delle contraddizioni profonde della borghesia dell'epoca».93

Dal nutrito corpus di casi cinematografici da noi sin qui esaminati - come pure già dal romanzo d'esordio moraviano a cui in varia misura essi guardano - emerge in definitiva, da un lato, un ritratto assai complesso e ambiguo della borghesia e, dall'altro, il ruolo di intellettuale atipico rivestito da Moravia, il quale «non teme di dissacrare la morale, la pruderie, i tabù correnti: difatti, se le sue prime opere vengono osteggiate in forma via via più drastica dal regime fascista, quelle successive urtano di frequente contro i rigori della censura democristiana».94 Tale coraggio e tale libertà moraviani si possono cogliere in tutta la loro evidenza per l'appunto nelle modalità con cui egli si fa critico e polemico indagatore della borghesia.
La rappresentazione borghese operata da Moravia risulta tanto più coraggiosa se solo analizzata dal nostro punto di osservazione di noi lettori/spettatori di oggi, in un momento storico quale quello attuale, in cui - come acutamente messo in luce da Francesco Rabissi -

«qualunque manifestazione di dissenso è trasformata in spettacolo - in modo da creare tra denuncia e denunciato un circolo vizioso che cancella, in nome della presunta uguaglianza del pensiero unico, qualsivoglia forma di diversità e differenza - [e in cui] diventa ancora più difficile opporsi all'immaginario dominante e analizzare gli eccessi dell'egemonia capitalista senza cadere negli stereotipi drammatici dell'eroismo dell'uomo comune o nei clichés dello smascheramento della falsa coscienza borghese».95

La statura della lezione moraviana risulta inoltre tanto più apprezzabile se solo si pensa a un curioso paradosso ben documentatoci da Edoardo Zaccagnini a proposito del cinema italiano contemporaneo: mentre

«il cinema che parla di "proletariato" è accessibile solo ad un pubblico borghese, [...] il cinema che parla del mondo borghese è perfetto per le masse. Perché i registi che affrontano le tematiche dei primi, dei ragazzi sfortunati, risultano essere i cosiddetti autori e come tali adottano un linguaggio estremamente ribelle a quello imposto dai codici televisivi. I secondi, invece, i registi borghesi che raccontano il proprio ombelico, il proprio microcosmo, sanno benissimo esportarlo grazie al veicolo linguistico fornito dalla tv, sia in fatto di stile che di temi».96

L'attualità della borghesia romana moraviana risulta inoltre confermata dalla sopravvivenza (etimologica, sociale e culturale) di categorie quali quella del generone e quella dei funzionari pubblici romani. Categoria, quest'ultima, tanto radicata nella società italiana da indurre addirittura il Servizio opinioni Rai degli anni Sessanta a prevedere fra i suoi tipi medi - oltre alla celebre "casalinga di Voghera", al "bracciante pugliese" e all'"operaio di Sesto San Giovanni" - anche, per l'appunto, l'"impiegato pubblico romano".
Gli esempi letterari e cinematografici da noi esaminati ben ci restituiscono inoltre la complessità dell'individuo borghese romano, creatura al contempo enigmatica, idealista e mondana, dedita all'autocompiacimento materiale ma anche al rispetto della vecchia "ortodossia borghese".
Tutti i suddetti caratteri rendono in particolare le opere di Moravia tuttora interessanti e "fertili", oltre che, a ben vedere, mai fino in fondo assimilabili e imitabili. Ciò rimanda prepotentemente a un ulteriore aspetto che anima in primis appunto un'opera quale Gli indifferenti, ovvero quella sua capacità di pungolare il lettore del Novecento come pure quello del nuovo millennio, svelandogli in qualche modo tutta la propria inettitudine e l'inefficacia delle proprie risoluzioni. Mettendo a fuoco con spietata accuratezza l'individuo borghese, il romanzo d'esordio moraviano ci restituisce a ben vedere l'uomo in quanto tale, nella sua universale humaine condition, riconducendo tutte le sue colpe a un più ancestrale e immutabile "peccato originale".
Alla luce di ciò, Gli indifferenti indica in modo limpido ed esemplare la direzione che il romanzo borghese moderno è chiamato a seguire: come ben illustratoci infatti da Ugo Dotti,

«Moravia ritiene che la grande questione del romanziere moderno sia quella di dare consistenza umana ai "più misteriosi e contraddittori istinti" che si agitano in lui, che gli provengono da una situazione storica data e che il filtro della sua personale soggettività e sensibilità misteriosamente riplasma in creature artistiche».97

Abbracciando tale metodologia operativa, con Gli indifferenti il giovane Moravia scopre e fa suo il personaggio storico del borghese di fine anni Venti, e «non lo abbandona più, seguendolo non già nei suoi problematici scontri reali e oggettivi con la storia, bensì unicamente nella sua presunta condizione esistenziale d'uomo inconcludente e ossessivamente nevrotico».98
Così facendo, Moravia collega a ben vedere la disintegrazione morale e sociale dei propri personaggi borghesi alla più ampia e universale condizione di crisi dell'uomo moderno. Come rilevato infatti da Enzo Siciliano, l'indifferenza "prismatica", l'ambiguità del desiderio e le rimozioni psichiche, veicolate dai personaggi borghesi del romanzo d'esordio moraviano, riguardano a ben vedere noi tutti.99 In tal senso - a valida conclusione della nostra presente trattazione - possono soccorrerci le acute osservazioni di Alessandra Grandelis, secondo la quale «Gli indifferenti sono ancora veicolo di conoscenza, nel nuovo millennio, e ci parlano attraverso quei protagonisti che si aggirano [...] in una Roma moderna e affollata o tra le pareti di una villa [...]. Insieme a Carla, entra in scena un frammento di vita che ancora ci appartiene».100

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gennaio-maggio 2022, n. 1-2